Reati di ingiuria e minaccia contro il vicino: non è reato se il vicino non è presente (Cass. pen. n. 35235/2012)

Redazione 13/09/12
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Fatto e diritto

Propone ricorso per cassazione I.A. avverso la sentenza del Tribunale di Reggio Calabria – sezione distaccata di Melito Porto Salvo – in data 7 gennaio 2011 con la quale è stata confermata quella di primo grado, di condanna alle pene di giustizia e al risarcimento del danno, in riferimento alle imputazioni di ingiuria e minacce, reati commessi nell’(omissis) in danno di C.S.
I fatti avevano avuto luogo quando il C. , proprietario di un’abitazione in campagna, ubicata su terreno confinante con quello dei suoceri dell’imputato, aveva richiesto l’intervento dei Carabinieri denunciando che sull’area limitrofa erano stati abbandonati residui organici maleodoranti.
Poco dopo l’arrivo dei militari che avevano riscontrato la situazione denunciata, era sopraggiunto l’imputato il quale, apprese le ragioni della presenza dei Carabinieri, aveva proferito frasi dal contenuto ingiurioso e minaccioso riferite al denunciante C. Costui, però, secondo quanto emerso nel corso dell’istruttoria e diversamente da quanto affermato nella querela, si trovava non in presenza dell’imputato ma al di là della rete di recinzione delle proprietà, alta due metri e tale da costituire ostacolo alla visuale.
Deduce il ricorrente il vizio di motivazione e la violazione di legge.
Proprio alla luce dell’istruttoria dibattimentale e di quanto dichiarato dal maresciallo dei Carabinieri poteva dirsi accertata la evidente falsità delle originarie dichiarazioni della persona offesa.
Questa aveva affermato di essere stata minacciata e ingiuriata dall’imputato, quindi essendo presente ai fatti-reato contestati, mentre dalle parole del sottufficiale era emerso il contrario e cioè che la persona offesa non solo non era presente quando l’imputato aveva pronunciato le frasi di cui all’imputazione, ma, per di più, era lontana alcune decine di metri (tra 60 e 100), tale essendo la distanza tra la proprietà del C. e il posto ove era stato effettuato il sopralluogo dei Carabinieri.
La persona offesa aveva mentito anche sulla data del commesso un reato.
In conclusione doveva accreditarsi la tesi difensiva secondo cui l’imputato aveva parlato esclusivamente con il sottufficiale, consapevole della non presenza della presunta persona offesa, tant’è che aveva formulato l’espressione “lo ammazzo” e non quella “ti ammazzo” che si pronuncia quando la minaccia è proferita alla presenza della persona offesa.
Tate situazione avrebbe dovuto comportare l’assoluzione dal reato di ingiuria che presuppone la presenza dell’offeso ma anche da quello di minaccia, escluso dalla convinzione dell’imputato che la prospettazione del male ingiusto non era stata percepita dal soggetto interessato.
Il ricorso è fondato.
Invero, occorre prendere le mosse dal principio di diritto, correttamente evocato nel ricorso, secondo cui l’ingiuria presuppone la presenza del destinatario dell’offesa.
Tale presenza, secondo la dottrina ed anche la giurisprudenza, non comporta necessariamente che la persona offesa debba essere materialmente vista dal soggetto agente sicché è sufficiente che si accerti la obiettiva presenza dell’offeso il quale percepisca le frasi ingiuriose pronunciate dall’imputato.
La giurisprudenza di legittimità, tuttavia, aveva anche posto in evidenza, da epoca risalente, che l’art. 594 cod. pen. non considera la presenza dell’offeso come una circostanza che può essere valutata a carico o a favore dell’imputato anche se da lui sconosciuta, e nemmeno come una condizione di punibilità, ma la prevede tra quegli elementi costitutivi del reato che l’imputato deve conoscere perché si realizzi l’ipotesi delittuosa dell’ingiuria. La mancata conoscenza della presenza della persona offesa, impedisce il perfezionamento del delitto di ingiuriale, in ipotesi, fa subentrare l’ipotesi della diffamazione, che punisce chiunque, comunicando con più persone, offende l’altrui reputazione” (Rv. 121600).
Nel caso di specie, la Corte territoriale ha affermato che l’imputato doveva essere consapevole della presenza, al di là della rete divisoria, della persona offesa, in ragione del fatto che aveva proferito le espressioni minacciose e ingiuriose a voce alta e in direzione dell’abitazione della persona offesa, proprio per essere sentito.
Una simile argomentazione risulta però tautologica e incapace di dimostrare il requisito normativo in questione poiché pretende di far discendere la prova del necessario elemento oggettivo di una delle fattispecie in contestazione (presenza della persona offesa al di là della rete divisoria delle proprietà, al momento del comportamento ingiurioso) da un elemento attinente al comportamento dell’agente (avere proferito le ingiurie a voce alta), compatibile, sul piano logico, anche con la situazione contraria a quella prefigurata dei giudici: e ciò, in presenza di soli elementi oggettivamente capaci, semmai, di sostenere la tesi difensiva (distanza compresa tra i 60 e i 100 metri, tra l’agente e la persona offesa; presenza, tra i due, di una rete di recinzione alta due metri, totalmente preclusiva della visuale; decorso di un certo lasso di tempo tra la visita del maresciallo dei Carabinieri alla persona offesa denunciante e il sopraggiungere l’imputato nel luogo ove il detto maresciallo si era recato a contestare i fatti di cui alla denuncia del C.).
La descritta illogicità della motivazione si ripercuote anche sulla configurazione del delitto di minacce.
Secondo la costante giurisprudenza, ai fini della configurazione del delitto di minaccia non occorre che le espressioni intimidatorie siano pronunciate in presenza della persona offesa, essendo solo necessario che questa sia venuta a conoscenza anche tramite altre persone, a condizione che ciò avvenga in un contesto per il quale si ritenga che l’agente abbia avuto la volontà di produrre l’effetto intimidatorio (v. fra le molte, Rv. 226644),
A tale principio non sembra essersi allineata la Corte di merito la quale ha posto in evidenza come l’avere, l’imputato, detto alla presenza del militare, la frase minacciosa “lo ammazzo”, costituirebbe condotta evidentemente finalizzata a far sì che l’ascoltatore si facesse carico del dovere di informare il destinatario della minaccia stessa: senonché, non appare logicamente illustrata la ragione sulla quale sarebbe fondato il dovere o comunque la elevata probabilità che l’ascoltatore della minaccia l’avrebbe riferita all’effettivo destinatario.

 

P.Q.M.

 

Annulla la sentenza impugnata con rinvio al Tribunale di Reggio Calabria per nuovo esame.

Redazione