Professioni non protette: compenso ridotto a chi offre consulenza professionale senza essere iscritto all’albo (Cass. n. 9741/2013)

Redazione 22/04/13
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Svolgimento del processo

1.- Nell’agosto 2001 S.G. – ritenuta inadeguata la somma 60 milioni di lire offertale dagli eredi di C.C. (e residenti in (omissis)) quale compenso per l’attività di amministrazione (di 14 appartamenti e negozi in (omissis), denaro e titoli) da lei svolta in base a mandato con rappresentanza dal giugno del 1987 al dicembre del 1997 (quando le era stata revocata la procura) – agì giudizialmente nei confronti dei mandanti per il pagamento della somma di circa 251 milioni di lire, modificata in corso di causa in circa 363.000 Euro.
I convenuti resistettero, sostenendo che la S. non aveva loro rimesso tutto quanto dovuto, ma solo 60 dei circa 80 milioni di cui si affermarono creditori. Chiesero dunque che fosse condannata, previo rendiconto della gestione, al pagamento della differenza.
Depositato dall’attrice il conto, espletata c.t.u. ed assunta la prova testimoniale, con sentenza n. 348 del 2004 il Tribunale di Chiavari condannò la S. a pagare ai convenuti (attori in riconvenzione) la somma di Euro 14.724,41, ridotta ad Euro 3.474,86 oltre agli interessi dalla Corte d’appello di Genova, che con sentenza n. 536 del 2007 ha parzialmente accolto l’appello della S., compensando le spese del doppio grado.
2.- Avverso detta sentenza ricorre per cassazione S.G., affidandosi a quattro motivi illustrati anche da memoria, cui i quattro intimati C.C. resistono con controricorso.

Motivi della decisione

1.- Col primo motivo la ricorrente si duole – deducendo violazione e falsa applicazione dell’art. 1709 c.c. e delle disposizioni relative all’ordinamento delle professioni di dottore commercialista, ragioniere e perito commerciale (dd.P.R. nn. 600/1973 e 1068/1953), nonché difetto di motivazione sul punto – che la Corte di merito non abbia fatto applicazione delle relative tariffe professionali per il computo del compenso dovutole, quale mandataria, per la svolta attività di amministrazione dei beni dei mandanti. Invoca, a sostegno dei propri assunti, Corte cost. n. 418/1996 e Cass. civ., n. 12154/93.
1.1.- Il motivo è infondato.
Nessuna delle due sentenze citate suffraga l’assunto della ricorrente:
– non la prima, laddove si afferma che “al di fuori delle attività comportanti prestazioni che possono essere fornite solo da soggetti iscritti ad albi o provvisti di specifica abilitazione (iscrizione o abilitazione prevista per legge come condizione di esercizio), per tutte le altre attività di professione intellettuale o per tutte le altre prestazioni di assistenza o consulenza (che non si risolvano in una attività di professione protetta ed attribuita in via esclusiva, quale l’assistenza in giudizio), vige il principio generale di libertà di lavoro autonomo o di libertà di impresa di servizi a seconda del contenuto delle prestazioni e della relativa organizzazione (salvi gli oneri amministrativi o tributari)” (così l’ultimo paragrafo del n. 3 del “considerato in diritto” della sentenza), giacché dalla possibilità del non abilitato di svolgere attività non protetta non discende affatto che, ove la svolga, la retribuzione debba essere quella prevista per il professionista abilitato;
– non la seconda, che ha bensì affermato che “per il disposto dell’art. 63 d.P.R. 29 settembre 1973 n. 600, dettato con riferimento alla materia dei tributi erariali diretti, ma di applicazione generale nel settore del diritto tributario, l’attività extraprocessuale di rappresentanza e di assistenza del contribuente davanti agli uffici finanziari è liberamente esercitabile, senza necessità di una qualificazione professionale, in guisa che deve ammettersi la normale retribuibilità dell’attività anzidetta prestata per incarico del contribuente, indipendentemente dalla iscrizione in un albo professionale”, ma in riferimento ad un caso nel quale il compenso era stato concordato dalle parti (in L. 500.000, come risulta dall’inizio della parte della sentenza dedicata allo “svolgimento del processo”) e non già richiesto in misura corrispondente a quanto previsto dalle tariffe professionali.
Non è dunque censurabile in diritto, e pienamente appagante sotto il profilo della sufficienza della motivazione sull’apprezzamento del fatto, l’affermazione della Corte d’appello che, in ordine alla determinazione del compenso del mandatario ex art. 1709 c.c., ha ritenuto che fosse sorretta da razionalità l’opinione del primo giudice nel senso che la prestazione professionale non protetta resa dal non professionista “è caratterizzata da un minor valore in quanto carente della spendita, a beneficio del committente, della competenza ed esperienza del professionista”.
Va dunque enunciato il seguente principio di diritto: “per le attività professionali non protette svolte dal mandatario non professionista, l’art. 1709 c.c. non impone che il compenso sia determinato nella stessa misura prevista, per il professionista, dalle tariffe professionali”.
2.- Col secondo motivo la sentenza è censurata per violazione dell’art. 1709 c.c. e per ogni possibile tipo di vizio della motivazione in relazione alla omessa, specifica ricerca degli “usi applicabili”, che la Corte d’appello ha detto non rinvenuti.
Il motivo è inammissibile per violazione dell’art. 366 bis, risultando totalmente omesso il quesito di diritto ed il prescritto momento di sintesi in ordine alla motivazione, al contempo denunciata come “omessa, contraddittoria e/o insufficiente”, con inammissibile delega alla Corte di “ricercare” il vizio specifico da cui fosse per risultare affetta.
3.- Col terzo motivo sono dedotte violazione degli artt. 1709, 1374 e 2225 c.c. e mancata valutazione della natura, quantità e qualità dell’opera svolta, nonché del positivo risultato conseguito.
3.1.- La censura è in realtà incentrata sull’omessa considerazione, ai fini della determinazione del compenso, dell’utilitas tratta dai mandanti per l’attività della mandataria. Ed è infondata.
Premesso che la motivazione della sentenza è del tutto esauriente in punto di considerazione di quanto fatto dalla mandataria per la gestione del patrimonio dei mandanti, correttamente la Corte d’appello ha affermato che, ai fini della determinazione del compenso del mandatario, il ricorso all’equità postula e soddisfa “proprio l’esigenza di correlazione tra la prestazione ed il compenso” (a pag. 7, in fine, della sentenza impugnata), correttamente escludendo che la disciplina del mandato sia riconducibile a quella del contratto d’opera, per il quale l’art. 2225 c.c. espressamente prevede che il corrispettivo sia determinato anche in considerazione del risultato ottenuto.
Ne offrono un’appagante spiegazione i controricorrenti, laddove osservano che nel contratto d’opera il prestatore sopporta il rischio del lavoro (rectius: dell’esecuzione dell’opera a regola d’arte ex art. 2224, primo comma, c.c.) ed i relativi costi, al contrario di quanto avviene nel mandato, che va eseguito con la diligenza del buon padre di famiglia (art. 1710, primo comma, c.c.) e con i mezzi somministrati dal mandante (art. 1719 c.c.).
4.- Col quarto motivo la sentenza è da ultimo censurata per violazione degli artt. 61, 191 e 194 c.p.c. in punto di accertamento e quantificazione dell’attività di custodia degli immobili posti sotto sequestro e di esecuzione delle disposizioni testamentarie, nonché per ogni possibile tipo di vizio della motivazione.
4.1.- La censura di vizio della motivazione è inammissibile sia per l’ontologica impossibilità che una motivazione che si assume omessa (e dunque non esistente) possa essere anche contraddittoria, sia per assoluto difetto del momento di sintesi di cui all’art. 366 bis c.p.c..
Quella di violazione di legge è infondata.
La Corte ha ritenuto, con valutazione di fatto non correlata alla valutazione economica del c.t.u. circa il possibile compenso spettante alla S. come custode dei beni ereditari assoggettati a sequestro (e come esecutore testamentario), che tale prestazione fosse sovrapponibile “a quella che sarebbe stata, anche in assenza di sequestro, la normale gestione dei beni”. Né la ricorrente spiega perché così non fosse.
5.- Il ricorso è conclusivamente respinto.
Le spese seguono la soccombenza.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso e condanna la ricorrente alle spese, che liquida in Euro 4.200, di cui Euro 4.000 per compensi, oltre agli accessori di legge.

Redazione