Responsabilità ex D.Lgs. 231/2001 se il reato è commesso nell’«interesse» dell’ente (Cass. pen. n. 40380/2012)

Redazione 15/10/12
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Svolgimento del processo

Il Tribunale di Roma, in data 30.10.2007, ha assolto S.F. e C.S. dal reato di false comunicazioni sociali commesse – quali amministratori delle rispettive società sportive – nella redazione del bilancio di esercizio 2001/02 di AS. ROMA Spa. (e per C., pure con richiamo al bilancio della SS. LAZIO Spa).

Invero, per le operazioni di cessioni dei giocatori N. e V. i giudici romani hanno dichiarato che il fatto non sussiste e, quanto ad altre operazioni (ascritte al solo C.), hanno ritenuto le medesime non punibili poichè le rilevate infedeltà non superavano le soglie di rilevanza quantitativa (di cui all’art. 2621 c.c., comma 3) Per altra parte (operazioni incrociate), essi hanno accertato la prescrizione del reato.

Così, rettamente derogando alla regola della simultaneità delle vicende processuali proprie della responsabilità amministrativa degli enti rispetto alla sviluppo del processo penale (cfr. D.Lgs. n. 231 del 2001, art. 38), pur ritenendo esclusa la punibilità dei fatti di illeciti, la decisione in discorso ha dichiarato – ai sensi del D.Lgs. n. 231 del 2001, art. 25 ter e 69 – la società AS. ROMA Spa. responsabile degli illeciti amministrativi concernenti le operazioni relative ai giocatori G. e **, mentre per altri fatti ha disposto l’assoluzione non essendo ancora previsti come illecito amministrativo.

Era interposto appello, soprattutto in relazione all’unica decisione ritenuta effettivamente pregiudizievole (le altre doglianze attenevano al superamento delle soglie di rilevanza, nonchè al computo sanzionatorio), cioè, la condanna della società per fatto del soggetto “apicale”, quale responsabile per l’illecito “amministrativo”. L’impugnazione si appuntava sulla eccepita carenza del nesso funzionale oggettivo, che la legge configura tra l’illecito e la responsabilità dell’ente, ai sensi del’art. 5 del citato D.Lgs..

La Corte d’Appello, in data 4.2.2011, ha confermato la prima decisione.

Avverso quest’ultima decisione ha interposto ricorso S. R., quale rappresentante (amministratore delegato e rappresentante legale, succeduta al padre S.F.) della società sportiva, dolendosi:

a) della carenza di motivazione e dell’erronea applicazione della legge penale, relativamente a quelle situazioni che ascrivono la responsabilità dell’ente sportivo. Segnatamente al requisito dell’”interesse” che, come prevedono il D.Lgs. n. 231 del 2001, art. 25 ter e art. 5, comma 1, consente l’addebito all’ente dell’illecito (da cui dipende la specifica figura di reato compresa nel catalogo normativo apprestato dal legislatore), soltanto quando esso risulti commesso “nell’interesse dell’ente”;

b) della carenza dei presupposti soggettivi per la mancata adozione del c.d. “modello organizzativo” idoneo prevenire reati del tipo di quello qui verificatosi, come prescrive l’art. 7 del D.Lgs. citato.

Motivi della decisione

Il D.Lgs. n. 231 del 2001, art. 5, comma 1 prevede che il fatto, in grado di consentire il trasferì: di responsabilità dalla persona fisica all’ente, sia commesso nell’interesse o a vantaggio dell’ente.

Precisando al comma 2 D.Lgs. n. 231 del 2001 che la responsabilità cessa ove il fatto sia commesso nell’”esclusivo interesse proprio o di terzi”. In sostanza per un fine che non avvantaggia in alcun modo l’ente stesso.

Dalla relazione governativa si apprende che la nozione di “interesse” (l’art. 25 ter non contempla il “vantaggio”) esprime la proiezione soggettiva dell’autore (non coincidente, peraltro, con quella di “dolo specifico”, profilo psicologico logicamente non imputabile all’ente), e rappresenta una connotazione accettabile con analisi ex ante.

Si tratta di una tensione che deve esperirsi in un piano di oggettività, concretezza ed attualità, sì da potersi apprezzare in capo all’ente, pur attenendo alla condotta dell’autore del fatto, persona fisica.

L’accertamento in merito a queste due condizioni risulta essenziale poichè l’art. 5, comma 2 D.Lgs cit. – come dianzi osservato – specifica che può affermarsi l’assenza di responsabilità dell’ente soltanto quando si accerti l’”interesse esclusivo” di terzi o di persone fisiche.

L’assenza dell’interesse rappresenta, dunque, un limite negativo della fattispecie. Poichè il rapporto che lega il fatto al suo autore è momento fondante della responsabilità dell’ente, al pari di qualsivoglia profilo dell’”illecito presupposto”, è indefettibile onere del giudice corredare il proprio convincimento con una qualche precisa motivazione al riguardo.

Nel caso di specie, la lettura delle voci indicate come infedeli dai giudici di merito evidenzia, nel complesso, una prevalenza (anche in termini quantitativi) di sottrazione dell’utile alla pretesa tributaria, donde è plausibile l’opinione per cui l’intenzione decettiva si proiettasse verso un “risparmio” (sia pur illecito) di gravame tributario. In questa prospettiva, pertanto, il fatto risulterebbe – in via di logica astratta – pur sempre riconducibile ad una (punto commendevole) persecuzione dell’interesse dell’organismo societario.

Assunto che, qui viene prospettato in via di prima approssimazione, sia perchè si tratta di indagine sul fatto, preclusa al giudice di legittimità sia, ancora, poichè la decisione omette di riportare in termini assoluti il risultato della manovra di “maquillage” operata sulla comunicazione sociale.

Il provvedimento impugnato, invece, sul punto si limita ad affermare che: “nessun dubbio poi…. che le operazioni possano essere state effettuate nel suo (di S.F.) esclusivo e personale interesse, piuttosto che a vantaggio della società (così come prevede l’art. 5 della L. n. 231). Va, pertanto, disattesa anche la doglianza esposta nel 2^ motivo di appello e riconosciuta, così come nella sentenza appellata, l’applicabilità della L. n. 3231 del 2001 alla soc. Roma spa.”. Ove non è per nulla dispiegata la ragione per cui l’interesse all’agire illecito sia ravvisabile in capo al S., con una finalità esclusivamente propria e non anche per uno scopo che ridondava utilità (sia pur con censurabili modalità) a favore della società, in un contesto obiettivamente opinabile.

Al contempo, se è vero che in tema di responsabilità “amministrativa” da reato degli enti, la persona giuridica, che abbia omesso di adottare ed attuare il modello organizzativo e gestionale, non risponde del reato presupposto commesso da un suo esponente in posizione apicale soltanto nell’ipotesi in cui lo stesso abbia agito nell’interesse esclusivo proprio o di terzi, è anche per questo riguardo fondata l’impugnazione, per l’assenza di indicazioni giustificative che dimostrino l’inadeguatezza del modello assunto da Spa. ROMA, quanto alla sua struttura organizzativa; capitolo che si profila come essenziale per lo scrutinio della peculiare responsabilità tratteggiata dal D.Lgs. n. 231 del 2001.

Di qui l’annullamento con rinvio della sentenza perchè il giudice di merito fornisca un chiarimento sulla effettiva ricorrenza dell’interesse dell’ente nella commissione del mendacio ed anche in quali termini si prospetti detto interesse, coinvolgente la responsabilità dell’ente sportivo.

 

P.Q.M.

Annulla la sentenza impugnata con rinvio per nuovo esame, ad altra sezione della Corte d’Appello di Roma.

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