Reato di turbata libertà nel procedimento amministrativo di scelta del contraente (Cass. pen., n. 44896/2013)

Redazione 07/11/13
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Considerato in fatto

p.1.1 Con ordinanza del 15 maggio 2013 il Tribunale di Venezia, in funzione di giudice del riesame, confermava la sussistenza di gravi indizi di colpevolezza nei confronti dei F.A. , indagato per i reati previsti dagli artt. 353 bis e 336 cod.pen., e sostituiva la misura cautelare degli arresti domiciliari con il divieto di dimora nel Comune di (omissis) .
Il Tribunale, relativamente all’imputazione di concorso nel reato di cui all’art. 353 bis cod.pen., esponeva che F.A. , sindaco di …, aveva promesso all’imprenditore S.T. , che gli assicurava il suo appoggio nella prossima campagna elettorale, l’aggiudicazione dell’appalto di raccolta e smaltimento dei rifiuti solidi urbani. Per dare esecuzione alla promessa, nell’estate 2010, il sindaco e l’assessore ai lavori pubblici P.E. tenevano numerosi incontri con S. e il suo professionista di fiducia S.S. e decidevano la riorganizzazione della raccolta rifiuti con l’istituzione di un apposito servizio di comunicazione e controllo, che sarebbe stato assegnato a S. . In tale prospettiva Se. preparava le bozze dei bandi di gara, che il sindaco, nell’ottobre 2010, sottoponeva a T.E. , responsabile dell’Ufficio lavori pubblici, per la formalizzazione. La funzionaria non accettava l’imposizione e, nel mese di dicembre, predisponeva autonomamente i bandi di gara, suscitando le reazioni del sindaco, dell’assessore e dello stesso S. . In particolare il sindaco premeva affinché l’importo della base d’asta, fissato in Euro 185.000, fosse abbassato a Euro 145.000 (la Giunta decideva poi per Euro 165.000); le rimproverava, inoltre, di avere inserito, per la partecipazione alla gara, il requisito – che S. non possedeva – di avere svolto negli ultimi tre anni servizi analoghi a quello oggetto del bando e l’aveva perciò invitata a correggere il bando o a ritirarlo. La funzionaria resistette alle richieste e S. fu costretto ad associarsi alla Ide-com, la quale vinse l’appalto. Ciò premesso, il Tribunale commentava che il sindaco, in collusione con i coindagati S. e P. , aveva posto in essere azioni tese a interferire nella formazione del bando, al fine di procurare l’aggiudicazione dell’appalto a S. . Tali azioni, pur innestate in un accordo risalente all’anno 2009, erano proseguite anche dopo il 7 settembre 2010, data di entrata in vigore della legge che ha introdotto il reato di cui all’art. 353 bis cod.pen. e, pertanto, non era stato violato il principio di irretroattività della legge penale. Inoltre detto reato si era consumato anche se la funzionaria T. non aveva ceduto alle indebite pressioni, perché gli indagati, a prescindere dalla realizzazione dell’intento perseguito, avevano oggettivamente turbato il procedimento di formazione del bando.
Quanto al reato previsto dall’art. 336 cod.pen. (così è stata riqualificata dal giudice per le indagini preliminari l’originaria imputazione di cui agli artt. 323 e 610 cod.pen.), il Tribunale riteneva accertato che il sindaco avesse impartito al comandante della polizia municipale Sa.Ni. l’ordine di sospendere, nel periodo preelettorale, i controlli di circolazione stradale diretti a reprimere le violazioni dei limiti di velocità e di guida in stato di ebbrezza, minacciando, in caso contrario, di non rinnovargli l’incarico.
Infine, sulle esigenze cautelari, il Tribunale scriveva che la commissione dei reati, realizzata mediante una pluralità di condotte sostenute da un elevato grado di intensità del dolo, induceva a ritenere la sussistenza del pericolo di reiterazione di reati contro la pubblica amministrazione, pericolo che, in base al criterio dell’adeguatezza, poteva essere prevenuto – essendo preclusa per legge l’applicabilità della sospensione dall’ufficio – con la misura meno afflittiva del divieto di dimora nel Comune ove erano stati perpetrati i fatti per cui si procede.
p.1.2 Contro la predetta ordinanza ricorre la difesa dell’indagato che denuncia: in ordine al reato di cui all’art. 353 bis cod.pen. (capo A).
1. violazione del principio di irretroattività della legge penale, perché la conclusione del preteso accordo collusivo è avvenuta prima del 7.7.2010 e le condotte tenute successivamente non avrebbero turbato il procedimento amministrativo di preparazione del bando;
2. mancanza e manifesta illogicità della motivazione e travisamento degli atti, perché le condotte successive all’entrata in vigore della legge citata sono state interpretate come turbativa in forza di un travisamento degli atti. Invero la richiesta rivolta alla T. di correggere al ribasso l’importo base d’asta era contraria all’interesse di S. , che aveva indicato il prezzo del servizio a cui era interessato in Euro 200.000 (v. e-mail 24.8.2010). Parimenti la richiesta di eliminare il requisito di avere già svolto servizi analoghi in realtà riguardava la susseguente specificazione “in un Comune montano o altro ente pubblico quale Comunità montana” (v. e-mail F. del 7.2.2010), condizione quest’ultima che costituiva una clausola di favore per gli operatori locali e, quindi, rischiava di rendere impugnabile il bando da parte di concorrenti esterni alla Regione illegittimamente esclusi. Il giudice a quo, inoltre, non aveva apprezzato che il requisito di avere già svolto analogo servizio non costituiva una novità, perché era stato già segnalato nella scheda riepilogativa contenente “tutto ciò che dovrebbe essere inserito nel piccolo bando”, inviata da S. al consulente Se. (e-mail S. del 3.9.2010). Anche la suddivisione della raccolta rifiuti in tre distinti servizi era frutto di un progetto presentato da S. al consiglio comunale, recepito dalla Giunta che, con delibera del 24.8.2010, aveva disposto che i servizi fossero tenuti separati e affidati in appalto a soggetti diversi. Gli incontri tra l’imprenditore S. e i pubblici amministratori avvenuti prima dell’avvio della procedura di aggiudicazione si erano dunque svolti alla luce del sole nell’ambito del “dialogo tecnico” espressamente previsto dalla disciplina comunitaria;
3. erronea applicazione dell’art. 353 bis cod.pen. Posto che la condotta incriminata dalla norma penale deve risolversi in una turbativa del procedimento amministrativo diretto a stabilire il contenuto del bando, la difesa deduce che l’insussistenza del reato emerge dalla stessa formulazione dell’accusa, là dove qualifica le condotte turbative “non foriere dei reali effetti voluti, alla luce della ferma opposizione opposta dal funzionario amministrativo T.E. “. E, ancora, censura come contraddittoria la motivazione dell’ordinanza impugnata, là dove, dopo avere riconosciuto che la funzionaria T. , impermeabile alle pressioni, preparò il bando in piena autonomia, persiste nell’affermare che si era verificata una turbativa del procedimento. Al più, conclude la difesa, si sarebbe potuto ravvisare il reato nella forma tentata.
in ordine al reato di cui all’art. 336 cod.pen. (capo E).
4. violazione del divieto di utilizzazione disposto dall’art. 270, comma 1, cod. proc.pen., perché il giudice a quo, pur riconoscendo che i risultati delle intercettazioni telefoniche e telematiche non erano utilizzabili in quanto autorizzate per l’accertamento del reato previsto dall’art. 353 bis cod.pen., aveva poi utilizzato come fonte degli indizi di colpevolezza relativi al reato di cui all’art. 336 cod.pen. le sommarie informazioni che la persona offesa e il coindagato A. avevano reso “a conferma” della trascrizione delle intercettazioni medesime;
5. erronea applicazione della legge penale e vizio di motivazione. Si sostiene che non sussistono gli estremi del reato ritenuto, perché, da un lato, il sindaco, nel dare l’ordine incriminato, aveva agito nell’esercizio dei poteri conferitigli dalla legge e dal regolamento comunale e, dall’altro, perché l’avvertimento sul non rinnovo dell’incarico non costituiva minaccia di male ingiusto, dato che l’incarico di comandante era temporaneo senza diritto alla riconferma;
in ordine alle esigenze cautelari.
6. erronea applicazione dell’art. 283 cod.proc.pen., assumendo che la misura del divieto di dimora, essendo stata disposta con la finalità esplicita di impedire all’indagato di reggere l’ufficio di sindaco e, in tal modo, prevenire il pericolo di commissione di reati legati alla sua carica, sarebbe illegittima, perché applicata per attuare l’effetto tipico proprio della misura interdittiva della sospensione dall’esercizio di un pubblico ufficio e, quindi, con violazione della disposizione dell’art. 289, comma 3, cod.proc.pen., secondo cui l’anzidetta misura “non si applica agli uffici elettivi ricoperti per diretta investitura popolare”;
7. inosservanza dell’art. 274, comma 1, lett. c), cod.proc.pen., perché non sarebbero stati indicati gli elementi dai quali è stata desunta la sussistenza del concreto pericolo di recidivanza.
La difesa pertanto conclude per l’annullamento dell’ordinanza impugnata.

Considerato in diritto

L’esame dei motivi di ricorso seguirà lo stesso ordine in cui sono stati succintamente esposti nel paragrafo precedente.
p.2.1 Con il primo motivo la difesa denuncia la violazione del principio di irretroattività della legge penale, perché l’imputazione provvisoria contesta una condotta di turbativa protratta “dall’agosto 2010 al febbraio 2011” e l’ordinanza impugnata, pur affermando di tenere conto del discrimine temporale del 7 settembre 2010 (giorno in cui è entrata in vigore la norma che ha introdotto il reato di cui all’art. 353 bis cod.pen.), ha richiamato due isolate sentenze di legittimità, secondo cui la turbativa sanzionata dall’art. 353 cod.pen. può investire non solo la gara vera e propria ma anche il procedimento che la precede, adombrando così la commissione di un reato continuato, ricadente in parte sotto la previsione dell’art. 353 e in parte sotto la nuova norma dettata dall’art. 353 bis.
Sul punto occorre fare chiarezza.
La migliore giurisprudenza di legittimità, interpretando l’art. 353 cod.pen. alla luce del principio di tassatività della legge penale, ha ritenuto che la gara costituisce il necessario presupposto del reato e, pertanto, ha affermato che il reato di turbata libertà degli incanti di cui all’art. 353 non è configurabile, neppure nella forma del tentativo, prima che la procedura di gara abbia avuto inizio, ossia prima che il relativo bando sia stato pubblicato (v. Sez. 6, 26.2.2009 n. 11005, *******, rv 242928; idem, 5.2.2013 n. 27719, ********, rv 255601).
Il legislatore, per contrastare il deprecabile fenomeno della turbativa d’asta che nelle sue multiformi manifestazioni può investire anche il procedimento formativo del bando di gara condizionandone il contenuto in modo tale che un determinato soggetto possa essere favorito nell’aggiudicazione ancor prima dell’apertura della gara, mettendo il pericolo, da un lato, il buon andamento della pubblica amministrazione e, dall’altro, la libera concorrenza tra i partecipanti alla gara, preso atto del citato orientamento giurisprudenziale, ha introdotto la nuova figura di reato descritta dall’art. 353 bis cod.pen., che, affiancando l’art. 353, reprime le condotte di turbativa poste in essere antecedentemente alla pubblicazione del bando, che finora sfuggivano alla sanzione penale.
Nella vicenda in esame il giudice a quo ha individuato il momento genetico della turbativa nella “promessa-collusione”, in base alla quale il sindaco, in cambio del pacchetto di voti garantitogli da S. , gli aveva assicurato l’assegnazione dell’appalto. A questo accordo, stipulato alla fine del 2009, è seguita una serie ininterrotta di incontri, scambi di opinione, trattative e intese – intercorsi tra il sindaco, l’assessore P. , S. e il suo consulente di fiducia Se. – finalizzati alla definizione del servizio da appaltare e alla preparazione del relativo bando, studiato per soddisfare le esigenze del promesso vincitore.
Orbene la promessa iniziale e gli incontri susseguenti avvenuti prima del 7 settembre 2010 non possono ricadere, per l’assenza del presupposto della gara, nella fattispecie prevista dall’art. 353 cod.pen. e, per ragioni temporali, nella sfera di incriminabilità dell’art. 385 bis cod.pen. La loro verificazione, dunque, rileva soltanto sotto il profilo probatorio, perché illumina di significato illecito la condotta tenuta a partire dal 7 settembre, che si è estrinsecata – come risulta dalla narrazione del fatto contenuta nel paragrafo precedente – nel lavoro di stesura della bozza del bando (settembre 2010) e nella sua consegna alla fun-zionaria del Comune (ottobre 2010), attività queste ultime che denunciano la persistente collusione, sostenuta dalla volontà di adempiere l’indebita promessa di favorire quel determinato aspirante concorrente.
Depurata, quindi, l’accusa dai fatti commessi prima del 7 settembre 2010, residuano tuttavia azioni poste in essere dopo tale data integranti il reato contestato, per cui la dedotta violazione dell’art. 25, comma secondo, Cost. non sussiste.
p.2.2 In ordine al secondo motivo, si osserva che talune delle censure sollevate colgono nel segno, perché, effettivamente, stando agli atti esibiti, le pressioni esercitate sulla funzionaria T. , aventi per oggetto l’ammontare dell’importo base d’asta e il requisito dell’avere già svolto servizi analoghi, appaiono fondate. Tuttavia il quadro indiziario non ne viene seriamente intaccato, perché la collusione intesa a condizionare il contenuto del bando a favore dell’imprenditore S. è dimostrata dalla sequenza di fatti poco sopra accennati, dei quali l’ordinanza impugnata fornisce più ampia descrizione, smentendo la tesi del ‘dialogo tecnico” e osservando – con valutazione non manifestamente illogica -che gli incontri avevano lo scopo di studiare l’organizzazione del servizio di raccolta dei rifiuti e di preparare il bando non per soddisfare gli interessi della pubblica amministrazione bensì quelli di un singolo imprenditore legato agli amministratori da rapporti extraistituzionali.
p.2.3 Anche il terzo motivo è infondato.
Il delitto previsto dall’art. 353 bis cod.pen. è costruito, sulla stessa falsariga di quello previsto dall’art. 353, come reato di pericolo.
Con l’obiettivo di estendere la tutela penale alla fase dei pubblici incanti anteriore alla pubblicazione del bando, la nuova norma penale punisce chiunque, con atti tassativamente specificati (violenza, minaccia, doni, promesse, collusioni o altri mezzi fraudolenti), “turba il procedimento amministrativo diretto a stabilire il contenuto del bando o di altro atto equipollente al fine di condizionare le modalità di scelta del contraente da parte della pubblica amministrazione”.
L’azione consiste, dunque, nel turbare mediante atti predeterminati il procedimento amministrativo di formazione del bando, allo scopo di condizionare la scelta del contraente. Poiché il condizionamento del contenuto del bando è il fine dell’azione, è evidente che il reato si consuma indipendentemente dalla realizzazione del fine medesimo. Per integrare il delitto, dunque, non è necessario che il contenuto del bando venga effettivamente modificato in modo tale da condizionare la scelta del contraente, né, a maggior ragione, che la scelta del contraente venga effettivamente condizionata. È sufficiente, invece, che si verifichi un turbamento del processo amministrativo, ossia che la correttezza della procedura di predisposizione del bando sia messa concretamente in pericolo.
Il che, nella fattispecie, è avvenuto quando il sindaco ha consegnato la bozza del bando, frutto di collusione, al funzionario responsabile dell’ufficio competente per gli appalti pubblici, ordinando che fosse convertita senza modificazioni nel bando pubblico.
La disobbedienza del funzionario che rifiutò l’imposizione, ha impedito l’inquinamento del bando, ma non ha cancellato la turbativa oggettivamente arrecata al procedimento amministrativo mediante l’intervento diretto del sindaco sul funzionario a quel procedimento preposto.
Trattandosi di reato con evento di pericolo, non v’è spazio per ravvisare il tentativo.
Infine le perplessità manifestate dal P.G. di udienza sulla corretta qualificazione giuridica del fatto, messa in dubbio per la difficoltà di concepire una turbativa commessa ai danni della pubblica amministrazione da colui che quella stessa amministrazione rappresenta e personifica, non sono condivisibili.
Non solo perché soggetto attivo del delitto per cui si procede può essere “chiunque” e, quindi, anche il pubblico ufficiale, ma anche perché la realtà fenomenica purtroppo mostra come possa accadere che il pubblico ufficiale agisca contro gli interesse dell’amministrazione in nome e per conto della quale esercita le pubbliche funzioni. Conferma indiretta di tale evenienza è rinvenibile nella disposizione del secondo comma dell’art. 353 cod.pen., che prevede come circostanza aggravante l’ipotesi, per l’appunto, che l’agente sia persona preposta dalla legge o dall’autorità agli incanti o alle licitazioni e, quindi, che sia persona intranea all’amministrazione che ha indetto la gara oggetto di turbativa.
p.2.4 In ordine al quarto motivo, si rammenta che l’art. 270, comma 1, cod.proc.pen. vieta di utilizzare i risultati delle intercettazioni in procedimenti diversi da quello nel quale sono state disposte. Ciò significa che la prova del reato oggetto del procedimento diverso non può essere desunta dai risultati delle conversazioni intercettate in altro procedimento, salvo il caso che si tratti di delitto per il quale è obbligatorio l’arresto in flagranza.
Detta inutilizzabilità, va precisato, riguarda i risultati probatori conseguiti con quello specifico mezzo di prova, il che non esclude che il medesimo risultato possa essere ottenuto con altro diverso mezzo di prova previsto dall’ordinamento.
Passando al caso concreto, la circostanza che le conversazioni intercettate siano state lette ai conversanti per sollecitarne la memoria non produce alcun effetto invalidante sulle dichiarazioni rese. L’accennata lettura, infatti, non era finalizzata a dare la prova del fatto di reato, ma soltanto a sollecitare il ricordo degli interlocutori, i quali, nel riferire ciò che personalmente dissero o udirono, diventano fonte di sommarie informazioni testimoniali, disciplinate dall’art. 351 cod.proc. pen., che costituiscono autonomo mezzo di prova, legittimamente utilizzabile per la ricostruzione del fatto contestato.
p.2.5 Il quinto motivo è infondato.
In primo luogo il giudice a quo ha correttamente affermato che il potere del sindaco di impartire ordini o direttive in tema di circolazione stradale viene meno quando gli ordini abbiano – come avvenne nel caso di specie – contenuto illegittimo. È indubitabile, infatti, che vietare alla polizia municipale di svolgere – sia pure temporaneamente e limitatamente a determinate contravvenzioni – i controlli e gli accertamenti previsti dalla legge in materia di prevenzione e repressione delle violazioni della disciplina sulla circolazione stradale, costituisce ordine illegittimo.
In secondo luogo l’avvertimento dato al comandante della polizia municipale che, se non si fosse uniformato all’ordine impartitogli, alla scadenza dell’incarico non sarebbe stato confermato, è stato correttamente qualificato come minaccia, essendo palese la coartazione esercitata sulla volontà altrui: o il comandante si sottometteva all’ordine o avrebbe subito il male prospettato.
Il male futuro rappresentato ha i connotati dell’ingiustizia, perché, se è vero che il comandante della polizia municipale non ha un diritto soggettivo al reincarico, è anche vero che ha una legittima aspettativa al rinnovo ove non abbia demeritato, cosicché la prospettazione dell’allontanamento dal servizio per ritorsione a un atto legittimo costituisce minaccia di un male ingiusto.
p.6. Il giudice del riesame, ritenuto il pericolo di commissione di reati della stessa specie di quelli per cui si procede, applicando il criterio dell’adeguatezza fissato dall’art. 275, comma 1, cod.proc.pen., ritenuta eccessiva la misura degli arresti domiciliari, l’ha sostituita con quella meno grave del divieto di dimora nel Comune del quale l’indagato è sindaco, così da inibire o comunque rendere difficoltoso l’esercizio delle funzioni pubbliche considerato come fonte di rischio di commissione di nuovi reati.
La scelta così effettuata non può essere censurata affermando che nei confronti dell’indagato – che ricopre una carica elettiva per investitura popolare – sarebbe stata surrettiziamente disposta la misura interdittiva vietata dall’art. 289, comma 3, cod.proc.pen..
La disposizione dell’art. 289 cit., che esclude l’applicazione della misura della sospensione dall’esercizio di un pubblico ufficio per coloro che tale ufficio ricoprano per investitura popolare, non può essere interpretata, pena la violazione del principio di uguaglianza, come una sorta di salvacondotto cautelare.
È evidente che le misure cautelari personali, previste dall’ordinamento per prevenire i pericoli di inquinamento della prova o di fuga o di reiterazione del reato, vanno applicate, sussistendone i presupposti di legge, nei confronti di ogni imputato. La circostanza che l’imputato titolare di un ufficio pubblico per elezione popolare non sia assoggettabile a misura interdittiva non consente di argomentare che sarebbe illegittimo sottoporlo a una misura coercitiva dagli effetti equivalenti. Il giudice, dovendo infrenare il periculum libertatis, non potrà che adottare la misura che l’ordinamento processuale gli mette a disposizione. Infatti il giudice, accertata la sussistenza di esigenze di tutela della collettività, deve applicare la misura coercitiva che, tenuto conto dei criteri di adeguatezza, proporzionalità e del minor sacrificio possibile per la libertà personale, soddisfi quelle esigenze. E, nel caso di specie, così è stato.
p.7. Privo di fondamento è l’ultimo motivo.
La prognosi di recidiva formulata dal giudice cautelare è stata fondata – come prescrive l’art. 274, comma 1, lett. c), cod.proc.pen. – “sulle specifiche modalità e circostanze del fatto e sulla personalità” dell’agente, apprezzando come elementi concreti sintomatici di proclività al delitto “la molteplicità dei fatti commessi in danno della pubblica amministrazione e il numero consistente di condotte illecite, tutte sostenute da un elevato grado di intensità del dolo e di intenzionalità”.
Il ricorso, siccome infondato, deve dunque essere rigettato; ne consegue la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali. 

Redazione