Prescizione del compenso spettante al professionista (Cass. n. 24742/2013)

Redazione 05/11/13
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Ordinanza

Svolgimento del processo – Motivi della decisione

Nella causa indicata in premessa, è stata depositata la seguente relazione: “1. – La sentenza impugnata (Tribunale di Taranto – sede distaccata di Grottaglie 23/05/2011, non notificata), accogliendo l’appello dell’odierno intimato, riteneva fondata l’opposizione a decreto ingiuntivo emesso in favore dell’odierno ricorrente e lo revocava. Secondo il Giudice territoriale non si poteva attribuire efficacia negoziale all’impegno del debitore ( L.) di pagare la somma richiesta, poichè questo, pur interrompendo la prescrizione presuntiva, non determinava la nascita di una nuova obbligazione, con la conseguenza che doveva escludersi l’applicabilità del termine prescrizionale decennale.

2. Ricorre per cassazione il P. con un unico motivo di ricorso. L’intimato non ha svolto attività difensiva in questa sede.

3. Con l’unico motivo di ricorso il ricorrente lamenta “violazione e falsa applicazione dell’art. 2956 c.c., n. 2 e dei principi che regolano la prescrizione presuntiva; violazione e falsa applicazione degli artt. 1988, 1321, 1324, 1326, 1334, 1372 e 2233 c.c.; violazione e falsa applicazione dell’art. 1362 c.c.”. Il giudice d’appello avrebbe errato nel considerare l’impegno del L. a saldare entro breve termine il compenso dell’odierno ricorrente per l’attività professionale svolta in suo favore come “accettazione della misura del compenso proposto dal professionista”, posto che in precedenza, questo non era stato determinato. Di conseguenza avrebbe errato nel non ritenere inoperante la prescrizione presuntiva, qualificando detto impegno come promessa di pagamento.

4. – Il ricorso è manifestamente privo di pregio.

4.1 – L’unica censura formulata mette in discussione accertamenti di fatto e valutazioni di merito. Il Giudice territoriale, ha, con motivazione adeguata, correttamente escluso l’efficacia negoziale della dichiarazione del debitore (odierno intimato), qualificando la medesima come promessa di pagamento. Al riguardo, si deve innanzitutto precisare che, secondo la giurisprudenza di questa Corte, la qualificazione del rapporto controverso, oggetto della domanda giudiziale, consistendo in un giudizio di fatto, è incensurabile in sede di legittimità.

4.2. – Nel caso di specie le predette violazioni di legge, non sono, pertanto, nemmeno configurabili. Come questa Corte ha avuto più volte modo di evidenziare, il vizio di violazione di legge consiste nella deduzione di un’erronea ricognizione, da parte del provvedimento impugnato, della fattispecie astratta recata da una norma di legge e quindi implica necessariamente un problema interpretativo della stessa (di qui la funzione di assicurare l’uniforme interpretazione della legge assegnata alla Corte di cassazione dall’art. 65 ord. giud.); viceversa, l’allegazione di un’erronea ricognizione della fattispecie concreta a mezzo delle risultanze di causa è esterna all’esatta interpretazione della norma di legge e impinge nella tipica valutazione del giudice di merito, la cui censura è possibile, in sede di legittimità, sotto l’aspetto del vizio di motivazione; il discrimine tra l’una e l’altra ipotesi – violazione di legge in senso proprio a causa dell’erronea ricognizione dell’astratta fattispecie normativa, ovvero erronea applicazione della legge in ragione della carente o contraddittoria ricostruzione della fattispecie concreta – è segnato, in modo evidente, dal fatto che solo quest’ultima censura, e non anche la prima, è mediata dalla contestata valutazione delle risultanze di causa (Cass. n. 16698 e 7394 del 2010; 4178/07; 10316/06; 15499/04).

Considerato che il ricorrente neanche prospetta “vizi motivazionali”, il ricorso non coglie nel segno, tenuto conto, altresì, che le violazione delle norme prospettate muovono, comunque, da una ricostruzione dell’assetto negoziale diversa da quella motivatamente adottata dal giudice di appello.

4.3. – Senza contare che la decisione impugnata si rivela, sul punto, in armonia con il consolidato orientamento, secondo cui “il riconoscimento del debito, come qualsiasi altra causa interruttiva della prescrizione, ha il solo effetto di far considerare come non decorso, agli effetti prescrittivi, il tempo anteriormente trascorso, si che dall’atto interruttivo inizia un nuovo periodo di prescrizione, non già a far escludere l’applicabilità della prescrizione presuntiva al rapporto” (Cass. n. 3515/1969, orientamento non smentito da successive pronunce).

5. – Si propone la trattazione in Camera di consiglio e la declaratoria di inammissibilità del ricorso”.

La relazione è stata comunicata al Pubblico Ministero e notificata ai difensori delle parti costituite.

La parte ricorrente ha presentato memoria.

A seguito della discussione sul ricorso in camera di consiglio, il Collegio ha condiviso i motivi in fatto e in diritto esposti nella relazione, atteso che le considerazioni svolte in memoria non giustificano in alcun modo una soluzione della controversia diversa rispetto a quella prospettata nella relazione.

In particolare osserva il Collegio che – a prescindere da ogni altra considerazione – parte ricorrente è carente di interesse a dolersi della qualificazione data dal giudice a quo della dichiarazione 4 giugno 1999.

Anche nella eventualità – infatti – potesse pervenirsi (superando le puntuali osservazioni svolte nella memoria) alla conclusione che con la dichiarazione in questione deve qualificarsi “come accettazione della misura del compenso richiesta dal P.” nonchè come “dilazione, la possibilità stabilita delle parti di pagare successivamente il debito scaduto” e, infine, come “quietanza il documento stesso”, non per questo potrebbe mai pervenirsi alla cassazione della sentenza impugnata e alla affermazione della non operatività – nella specie – della prescrizione prevista dall’art. 2956 c.c., n. 2.

Al riguardo deve ribadirsi – giusta quanto assolutamente pacifico in dottrina nonchè presso una più che consolidata giurisprudenza di questa Corte regolatrice – che nell’ipotesi in cui l’interpretazione letterale di una norma di legge sia sufficiente ad individuarne, in modo chiaro ed univoco, il relativo significato e la connessa portata precettiva, l’interprete non deve ricorrere al criterio ermeneutico sussidiario costituito dalla ricerca, mercè l’esame complessivo del testo, della mens legis, specie se, attraverso siffatto procedimento, possa pervenirsi al risultato di modificare la volontà della norma sì come inequivocabilmente espressa dal legislatore.

Soltanto qualora la lettera della norma medesima risulti ambigua (e si appalesi altresì infruttuoso il ricorso al predetto criterio ermeneutico sussidiario), l’elemento letterale e l’intento del legislatore, insufficienti in quanto utilizzati singolarmente, acquistano un ruolo paritetico in seno al procedimento ermeneutico, sì che il secondo funge da criterio comprimario e funzionale ad ovviare all’equivocità del testo da interpretare, potendo, infine, assumere rilievo prevalente rispetto all’interpretazione letterale soltanto nel caso, eccezionale, in cui l’effetto giuridico risultante dalla formulazione della disposizione sia incompatibile con il sistema normativo, non essendo consentito all’interprete correggere la norma nel significato tecnico proprio delle espressioni che la compongono nell’ipotesi in cui ritenga che tale effetto sia solo inadatto rispetto alla finalità pratica cui la norma stessa è intesa (tre le altre, ad esempio, in questo senso, Cass. 6 aprile 2001, n. 5128).

Facendo applicazione, al caso di specie, dei riferiti principi è di palmare evidenza che l’espressione (contenuta nell’art. 2956 c.c., n. 2) “si prescrive in tre anni il diritto”… “dei professionisti, per il compenso dell’opera prestata e per il rimborso delle spese correlative” è inequivoca nell’assoggettare a prescrizione triennale tutti i crediti dei professionisti “per il compenso dell’opera prestata e per il rimborso delle spese correlative”. Pertanto, al riguardo:

– da un lato, è assolutamente irrilevante e non pertinente al fine del decidere (contrariamente a quanto suppone la difesa di parte ricorrente, cfr. p. 11 della memoria) che “la prescrizione presuntiva trova fondamento nella prassi per la quali in taluni rapporti normalmente non vengono disciplinati con un atto scritto e si svolgono senza formalità, per cui decorso un certo periodo di tempo senza che il creditore si sia attivato la legge presume che il debito sia stato pagato”;

– dall’altro, che la disposizione in questione (id est l’art. 2956 c.c., n. 2) si riferisce ai crediti maturati da professionisti, per l’opera da loro prestata (come nella specie l’opera del P.) a prescindere dalla circostanza che il contratto (di prestazione d’opera) sia stato, o meno, redatto per iscritto, che le parti abbiano, o meno, previamente (o successivamente alla conclusione dell’attività) concordato la misura del compenso (salva ovviamente, l’eventualità di espressa pattuizione sin dal momento del conferimento dell’incarico, incompatibile con il regime dell’art. 2956 c.c.);

– da ultimo che qualora, dopo il compimento dell’attività professionale sia intervenuto (come nella specie) il riconoscimento del debito, da parte del debitore, lo stesso – come qualsiasi altra causa interruttiva della prescrizione – ha il solo effetto di far considerare come non decorso, agli effetti prescrittivi, il tempo anteriormente trascorso, si che dall’atto interruttivo inizia un nuovo periodo di prescrizione, non già a far escludere l’applicabilità della prescrizione presuntiva al rapporto (in termini, Cass. 25 ottobre 1969, n. 3515, già richiamata nella relazione e per superare le cui argomentazioni nulla ha opposto la difesa del ricorrente). Irrilevanti – da ultimo – al fine di pervenire a una diversa soluzione della controversia si appalesano i precedenti giurisprudenziali richiamati in memoria, posto che gli stessi fanno riferimento o a crediti non derivanti da attività professionali nascenti da contratti stipulati originariamente per iscritto, o comunque a fattispecie particolari (come nella ipotesi all’esame di cui Cass. 7 aprile 2006, n. 8200, nella quale era stato espressamente pattuito, per iscritto, al momento del conferimento dell’incarico; che in relazione a compenso per attività professionale pattuito il pagamento doveva essere effettuato entro trenta giorni dall’ottenimento del contributo da parte dell’ente finanziatore).

Il ricorso, in conclusione, deve essere rigettato perchè manifestamente infondato.

Nulla per le spese non avendo l’intimato svolto attività difensiva in questa sede;

visti gli artt. 380-bis e 385 cod. proc. civ..

P.Q.M.

Rigetta il ricorso.

Così deciso in Roma, il 9 ottobre 2013.

Redazione