Reati tributari: confisca dell’immobile intestato alla figlia dell’evasore fiscale (Cass. pen., n. 45951/2013)

Redazione 15/11/13
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Svolgimento del processo

Con l’impugnata ordinanza il Tribunale di Taranto ha confermato il decreto di sequestro preventivo per equivalente di beni intestati a R.C.C. e R.I., emesso dal Gip del medesimo Tribunale in data 7/2/2013.

La misura cautelare era stata disposta in relazione al reato di cui all’art. 3, D.Lgs. n. 74 del 2000, contestato a R.C. C. per avere costui, nella qualità di amministratore della Excelsior s.r.l., dichiarato, con riferimento agli anni dal 2006 al 2009, elementi attivi inferiori a quelli reali, avvalendosi di mezzi fraudolenti, per un ammontare complessivo di imposta evasa di Euro 1.010.072,00.

Avverso detta ordinanza propongono ricorso per cassazione i R. a mezzo del loro difensore, con i seguenti motivi:

– violazione ed errata applicazione dell’art. 321 c.p.p. in relazione all’art. 322 ter e L. n. 244 del 2007, art. 1, comma 143: è inammissibile la confisca per equivalente dei beni dell’indagato e conseguentemente il sequestro, dovendo, in primo luogo, essere attinte dalla misura ablatoria le somme costituenti il profitto e/o il prezzo del reato, nel caso in esame da individuarsi nei beni rientranti nel compendio aziendale della Excelsior s.r.l.; di tal che era onere del giudice, che ha disposto la misura, motivare in ordine alla impossibilità di procedere al sequestro di beni costituenti direttamente il profitto del reato;

– è da censurare la omessa quantificazione del valore dei beni sottoposti alla misura cautelare, dovendo il sequestro essere proporzionato al profitto, nonchè l’applicazione del vincolo anche alla quota societaria nella disponibilità del R., essendo la stessa già sottoposta a vincolo giudiziario, sia pure con riferimento ad altri reati, ma pur sempre nell’ambito dello stesso procedimento penale;

– è inammissibile il sequestro degli immobili di appartenenza della R.I., in quanto la stessa è estranea al reato contestato, non risultando provato il carattere fittizio della intestazione di detti beni in capo alla ricorrente e non sussistendo collegamento tra tali beni e il reato ascritto all’indagato.

Motivi della decisione

Il ricorso è infondato e va rigettato.

La argomentazione motivazionale, adottata dal decidente, si palesa logica e corretta e in perfetta assonanza al principio affermato dalla giurisprudenza di legittimità in materia di applicabilità del sequestro preventivo disposto ai fini della confisca per equivalente su beni rientranti nel patrimonio delle persone giuridiche, in particolare, in ipotesi di reati tributari.

Sul punto, questa Corte ha rilevato che la confisca per equivalente ha natura di sanzione; tale natura sanzionatoria discende dalla confiscabilità dei beni che, oltre a non avere alcun rapporto con la pericolosità individuale del reo, neppure hanno collegamento diretto con il singolo reato e la cui ratio è quella di privare il reo di un qualunque beneficio economico dell’attività criminosa, anche di fronte alla impossibilità di aggredire l’oggetto principale, nella convinzione della capacità dissuasiva e disincentivante di tale strumento (ex multis Cass. 14/1/2010, n. 6293).

L’imposizione di un sacrificio patrimoniale, di corrispondente valore a carico del responsabile, è essenzialmente connotata da un carattere afflittivo e da un rapporto di conseguenzialità tipico della sanzione penale, senza soddisfare alcuna funzione di prevenzione, che costituisce la principale finalità delle misure di sicurezza (Cass. 18/2/2009, n. 13098).

Questa Corte ha, di poi, specificatamente esaminato la questione della confiscabilità per equivalente dei beni appartenenti a persone giuridiche per reati tributari, commessi dall’amministratore della società, addivenendo a ritenere illegittimo, nella specie, l’applicazione della misura afflittiva su beni appartenenti alla società medesima, stante, in ragione della natura di sanzione penale di detta confisca, la inapplicabilità della stessa nei confronti di soggetto diverso dall’autore del fatto (Cass. 14/6/12, n. 25774).

Di poi, come è noto, il D.Lgs. n. 231 del 2001, art. 19, prevede la confisca, anche per equivalente, come una delle sanzioni principali applicabili alla persona giuridica ritenuta responsabile per uno dei reati presupposto inseriti nel catalogo degli illeciti penali espressamente previsti dalla normativa che disciplina la responsabilità amministrativa dell’ente (artt. 24 e segg. citato decreto).

Nella materia del diritto penale tributario la possibilità di applicare la misura ablatoria è impedita dalla mancata inclusione dei reati fiscali, previsti dal D.Lgs. n. 74 del 2000 nell’elenco degli illeciti penali, richiamati dal citato D.Lgs. n. 231 del 2001, art. 24 e segg.: infatti con riferimento al sequestro preventivo funzionale alla confisca per equivalente, D.Lgs. n. 231 del 2001, artt. 53 e 19, si è avuto modo di affermare che non può essere disposto sui beni appartenenti alla persona giuridica ove si proceda per le violazioni finanziarie commesse dal rappresentante legale della società, atteso che i delitti fiscali non figurano tra le fattispecie dei reati presupposto che possono determinare la responsabilità dei soggetti collettivi e che, conseguentemente, sono in grado di giustificare l’adozione del provvedimento cautelare (Cass. 19/9/2012, n. 1256; Cass. 14/6/2012, n. 25774).

In tal senso si è rilevato che una responsabilità degli enti per i reati tributari non potrebbe essere fatta derivare da quella assegnata alle persone giuridiche nel diritto tributario, in quanto il sistema del diritto penale tributario va letto e interpretato nell’ambito del complessivo sistema del diritto penale e non può essere ritenuto un mero apparato sanzionatorio di disposizioni tributarie, avente vita a sè stante ed avulso dal generale sistema punitivo, quasi fosse una sorta di “sistema speciale” (Cass. 2/5/2013, n. 24851).

In effetti, solo un intervento legislativo che preveda espressamente la responsabilità della persona giuridica per i reati tributari, commessi a vantaggio e nell’interesse dell’ente, potrebbe rendere possibile la confisca di valore nei confronti dello stesso (sent. n. 1256/13 citata).

Peraltro, l’attuale sistema punitivo, volto al recupero dei proventi del reato attraverso la confisca di valore, prevede una disparità di trattamento in riferimento alla previsione della confisca non solo tra le persone fisiche e le persone giuridiche, ma tra le stesse persone giuridiche, a seconda che queste rappresentino una emanazione meramente strumentale degli autori del reato, persone fisiche, ovvero siano persone giuridiche di dimensione non modesta, rispetto alle quali il contributo delle persone fisiche non può mutarne a tal punto la natura, sicchè queste ultime non possono essere assoggettate alla responsabilità amministrativa degli enti ex D.Lgs. n. 231 del 2001 e neppure alla responsabilità penale per la frode fiscale commessa dall’amministratore delegato in loro favore.

Del pari destituito di fondamento si palesa il secondo motivo di annullamento, sia in ordine alla eccepita sproporzionalità del valore dei beni sottoposti a sequestro in rapporto al profitto del reato, che in relazione alla insequestrabilità dei beni perchè già oggetto di vincolo giudiziario.

Infatti, il Tribunale, a giusta ragione, rileva che la documentazione, acquisita in atti, consente certamente di ritenere sussistente il requisito della proporzionalità, atteso che la Guardia di Finanza operante aveva compiutamente determinato l’ammontare dell’i.r.e.s. non versata, pari ad oltre un milione di Euro per l’intero periodo preso in considerazione, così individuando l’entità del profitto discendente dal reato posto in essere. Nella stessa misura gli accertamenti sulla consistenza patrimoniale del R. e la specificazione della misura del denaro sequestrato e del valore catastale degli immobili appresi consentono di determinare in maniera, pressocchè certa il valore dei beni complessivamente sottoposti a vincolo.

Sul punto il giudice di merito richiama il principio affermato dalla giurisprudenza di legittimità, secondo cui è legittima la determinazione del valore economico dei beni immobili da sottoporre a sequestro preventivo funzionale alla confisca per equivalente desunta dagli estimi catastali, ben potendo gli interessati fare valere eventuali difformità rispetto al valore commerciale attraverso l’istanza di revoca oppure mediante le impugnazioni ex art. 324 c.p.p. (Cass. 16/3/2012, n. 10438); peraltro, nel caso di specie il valore dei beni sottoposti a vincolo reale è di gran lunga inferiore al profitto che si assume derivato dalla consumazione del reato contestato.

Nè il Tribunale, correttamente, ritiene fondata la censura afferente il fatto che la quota societaria, attinta dal decreto ablatorio, sia stata già in precedenza sottoposta a vincolo giudiziario, per altri reati, con altro provvedimento (sequestro prevenivo, ma non per equivalente): la differente finalità dei vincoli imposti, unitamente alla diversità dei presupposti normativi su cui essi riposano ed alle sorti su cui gli stessi possono andare incontro per le più disparate ragioni, tenuto conto, peraltro, che l’adozione con riferimento ad ipotesi delittuose distinte, esclude la esistenza della incompatibilità prospettata dalla difesa, ben potendo entrambi i vincoli coesistere sul medesimo bene.

Infondato è da ritenere l’ulteriore motivo di annullamento, con il quale si eccepisce la insequestrabilità dell’immobile di proprietà di R.I., in quanto costei è soggetto estraneo al reato per cui si procede: il giudicante, dagli elementi acquisiti in atti, ha rilevato che l’immobile in questione, pur se intestataria ne risulta R.I., è da considerare nella disponibilità dell’indagato, con l’evidenziare che quest’ultimo con le proprie risorse patrimoniali, ha permesso l’acquisto del bene, interponendo volutamente a sè la propria figlia.

Orbene, la confisca per equivalente e, quindi, il sequestro preventivo ad essa finalizzato, per essere conformi al modello legale, possono e devono investire i beni di cui il reo abbia la disponibilità.

Tanto chiarito, va ribadito che il richiamo normativamente compiuto al concetto di disponibilità del bene non può che essere inteso, come rilevato in ordinanza, in riferimento ad un rapporto di fatto tra l’agente e il bene medesimo, assimilabile a quello derivante dai diritti reali, eventualmente anche a prescindere da una intestazione formale del relativo diritto di proprietà.

P.Q.M.

La Corte Suprema di Cassazione rigetta il ricorso e condanna i ricorrenti al pagamento delle spese processuali.

Così deciso in Roma, il 23 ottobre 2013.

Redazione