Recesso del lavoratore a tempo determinato: valido anche senza giusta causa (Cass. n. 6342/2012)

Redazione 23/04/12
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Svolgimento del processo

Con sentenza del 19.6.2010, la Corte di Appello di Brescia respingeva il gravame proposto da B.S. avverso la pronunzia di primo grado, che aveva ritenuto valido il recesso di quest’ultimo dal rapporto di lavoro a seguito di valide dimissioni e non meritevole di accoglimento la domanda riconvenzionale della società al pagamento del preavviso da parte del lavoratore, non essendo tale istituto applicabile al contratto a termine.
Rilevava la Corte territoriale che nel rapporto di lavoro a tempo determinato – quale era quello che legava le parti per il periodo dall’11.4.2007 al 14.9.2007 – il dipendente non può legittimamente rassegnare le dimissioni prima della scadenza del termine se non per giusta causa, ma che il difetto di giusta causa delle dimissioni non determina, né potrebbe determinare, come sostenuto dal lavoratore, la nullità o l’inefficacia del recesso, con il conseguente diritto alla riammissione in servizio ed al pagamento delle retribuzioni sino alla scadenza del contratto, dando viceversa alla controparte il diritto al risarcimento del danno qualora sia in grado di provare che la brusca ed immotivata cessazione del rapporto abbia compromesso l’attività aziendale. Osservava che, solo in caso di recesso ante tempus per giusta causa, il lavoratore avrebbe avuto diritto al risarcimento del danno pari all’ammontare delle retribuzioni che avrebbe percepito se il contratto avesse avuto la durata prevista, analogamente che nel caso di recesso anticipato senza giusta causa del datore, ma che nell’ipotesi di valida manifestazione della volontà di recesso del lavoratore senza giusta causa, il rapporto non poteva che rimanere definitivamente risolto, senza conseguenze risarcitorie e ripristinatorie. Il che del resto era conforme ai principi generali secondo cui il soggetto che ha posto in essere una condotta vietata dalla legge non può invocarne la nullità al fine di ottenere un beneficio dalla parte che con tale condotta ha danneggiato.
Per la cassazione di tale sentenza ricorre B..S. , con unico motivo, illustrato nella memoria depositata ai sensi dell’art. 378 c.p.c..
Resiste, con controricorso, la società.

 

Motivi della decisione

Con l’unico motivo di impugnazione, il ricorrente denunzia la violazione degli artt. 1453, I comma, c.c, in relazione agli artt. 1219, I comma, 2118, I comma e 2119, I comma, c.c., ai sensi dell’art. 360 n. 3 c.p.c., assumendo che il rapporto di lavoro può ritenersi definitivamente risolto, per effetto della manifestazione di volontà della parte recedente, soltanto in presenza di un valido e legittimo atto risolutivo, possibile solo nel caso di dimissioni rassegnate prima della naturale estinzione del vincolo contrattuale assistite da giusta causa e che l’effetto estintivo debba escludersi in caso di dimissioni rassegnate in assenza di giusta causa. Con specifico quesito, domanda se, ai sensi degli articoli sopra richiamati del codice civile, abbia errato il giudice di merito che, nell’ambito di un rapporto di lavoro non a tempo indeterminato, in assenza di un atto di dimissioni per giusta causa ed in presenza di un atto di costituzione in mora del datore di lavoro da parte del lavoratore, neghi al lavoratore medesimo il diritto all’adempimento del contratto da parte del datore.
Il motivo è infondato. È invero destituita di fondamento la prospettazione giuridica avanzata dal ricorrente, che ha sostenuto che solo un recesso assistito da giusta causa possa avere idoneità risolutiva del rapporto di lavoro a termine intercorrente tra le parti, dovendo ritenersi prive di effetti e quindi tali da non incidere sulla continuità del vincolo contrattuale le dimissioni rassegnate in assenza di una causa che non consenta la prosecuzione neanche provvisoria del rapporto.
Al riguardo deve rilevarsi che la dichiarazione di recesso del lavoratore, una volta comunicata al datore di lavoro, è idonea “ex se” a produrre l’effetto della estinzione del rapporto, che è nella disponibilità delle parti, a prescindere dai motivi che abbiano determinato le dimissioni (a meno che queste ultime non siano inficiate dalla minaccia di licenziamento e risultino perciò viziate come atto di volontà) e dalla eventuale esistenza di una giusta causa, posto che, anche in tal caso, l’effetto risolutorio si ricollega pur sempre, a differenza di quanto avviene per il licenziamento illegittimo o ingiustificato, ad un atto negoziale del lavoratore, che è preclusivo di un’azione intesa alla conservazione del medesimo rapporto (cfr. Cass. 12.7.2002 n. 10193).
Anche in presenza di giusta causa del recesso, la questione se possa essere risarcito il pregiudizio derivante dall’effetto estintivo del rapporto determinato dalle dimissioni, rappresentato dallo stato di disoccupazione e dalla mancata percezione della retribuzione è stata, peraltro, risolta in termini negativi dalla giurisprudenza di legittimità, osservandosi che, in concreto, le scarse opportunità e condizioni di reimpiego offerte dal mercato per le energie lavorative costituiscono fattori estranei al sinallagma, sicché l’eventuale condizione sfavorevole in cui venga a trovarsi il lavoratore dimissionario non costituisce la conseguenza immediata e diretta dell’inadempimento del datore di lavoro e della risoluzione del rapporto che ne è conseguita.
A tali considerazioni risulta ispirata la scelta legislativa di risarcire lo specifico danno da risoluzione del rapporto per inadempimento del datore di lavoro con la sola corresponsione, in via forfettaria e presuntiva, di un’indennità pari a quella di preavviso, con funzione compensativa della mancata percezione delle retribuzioni per il periodo presuntivamente necessario al reperimento di una nuova occupazione, ferma restando la risarcibilità, secondo le regole comuni, di tutti gli altri danni, diversi dai pregiudizi direttamente derivanti dalla risoluzione, cagionati dall’inadempimento del datore di lavoro. Pertanto, è stato in modo condivisibile già osservato da questa Corte che, ai sensi dell’art. 2119 c.c., così come il sistema preclude al datore di lavoro che licenzi il lavoratore inadempiente, di domandare il risarcimento del pregiudizio sofferto per trovarsi costretto a reperire sul mercato un nuovo collaboratore a condizioni meno vantaggiose, non è consentito al lavoratore dimissionario per giusta causa ottenere altro che l’indennità di preavviso a compenso del pregiudizio specifico determinato dalla risoluzione del rapporto (cfr., in tale senso, Cass. 7.11.2001 n. 13782). L’interpretazione appare, del resto, la sola in grado di assicurare la necessaria coerenza dell’ordinamento, poiché la risoluzione del rapporto causata dalla volontà del dipendente non può essere regolata in termini più vantaggiosi rispetto al licenziamento ingiustificato.
Nessuna peculiarità si può collegare alla presenza del termine, restando pienamente applicabile l’art. 2119 c.c. ed i principi del quale è lo stesso espressione. Non è, invero, consentito assimilare le dimissioni per giusta causa al recesso del datore di lavoro, atteso che quest’ultimo, se ingiustificato, è privo di effetti ed il rapporto continua giuridicamente inalterato fino alla scadenza del termine, con l’obbligo di risarcire il danno cagionato dal rifiuto delle prestazioni offerte. Le dimissioni per giusta causa, invece, determinano la risoluzione del rapporto e, oltre al risarcimento dei danni cagionati dagli inadempimenti imputabili al datore di lavoro, non consentono di compensare il pregiudizio da risoluzione se non con l’indennità commisurata al preavviso dovuto ai lavoratori a tempo indeterminato (cfr. Cass. 13782/2001).
In tali termini dovendo risolversi la questione delle conseguenze economiche connesse al recesso del lavoratore per giusta causa nel rapporto a termine, non può, a maggior ragione, per la complessiva coerenza del sistema, ritenersi che il recesso ingiustificato, per non essere contemplato dalla norma, sia privo di effetti, con la conseguenza che il rapporto di lavoro non possa ritenersi inciso dalla manifestazione di volontà dismissiva e prosegua inalterato nella configurazione voluta dalle parti fino alla naturale scadenza. Nessuna valenza e significatività può, dunque, attribuirsi all’atto di costituzione in mora del datore da parte del lavoratore, che, secondo quest’ultimo, imporrebbe al primo di provvedere all’adempimento del contratto e ciò anche per la ragione, sopra evidenziata, che l’effetto risolutorio si ricollega anche e pure sempre in tal caso ad un atto negoziale del lavoratore, che è come tale preclusivo di un’azione intesa alla conservazione del medesimo rapporto (cfr. Cass. n. 10193/2002 cit.).
Il ricorso va, in conclusione, respinto e le spese di lite, limitate all’attività difensiva svolta in udienza dalla società (essendo il controricorso inammissibile per mancata prova di tempestiva notifica) cedono a carico del ricorrente nella misura determinata in dispositivo.

 

P.Q.M.

 

La Corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio, liquidate in Euro 30,00 per esborsi, Euro 2000,00 per onorari, oltre spese generali, IVA e CPA.

Redazione