Risarcibili, oltre al danno morale, tutte le tipologie di danno che arrecano un peggioramento della qualità della vita (Cass. n. 20292/2012)

Redazione 20/11/12
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Svolgimento del processo

Nel febbraio del 1995 i componenti superstiti della famiglia A. ed L.A. evocarono in giudizio, dinanzi al tribunale di Matera, D.L.E., la s.n.c. Di Lecce & C. e la s.p.a. Fondiaria assicurazioni, chiedendone la condanna in solido al risarcimento dei danni subiti in conseguenza della morte del proprio congiunto, An.Gi., deceduto a seguito delle lesioni riportate nel sinistro stradale di cui era rimasto vittima mentre si trovava a bordo dell’autovettura guidata dal D.L..

Il giudice di primo grado accolse la domanda, condannando i convenuti in solido al pagamento della somma:

– di circa 35 mila Euro in favore degli eredi del defunto per danni ad essi riconosciuti iure haereditario;

– di 75.000 Euro in favore della madre;

– di 50.000 Euro in favore del padre;

– di 6000 Euro in favore di ciascun fratello;

– di 2.435 Euro in favore del solo An.An. per spese funebri.

La corte di appello di Potenza, investita del gravame proposto dagli attori costituiti in prime cure, lo accolse in parte qua, provvedendo ad una più congrua liquidazione dei danni lamentati dagli appellanti.

La sentenza è stata impugnata dagli eredi A. con ricorso per cassazione sorretto da sette motivi di doglianza.

Resiste la compagnia assicurativa con controricorso integrato da ricorso incidentale a sua volta illustrato da 2 motivi di censura (cui resistono con controricorso gli A. e la L.).

L’avv. ********, difensore dei ricorrenti principali, ha depositato brevi note scritte ex art. 379 c.p.c., in replica alle conclusioni rassegnate dal P.G. all’odierna udienza di discussione.

Motivi della decisione

Entrambi i ricorsi riuniti devono essere rigettati.

Vanno congiuntamente e preliminarmente esaminati il primo, il terzo e il sesto motivo del ricorso principale, attesane la intrinseca connessione logico-giuridica.

Con il primo motivo, si denuncia violazione e falsa applicazione di norme di diritto ex art. 360 c.p.c., n. 3, in relazione agli artt. 2043, 2059, 1223 c.c.; omessa o quantomeno insufficiente motivazione ex art. 360 c.p.c., n. 5, in ordine ai criteri di liquidazione adottati e inerenti la valutazione del danno alla serenità familiare – parziale esame della res iudicanda.

Con il terzo motivo, si denuncia violazione e falsa applicazione di norme di diritto ex art. 360 c.p.c., n. 3, in relazione agli artt. 2043, 2059, 1223 c.c.; omessa o quantomeno insufficiente motivazione ex art. 360 c.p.c., n. 5, in ordine ai criteri di liquidazione adottati e inerenti la valutazione del danno alla vita di relazione – parziale esame della res iudicanda.

Con il sesto motivo, si denuncia violazione e falsa applicazione di norme di diritto ex art. 360 c.p.c., n. 3, in relazione agli artt. 2043, 2059, 1223 c.c.; omessa o quantomeno insufficiente motivazione ex art. 360 c.p.c., n. 5, in ordine ai criteri di liquidazione adottati e inerenti la valutazione del danno edonistico – parziale esame della res iudicanda.

Le censure – che lamentano la mancata liquidazione, in guisa di autonome voci di danno, di ciò che di converso risulta il pluralistico aspetto di un’unica conseguenza dannosa della condotta illecita, non hanno giuridico fondamento. Esse si infrangono, difatti, oltre che sul corretto impianto motivazionale della sentenza impugnata – nella parte in cui si legge che “le uniche componenti di danno non patrimoniale sono date dal danno esistenziale e dal danno morale subbiettivo, invocando erroneamente gli appellanti, con terminologie diverse, quel che in realtà era la medesima voce di danno, prevalentemente indicata con la locuzione unificante di danno esistenziale” -, sul recente dictum delle sezioni unite di questa corte (cui il collegio ritiene di dover dare continuità), in conseguenza del quale (sentenze nn. 26972 e ss. dell’11 settembre del 2008), è stato ricondotta a formale unità la categoria del pregiudizio non patrimoniale di cui all’art. 2059 c.c., e contemporaneamente predicata la unicità e la centralità, ex Constitutionis, della persona, con conseguente, necessaria integralità del risarcimento del (“valore” uomo e del) danno non patrimoniale.

Si è dunque escluso tout court che una stessa tipologia di danno possa frammentarsi in singole sottovoci (quelle oggi rappresentate a questa corte dai ricorrenti) onde evitare che tale frammentazione si risolva, in realtà, in una illegittima moltiplicazione di poste risarcitorie.

Il principio appare predicabile, in particolare, con riferimento alle fattispecie della serenità familiare, della vita di relazione, del danno edonistico oggi evocate in ricorso, e tanto è a dirsi non perchè tali aspetti e tali dimensioni della sfera personale non abbiano una propria autonomia e una propria dignità ontologica, o perchè non rilevino in diritto, ma perchè destinate ad una sintesi ex iure caratterizzata da una dimensione risarcitoria “funzionale” sostanzialmente unitaria, sia pur con le precisazioni che di qui a breve seguiranno, nell’esaminare il secondo motivo del ricorso principale (e con esso il secondo motivo di quello incidentale).

Con il quarto motivo, si denuncia violazione e falsa applicazione di norme di diritto ex art. 360 c.p.c., n. 3, in relazione agli artt. 2043, 2059, 1223 c.c.; omessa o quantomeno insufficiente motivazione ex art. 360 c.p.c., n. 5, in ordine ai criteri di liquidazione adottati e inerenti la valutazione del danno biologico iure haereditatis – parziale esame della res iudicanda.

Con il quinto motivo, si denuncia violazione e falsa applicazione di norme di diritto ex art. 360 c.p.c., n. 3, in relazione agli artt. 2043, 2059, 1223 c.c.; omessa o quantomeno insufficiente motivazione ex art. 360 c.p.c., n. 5, in ordine ai criteri di liquidazione adottati e inerenti la valutazione del danno biologico iure proprio – parziale esame della res iudicanda.

I motivi, da esaminarsi a loro volta congiuntamente, sono destituiti di fondamento.

Quanto al danno biologico direttamente riconducibile alla persona del defunto (e dunque, in ipotesi, trasmesso agli eredi iure haereditatis) la sentenza impugnata si conforma al consolidato insegnamento di questa corte regolatrice (da ultima, funditus, Cass. 6754/2011) che esclude la configurabilità del c.d. “danno tanatologico” (o da morte) qualora la morte coincida sostanzialmente (come nel caso di specie: folio 6 ss. della pronuncia della corte potentina) con il momento dell’incidente.

Quanto al pregiudizio biologico iure proprio, questa categoria di danno, alla luce di un inequivoco formante legislativo, oltre che giurisprudenziale, non può che consistere in una “lesione medicalmente accertabile” della salute fisio-psichica del danneggiato, lesione che, nella specie, non è stata nè allegata nè tempestivamente rappresentata in sede di merito, se soltanto con l’atto di appello gli odierni ricorrenti sembrano essersi orientati nel senso di ipotizzare, oltre alla sofferenza morale conseguente al gravissimo lutto subito, anche traumi fisici o psichici permanenti (senza peraltro specificarne l’esatta natura: così, correttamente, la sentenza impugnata al folio 8).

Con il settimo motivo, si denuncia violazione e falsa applicazione di norme di diritto ex art. 360 c.p.c., n. 3, in relazione agli artt. 2043, 2059, 1223 c.c.; omessa o quantomeno insufficiente motivazione ex art. 360 c.p.c., n. 5, in ordine ai criteri di liquidazione adottati e inerenti la valutazione del danno patrimoniale – parziale esame della res iudicanda.

Il motivo è privo di pregio.

Non erra la difesa ricorrente quando, con il puntuale quesito di diritto formulato a conclusione della censura in esame, rammenta come il danno patrimoniale da lucro cessante possa essere riconosciuto agli eredi di un soggetto deceduto in conseguenza del fatto illecito addebitabile ad un terzo volta che gli stessi eredi siano stati privati di utilità economiche di cui già beneficiavano e/o di cui, presumibilmente, avrebbero beneficiato in futuro – danno da accertare anche a mezzo di presunzioni semplici.

Erra invece quando omette di considerare che, a tali principi di diritto, ripetutamente affermati da questa corte regolatrice (ex permultis, Cass. 4980/06; 3549/4; 12597/01), si è rigorosamente attenuta, nel suo articolato e completo iter motivazionale, la corte lucana che, con argomentazioni del tutto scevre da errori logico- giuridici, ha ritenuto del tutto insussistenti, nella specie, le pur necessarie presunzioni idonee a consentire la legittima configurabilità del lamentato danno patrimoniale.

Con il secondo motivo, si denuncia violazione e falsa applicazione di norme di diritto ex art. 360 c.p.c., n. 3, in relazione agli artt. 2043, 2059, 1223 c.c.; omessa o quantomeno insufficiente motivazione ex art. 360 c.p.c., n. 5, in ordine ai criteri di liquidazione adottati e inerenti la valutazione del danno esistenziale – parziale esame della res iudicanda.

La doglianza si conclude con il seguente quesito di diritto: In materia di risarcimento del danno patito iure proprio dalla vittima, anche fruendo della giurisprudenza di codesta Suprema Corte, è da ritenersi viziata, per insufficienza di motivazione, la sentenza con la quale il giudice di merito (nel caso di specie, al fine di determinare l’importo dovuto a titolo di risarcimento), in violazione di quanto previsto dagli artt. 2043, 2059 e 1223 c.c., non abbia individuato in capo ai prossimi congiunti della vittima un autonomo diritto a vedersi risarcito il patito danno esistenziale quale componente del danno non patrimoniale distinta ed autonoma rispetto a qualsiasi altra voce di danno e segnatamente rispetto al ravvisato danno alla vita di relazione? La censura si rivela di non agevole decifrazione, se sol si consideri che il giudice di appello – coma emerge dal coerente dipanarsi dell’iter motivazionale della sentenza – ha espressamente considerato, riconosciuto e liquidato, in via autonoma, proprio tale voce di danno, affermando expressis verbis che, nella specie, “le voci di danno non patrimoniale da riconoscersi agli appellanti principali sono costituite dal danno esistenziale e dal danno morale subbiettivo”: voci di danno che, a giudizio della corte di merito, “ben potevano coesistere tra loro, senza che la relativa liquidazione integrasse gli estremi di una duplicazione risarcitoria”, poichè “il danno esistenziale concerne il peggioramento della qualità della vita a cagione della perdita di una persona cara, prescinde dall’esistenza di malattie organiche o psichiche, e si distingue dall’interesse all’integrità morale protetto dall’art. 2 Cost.” (a tale, sostanzialmente corretta motivazione – salvo quanto si dirà nell’esaminare il ricorso incidentale – avrebbe poi fatto seguito, in sentenza, una riliquidazione in melius dello stesso danno morale e la liquidazione ex novo del danno definito espressamente esistenziale dalla corte potentina, di talchè non è dato comprendere in cosa possa consistere la violazione di legge e il difetto di motivazione rappresentate a questo giudice di legittimità con il motivo in esame).

Va ancora esaminato, per evidente connessione logico-giuridica, la speculare censura mossa alla sentenza oggi impugnata dal ricorrente incidentale che, con il secondo motivo di gravame, lamenta la violazione e falsa applicazione di norme di diritto ex art. 360 c.p.c., n. 3, in relazione agli artt. 2043, 2059, 1223 c.c.; omessa o quantomeno insufficiente motivazione ex art. 360 c.p.c., n. 5, in ordine ai criteri di liquidazione del danno esistenziale (il rigetto del primo motivo dello stesso ricorso incidentale, che lamenta una pretesa violazione del divieto di ius novorum in appello, è in limine conseguente alla patente smentita dell’assunto difensivo derivante dalla piana lettura della sentenza e degli atti di causa – cui questa corte ha diretto accesso trattandosi di denuncia di vizio in procedendo: che, se una censura può muoversi alle richieste degli odierni ricorrenti, essa non è di certo quella di parzialità o insufficienza contenutistica, iniziale o successiva).

Il motivo si conclude con la formulazione del seguente quesito di diritto:

In materia di risarcimento del danno patito dai congiunti della vittima, in virtù dell’orientamento consolidato di codesta Corte, è da ritenersi viziata, per insufficienza di motivazione, la sentenza con la quale il giudice di secondo grado, nel determinare l’importo dovuto a titolo di risarcimento, in violazione di quanto previsto dagli artt 2043, 2059 e 1223 c.c., abbia riconosciuto ed individuato in capo ai prossimi congiunti della vittima una generica ed atipica categoria di danno esistenziale dagli incerti e non definiti confini, distinta ed autonoma rispetto al danno morale soggettivo.

Ad ulteriore integrazione del quesito, il ricorrente incidentale, nel corpo del motivo in esame, osserva:

– da un canto, che “in conclusione, una volta liquidato il danno biologico, non vi è luogo per una duplicazione risarcitoria della stessa voce di danno sotto la categoria, indefinita e atipica, del danno esistenziale;

– dall’altro, che, a far data dall’anno 2003, questa stessa sezione, con le sentenze 8827 e 8828, avrebbe testualmente affermato che “non sembra proficuo ritagliare all’interno della generale categoria del danno non patrimoniale specifiche figure di danno, etichettandole in vario modo. Ciò che rileva, ai fini dell’ammissione al risarcimento, è l’ingiusta lesione di un interesse inerente alla persona dal quale conseguano pregiudizi non suscettivi di valutazione economica”;

– dall’altro ancora, che, con la sentenza 14488/2004, sempre questa sezione ha affermato che “non esiste la categoria del c.d. danno esistenziale, essendo invece risarcibili le lesioni di specifici valori costituzionalmente protetti”.

La questione, così rappresentata oggi al collegio, postula un inevitabile approfondimento dell’aspetto risarcitorio del danno non patrimoniale, alla luce così del dictum delle sezioni unite di questa corte – che, con la già ricordata sentenza n. 26972 del 2008, hanno definitivamente ricondotto a coerente unita il composito universo dei danni risarcibili -, come degli arresti della successiva giurisprudenza di legittimità in subiecta materia.

Aspetto risarcitorio che – contestandosi oggi in radice la legittima predicabilità, sia pur sotto il profilo meramente descrittivo, di una voce di danno c.d. “esistenziale” -, impone una breve disamina e una inevitabile actio finium regundorum con riguardo alle categorie del danno morale e del danno biologico.

Va premesso come appaia sicuramente corretto il riferimento testuale, compiuto dal ricorrente incidentale, al contenuto, rilevante in parte qua, della sentenza di questa sezione n. 8827 del 2003, che discorreva effettivamente, con riguardo a specifiche figure di danno, di inutilità delle relative “etichette” (f. 28 della sentenza citata in ricorso).

Omette peraltro di rammentare il ricorrente incidentale che, nella stessa sentenza, al folio 38, altrettanto testualmente è detto che “si risarciscono così – come si è detto sopra e solo nel caso di conseguenze pregiudizievoli derivanti, secondo i richiamati principi della regolarità causale, dalla lesione di interessi di rango costituzionale – danni diversi da quello biologico e da quello morale soggettivo, pur se anch’essi, come gli altri, di natura non patrimoniale”. Il che prosegue la pronuncia – “non impedisce, proprio per questo, e nell’ottica della concezione unitaria della persona, che la valutazione equitativa di tutti i danni non patrimoniali possa anche essere unica, senza una distinzione – bensì opportuna, ma non sempre indispensabile – tra quanto va riconosciuto a titolo di danno morale soggettivo e quanto a titolo di ristoro dei pregiudizi ulteriori e diversi dalla mera, sofferenza psichica, ovvero quanto deve essere liquidato a titolo di risarcimento del danno biologico in senso stretto (se una lesione dell’integrità psico-fisica sia riscontrata)”. Non è pertanto illegittimo opinare “che la liquidazione del danno biologico, di quello morale soggettivo e degli ulteriori pregiudizi risarcibili sia espressa da un’unica somma di denaro, per la cui determinazione si sia tuttavia tenuto conto di tutte le proiezioni dannose del fatto lesivo”.

La pronuncia 8827 si conclude – assai diversamente da quanto opinato dal ricorrente incidentale – con l’affermazione per cui “è il caso di chiarire che la lettura costituzionalmente orientata dell’art. 2059 c.c., va tendenzialmente riguardata non già come occasione di incremento generalizzato della posto di danno (e mai come strumento di duplicazione di risarcimento degli stessi pregiudizi), ma soprattutto come mezzo per colmare la lacuna, secondo l’interpretazione ora superata della norma citata, nella tutela risarcitoria della persona, che va ricondotta al sistema bipolare del danno patrimoniale e di quello non patrimoniale: quest’ultimo comprensivo del danno biologico in senso stretto, del danno morale soggettivo come tradizionalmente inteso e dei pregiudizi diversi ad ulteriori, purchè costituenti conseguenza della lesione di un interesse costituzionalmente protetto”. (Nella specie, il giudice di legittimità ebbe ad escludere che la corte territoriale fosse incorsa in una duplicazione risarcitoria delle stesse conseguenze pregiudizievoli, “avendo avuto cura di chiarire puntualmente che la liquidazione – legittimamente effettuata con l’indicazione di una somma omnicomprensiva – è stata riferita sia alla “sofferenza acuta, ma ristretta esclusivamente al campo interiore, sia alla frustrata aspettativa dei genitori ad una normale vita familiare dedita all’allevamento della prole, ad una normale conduzione di vita, ad una serena vecchiaia”, sicchè, “al danno morale per il nefasto evento in se considerato si è aggiunto quello consistente nel più totale sconvolgimento delle loro abitudini e delle normali aspettative, unitamente all’esigenza di provvedere perennemente alle esigenze del figlio ridotto in condizioni pressochè esclusivamente vegetative: e per quanto la motivazione della sentenza vada corretta nella parte in cui la corte di merito ha ritenuto di poter alternativamente ricomprendere i predetti pregiudizi nell’ambito del danno biologico, che non è invece configurabile se manchi una lesione dell’integrità psico-fisica secondo i canoni fissati dalla scienza medica – in tal senso si è di recente orientato il legislatore con il D.Lgs. 23 febbraio 2000, n. 38, art. 13 e della L. 5 marzo 2001, n. 57, art. 5, prevedendo che il danno biologico debba essere suscettibile di accertamento o valutazione medico legale -, ovvero nel danno morale soggettivo, il cui ambito resta quello proprio della mora sofferenza psichica e deve anzi a questa essere esclusivamente ricondotto, ha tuttavia adottato una soluzione conforme a diritto laddove, in presenza della lesione di un interesse costituzionalmente protetto, ha liquidato l’intero danno non patrimoniale anche in riferimento al pregiudizio ulteriore consistente nella permanente privazione della reciprocità affettiva propria del più stretto tra i rapporti parentali”).

A distanza di circa due mesi dalla data di deposito della sentenza 8827/2003, la Corte costituzionale – chiamata a decidere della conformità alla Carta fondamentale dell’art. 2059 c.c., sotto il profilo della legittimità della presunzione di colpa in ipotesi di astratta configurabilità di un fatto reato – in un lungo, motivato e significativo obiter dictum, avrebbe dal suo canto affermato: “Giova al riguardo premettere – pur trattandosi di un profilo solo indirettamente collegato alla questione in esame – che può dirsi ormai superata la tradizionale affermazione secondo la quale il danno non patrimoniale riguardato dall’art. 2059 cod. civ., si identificherebbe con il cosiddetto danno morale soggettivo. In due recentissime pronunce (Cass., 31 maggio 2003, nn. 8827 e 8828), che hanno l’indubbio pregio di ricondurre a razionalità e coerenza il tormentato capitolo della tutela risarcitoria del danno alla persona, viene, infatti, prospettata, con ricchezza di argomentazioni – nel quadro di un sistema bipolare del danno patrimoniale e di quello non patrimoniale – un’interpretazione costituzionalmente orientata dell’art. 2059 cod. civ., tesa a ricomprendere nell’astratta previsione della norma ogni danno di natura non patrimoniale derivante da lesione di valori, inerenti alla persona: e dunque sia il danno morale soggettivo, inteso come transeunte turbamento dello stato d’animo della vittima; sia il danno biologico in senso stretto, inteso come lesione dell’interesse, costituzionalmente garantito, all’integrità psichica e fisica della persona, conseguente ad un accertamento medico (art. 32 Cost.); sia infine il danno (spesso definito in dottrina ed in giurisprudenza come esistenziale) derivante dalla lesione di (altri) interessi di rango costituzionale inerenti alla persona”.

Non sembra seriamente discutibile – diversamente da quanto opinato dal ricorrente incidentale – che l’intervento sinergico e pressochè sincronico del giudice di legittimità del giudice delle leggi avesse dato vita ad un sistema bipolare del danno alla persona e, nella dimensione del danno non patrimoniale, ad una vera e propria tripartizione dotata di “pari dignità” categoriale.

A distanza di tre anni, le stesse sezioni unite di questa corte, chiamate a dirimere un contrasto di giurisprudenza in tema di oneri della prova del danno da mobbing, con un altrettanto lungo ed altrettanto articolato obiter, ebbero modo di affermare che “per danno esistenziale si intende ogni pregiudizio che l’illecito datoriale provoca sul fare areddituale del soggetto, alterando le sue abitudini di vita e gli assetti relazionali che gli erano propri, sconvolgendo la sua quotidianità e privandolo di occasioni per la espressione e la realizzazione della sua personalità nel mondo esterno”, specificando ulteriormente che “il danno esistenziale si fonda sulla natura non meramente emotiva ed ulteriore (propria del ed danno morale), ma oggettivamente accertabile del pregiudizio, attraverso la prova di scelte di vita diverse da quelle che si sarebbero adottate se non si fosse verificato l’evento dannoso. Il danno esistenziale infatti, essendo legato indissolubilmente alla persona, e quindi non essendo passibile di determinazione secondo il sistema tabellare – al quale si fa ricorso per determinare il danno biologico, stante la uniformità dei criteri medico legali applicabili in relazione alla lesione dell’indennità psicofisica – necessita imprescindibilmente di precise indicazioni che solo il soggetto danneggiato può fornire, indicando le circostanze comprovanti l’alterazione delle sue abitudini di vita”. Le sezioni unite del 2006 concluderanno, così, che “mentre il risarcimento del danno biologico è subordinato all’esistenza di una lesione dell’integrità psico-fisica medicalmente accertabile, il danno esistenziale – da intendere come ogni pregiudizio (di natura non meramente emotiva ed interiore, ma oggettivamente accertabile) provocato sul fare areddittuale del soggetto, che alteri le sue abitudini e gli assetti relazionali propri, inducendolo a scelte di vita diverse quanto all’espressione e realizzazione della sua personalità nel mondo esterno – va dimostrato in giudizio con tutti i mezzi consentiti dall’ordinamento, assumendo peraltro precipuo rilievo la prova per presunzioni, per cui dalla complessiva valutazione di precisi elementi dedotti … si possa, attraverso un prudente apprezzamento, coerentemente risalire al fatto ignoto, ossia all’esistenza del danno, facendo ricorso, ai sensi dell’art. 115 cod. proc. civ., a quelle nozioni generali derivanti dall’esperienza, delle quali ci si serve nel ragionamento presuntivo e nella valutazione delle prove”.

Questo più ampio panorama dello stato della giurisprudenza, di legittimità e costituzionale, sino a tutto il 2006 – secondo una ricognizione oggi imposta dall’assai parziale richiamo, contenuto nel motivo in esame, ad un singolo e non significativo passaggio della sentenza 8827/2003 – consente al collegio una prima considerazione (peraltro non indispensabile, alla luce dei successivi interventi compiuti dal legislatore, a livello di normativa primaria e secondaria, all’indomani delle sentenze dell’11 novembre 2008): un indiscusso e indiscutibile formante giurisprudenziale di un altrettanto indiscutibile “diritto vivente”, così come predicato ai suoi massimi livelli, era, sino a tutto l’anno 2006, univocamente indirizzato nel senso della netta separazione, concettuale e funzionale, del danno biologico, del danno morale, del danno derivante dalla lesione di altri interessi costituzionalmente protetti.

In tale ottica, le stesse “tabelle” in uso presso il tribunale di Milano – che questa stessa Corte eleverà, con la sentenza 12408/2011, a dignità di generale parametro risarcitorio per il danno non patrimoniale – ne prevedevano una separata liquidazione, indicando, in particolare, nella misura di un terzo la percentuale di danno biologico utilizzabile come parametro per la liquidazione del (diverso) danno morale subbiettivo.

Le norme di cui agli artt. 138 e 139 del codice delle assicurazioni private (D.Lgs. n. 209 del 2005), calate in tale realtà interpretativa, non consentivano (nè tuttora consentono), pertanto, una lettura diversa da quella che predicava la separazione tra i criteri di liquidazione del danno biologico in esse codificati e quelli funzionali al riconoscimento del danno morale: in altri termini, la “non continenza”, non soltanto ontologica, nel sintagma “danno biologico” anche del danno morale.

Nella liquidazione del danno biologico, invece, il legislatore del 2005 ebbe a ricomprendere quella categoria di pregiudizio non patrimoniale – oggi circoscritta alla dimensione di mera voce descrittiva – che, per voce della stessa Corte costituzionale, era stata riconosciuta e definita come danno esistenziale: è lo stesso Codice delle assicurazioni private a discorrere, difatti, di quegli aspetti “dinamico relazionali” dell’esistenza che costituiscono danno ulteriore (rectius, conseguenza dannosa ulteriormente risarcibile) rispetto al danno biologico strettamente inteso come compromissione psicofisica da lesione medicalmente accertabile. L’aumento percentuale del risarcimento riconosciuto in funzione del punto invalidità, difatti, non è altro che il riconoscimento di tale voce descrittiva del danno, e cioè della descrizione degli ulteriori patimenti che, sul piano delle dinamiche relazionali, il soggetto vittima di una lesione medicalmente accertabile subisce e di cui (se provati) legittimamente avanza pretese risarcitorie.

Ma quid iuris qualora (come nella specie) un danno biologico manchi del tutto, e il diritto costituzionalmente protetto (quello che le sentenze del 2003 definirono, con terminologia di più ampio respiro, in termini di “valore” e/o “interesse” costituzionalmente protetto) risulti diverso da quello di cui all’art. 32 Cost., sia cioè, altro dal diritto alla salute (che il costituente, non a caso, ebbe cura di non definire inviolabile – al pari della libertà, della corrispondenza e del domicilio – bensì fondamentale)? Quanto al danno morale, ed alla sua autonomia rispetto alle altre voci descrittive di danno (e cioè in presenza o meno di un danno biologico o di un danno “relazionale”), questa Corte, con la sentenza 18641/2011, ha già avuto modo di affermare quanto segue:

“La modifica del 2009 delle tabelle del tribunale di Milano – che questa corte, con la sentenza 12408/011 (nella sostanza confermata dalla successiva pronuncia n. 14402/011) ha dichiarato applicabili, da parte dei giudici di merito, su tutto il territorio nazionale – in realtà, non ha mai “cancellato” la fattispecie del danno morale intesa come “voce” integrante la più ampia categoria del danno non patrimoniale: nè avrebbe potuto farlo senza violare un preciso indirizzo legislativo, manifestatosi in epoca successiva alle sentenze del 2008 di queste sezioni unite, dal quale il giudice, di legittimità e non, non può in alcun modo prescindere, in una disciplina (e in una armonia) di sistema che, nella gerarchia delle fonti del diritto, privilegia ancora la disposizione normativa rispetto alla produzione giurisprudenziale.

L’indirizzo di cui si discorre si è espressamente manifestato attraverso la emanazione di due successivi D.P.R. n. 37 del 2009 e il D.P.R. n. 191 del 2009, in seno ai quali una specifica disposizione normativa (l’art. 5) ha inequivocamente resa manifesta la volontà del legislatore di distinguere, morfologicamente prima ancora che funzionalmente, all’indomani delle pronunce delle sezioni unite di questa corte (che, in realtà, ad una più attenta lettura, non hanno mai predicato un principio di diritto volto alla soppressione per assorbimento, ipso facto, del danno morale nel danno biologico, avendo esse viceversa indicato al giudice del merito soltanto la necessità di evitare, attraverso una rigorosa analisi dell’evidenza probatoria, duplicazioni risarcitorie) tra la “voce” di danno c.d. biologico da un canto, e la “voce” di danno morale dall’altro: si legge difatti alle lettere a) e b) del citato art. 5, nel primo dei due provvedimenti normativi citati: – che “la percentuale di danno biologico è determinata in base alle tabelle delle menomazioni e relativi criteri di cui agli artt. 138 e 139 del codice delle assicurazioni; – che “la determinazione della percentuale di danno morale viene effettuata, caso per caso, tenendo conto dell’entità della sofferenza e del turbamento dello stato d’animo, oltre che della lesione alla dignità della persona, connessi e in rapporto all’evento dannoso, in misura fino a un massimo di due terzi del valore percentuale del danno biologico”.

Quanto, in particolare, al c.d. “danno parentale” la sentenza specifica ancora come “Vadano senz’altro ristorati anche gli aspetti relazionali propri del danno da perdita del rapporto parentale inteso come danno esistenziale … al cui proposito approfondita si appalesa la disamina della corte territoriale che, dopo aver ricostruito la vicenda in termini di eccezionaiità sotto il profilo dinamico- relazionale della vita dei genitori del piccolo tetraplegico, ha poi altrettanto correttamente ritenuto di conservare un ancoraggio alla liquidazione del danno biologico quale parametro di riferimento equitativo non del tutto arbitrario del danno parentale, quantificando – con apprezzamento di fatto scevro da errori logico giuridici e pertanto incensurabile in questa sede – il danno stesso in una percentuale (l’80%) del pregiudizio biologico risentito dal minore”.

Non sembrò revocabile in dubbio alla Corte, e non sembra revocabile in dubbio oggi al collegio, che, nella più ampia dimensione del risarcimento del danno alla persona, la necessità di una integrale riparazione del danno parentale (secondo i principi indicati dalla citata Cass. ss.uu. 26972/08) comporti che la relativa quantificazione debba essere tanto più elevata quanto più grave risulti il vulnus alla situazione soggettiva tutelata dalla Costituzione inferto al danneggiato, e tanto più articolata quanto più esso abbia comportato un grave o gravissimo, lungo o irredimibile sconvolgimento della qualità e della quotidianità della vita stessa.

Sulla base di tali premesse, e sgombrato il campo da ogni possibile equivoco quanto alla autonomia del danno morale rispetto non soltanto a quello biologico (escluso nel caso di specie), ma anche a quello “dinamico relazionale” (predicabile pur in assenza di un danno alla salute), va affrontata e risolta la questione, specificamente sottoposta oggi dal ricorrente incidentale al vaglio di questa Corte, della legittimità di un risarcimento di danni “esistenziali” così come riconosciuti dalla corte di appello di Potenza.

Questione da valutarsi, non diversamente da quella afferente al danno morale, alla luce del dictum dalle sezioni unite di questa corte nel 2008, che lo ricondussero, in via di principio, a species descrittiva di danno inidonea di per sè a costituirne autonoma categoria risarcitoria.

Un principio affermato, peraltro, nell’evidente e condivisibile intento di porre un ormai improcrastinabile limite alla dilagante pan- risarcibilità di ogni possibile species di pregiudizio, benchè priva del necessario referente costituzionale, e sancito con specifico riferimento ad una fattispecie di danno biologico.

Un principio che, al tempo stesso, affronta e risolve positivamente la questione della risarcibilità di tutte quelle situazioni soggettive costituzionalmente tutelate (diritti inviolabili o anche “solo” fondamentali, come l’art. 32 Cost., definisce la salute) diversi dalla salute, e pur tuttavia incise dalla condotta del danneggiante oltre quella soglia di tollerabilità indotta da elementari principi di civile convivenza (come pure insegnato dalle stesse sezioni unite).

Le sentenze del 2008 offrono, in proposito, una implicita quanto non equivoca indicazione al giudice di merito nella parte della motivazione che discorre di centralità della persona e di integralità del risarcimento del valore uomo – così dettando un vero e proprio statuto del danno non patrimoniale alla persona per il terzo millennio.

La stessa (meta)categoria del danno biologico fornisce a sua volta risposte al quesito circa la “sopravvivenza” – predicata dalla corte di appello lucana – del c.d. danno esistenziale, se è vero come è vero che “esistenziale” è quel danno che, in caso di lesione della stessa salute, si colloca e si dipana nella sfera dinamico relazionale del soggetto, come conseguenza, sì, ma autonoma, della lesione medicalmente accertabile.

Prova ne sia che un danno biologico propriamente considerato – un danno, cioè, considerato non sotto il profilo eventista, ma consequenzialista – non sarebbe legittimamente configurabile (sul piano risarcitorio, non ontologico) tutte le volte che la lesione (danno evento) non abbia procurato conseguenze dannose risarcibili al soggetto: la rottura, da parte di un terzo, di un dente destinato di lì a poco ad essere estirpato dal (costoso) dentista è certamente una “lesione medicalmente accertabile”, ma, sussunta nella sfera del rilevante giuridico (id est, del rilevante risarcitorio), non è (non dovrebbe) essere anche lesione risarcibile, poichè nessuna conseguenza dannosa (anzi..), sul piano della salute, appare nella specie legittimamente predicabile (la medesima considerazione potrebbe svolgersi nel caso di frattura di un arto destinato ad essere frantumato nel medesimo modo dal medico ortopedico nell’ambito di una specifica terapia ossea che attende di lì a poco il danneggiato).

La mancanza di “danno” (conseguenza dannosa) biologico, in tali casi, non esclude, peraltro, in astratto, la configurabilità di un danno morale soggettivo (da sofferenza interiore) e di un possibile danno “dinamico-relazionale”, sia pur circoscritto nel tempo.

Queste considerazioni confermano la bontà di una lettura delle sentenze delle sezioni unite del 2008 condotta, prima ancora che secondo una logica interpretativa di tipo formale-deduttivo, attraverso una ermeneutica di tipo induttivo che, dopo aver identificato l’indispensabile situazione soggettiva protetta a livello costituzionale (il rapporto familiare e parentale, l’onore, la reputazione, la libertà religiosa, il diritto di autodeterminazione al trattamento sanitario, quello all’ambiente, il diritto di libera espressione del proprio pensiero, il diritto di difesa, il diritto di associazione e di libertà religiosa ecc.), consenta poi al giudice del merito una rigorosa analisi ed una conseguentemente rigorosa valutazione tanto dell’aspetto interiore del danno (la sofferenza morale) quanto del suo impatto modificativo in pejus con la vita quotidiana (il danno esistenziale).

Una indiretta quanto significativa indicazione in tal senso potrebbe essere rinvenuta nel disposto dell’art. 612 bis cod. pen., che, sotto la rubrica “Atti persecutori”, dispone che sia “punito con la reclusione da sei mesi a quattro anni chiunque, con condotte reiterate, minaccia o molesta taluno in modo da cagionare un perdurante e grave stato di ansia o di paura ovvero da ingenerare un fondato timore per l’incolumità propria o di un prossimo congiunto o di persona al medesimo legata da relazione affettiva ovvero da costringere lo stesso ad alterare le proprie abitudini di vita”.

Sembrano efficacemente scolpiti, in questa disposizione di legge – per quanto destinata ad operare in un ristretto territorio del diritto penale – i due autentici momenti essenziali della sofferenza dell’individuo: il dolore inferiore, l’alterazione della vita quotidiana.

Danni diversi, e perciò solo entrambi autonomamente risarcibili, se, e solo se, rigorosamente provati caso per caso, al di là di sommarie ed impredicabili generalizzazioni (che anche il dolore più grave che la vita può infliggere, come la perdita di un figlio, può non avere alcuna conseguenza in termini di sofferenza inferiore e di stravolgimento della propria vita “esterna” per un genitore che, quel figlio, aveva da tempo emotivamente cancellato, vivendo addirittura come una liberazione la sua scomparsa).

E’ lecito ipotizzare, come sostiene il ricorrente incidentale, che la categoria del danno esistenziale risulti “indefinita e atipica”.

Ma ciò è la probabile conseguenza dell’essere la stessa dimensione della sofferenza umana, a sua volta, “indefinita e atipica”.

Il ricorso incidentale deve pertanto, al pari di quello principale, essere rigettato.

Le spese di giudizio sono destinate, in questa sede, ad integrale compensazione, giusta il principio della reciproca soccombenza.

P.Q.M.

La corte, decidendo sui ricorsi riuniti, li rigetta entrambi e dichiara interamente compensate le spese del giudizio di cassazione.

Redazione