Possibilità di sanare un difetto di rappresentanza (Cass. n. 5483/2013)

Redazione 06/03/13
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Svolgimento del processo

Con ricorso depositato il 1 dicembre 2008 la Corte d’appello di Perugia, L.A. proponeva, ai sensi della L. n. 89 del 2001, domanda di equa riparazione del danno non patrimoniale sofferto a causa della non ragionevole durata di una controversia iniziata dinnanzi al Tribunale di Roma e definita con sentenza della Corte di cassazione.

L’adita Corte d’appello ha dichiarato inammissibile il ricorso rilevando che: l’Avvocatura dello Stato aveva eccepito la nullità della procura perchè non erano indicati nè la data nè il luogo di rilascio; che occorreva accertare se la procura fosse stata rilasciata in Italia; che a tal fine era stato ammesso interrogatorio formale del ricorrente; che questi, dopo che una rogatoria non era andata a buon fine perchè non era stato specificato il suo indirizzo in (omissis), non era comparso per rispondere senza addurre alcuna valida ragione.

La Corte d’appello ha poi escluso che potesse avere efficacia sanante il documento, prodotto in corso di giudizio, con il quale apparentemente il ricorrente aveva conferito mandato al proprio difensore, rilevando che tale documento era privo di apostille. La Corte riteneva quindi, ai sensi dell’art. 232 cod. proc. civ., che la procura non fosse stata sottoscritta in Italia.

Per la cassazione di questo decreto L.A. ha proposto ricorso sulla base di due motivi, cui ha resistito, con controricorso, l’intimata Amministrazione.

Motivi della decisione

Con il primo motivo del ricorso i ricorrenti denunciano violazione e falsa applicazione dell’art. 182 cod. proc. civ., dolendosi del fatto che la Corte d’appello di Perugia non abbia disposto la sanatoria del rilevato difetto di procura, così come invece era doveroso ai sensi del comma 2 della detta disposizione. A tal fine, il ricorrente riproduce nel ricorso copia di una procura rilasciata a mezzo notaio pubblico in Croazia nel febbraio 2012.

Il primo motivo di ricorso è infondato.

Premesso che il giudizio di equa riparazione ha avuto inizio prima del 4 luglio 2009, deve escludersi che in quel giudizio potesse trovare applicazione l’art. 182 c.p.c., comma 2, come modificato dalla L. n. 69 del 2009, art. 46 a norma del quale “quando rileva un difetto di rappresentanza, di assistenza o di autorizzazione ovvero un vizio che determina la nullità della procura al difensore, il giudice assegna alle parti un termine perentorio per la costituzione della persona alla quale spetta la rappresentanza o l’assistenza, per il rilascio delle necessarie autorizzazioni, ovvero per il rilascio della procura alle liti o per la rinnovazione della stessa.

L’osservanza del termine sana i vizi, e gli effetti sostanziali e processuali della domanda si producono fin dal momento della prima notificazione”.

La citata disposizione, invero, ai sensi della L. n. 69 del 2009, art. 58 trova applicazione ai procedimenti iniziati successivamente alla entrata in vigore delle medesima legge, e cioè dopo il 4 luglio 2009.

Nè potrebbe ritenersi che la citata disposizione dovesse essere applicata seguendo l’orientamento espresso dalle Sezioni Unite di questa Corte (Cass., S.U., n. 9217 del 2010), secondo cui “l’art. 182 c.p.c., comma 2 (nel testo applicabile ratione temporis, anteriore alle modifiche introdotte dalla L. n. 69 del 2009), secondo cui il giudice che rilevi un difetto di rappresentanza, assistenza o autorizzazione “può” assegnare un termine per la regolarizzazione della costituzione in giudizio, dev’essere interpretato, anche alla luce della modifica apportata dalla L. n. 69 del 2009, art. 46, comma 2, nel senso che il giudice “deve” promuovere la sanatoria, in qualsiasi fase e grado del giudizio e indipendentemente dalle cause del predetto difetto, assegnando un termine alla parte che non vi abbia già provveduto di sua iniziativa, con effetti ex tunc, senza il limite delle preclusioni derivanti da decadenze processuali”.

Tale principio, all’evidenza, offre un criterio interpretativo dell’art. 182, comma 2, relativamente al contenuto di tale disposizione prima della entrata in vigore delle modificazioni apportate nel 2009, non anche con riferimento ad un contenuto normativo per l’innanzi inesistente, quale è quello relativo alla rilevazione di un vizio che determina la nullità della procura al difensore. Deve quindi escludersi la sussistenza, nel caso di specie, dell’obbligo, che i ricorrenti ritengono sia stato violato, del giudice di concedere alla parte un termine per la regolarizzazione della procura.

La Corte d’appello, del resto, ha rilevato – e la circostanza non è stata contestata dal ricorrente – che il documento prodotto nel giudizio presupposto non fosse idoneo a rimuovere il rilevato vizio di nullità della procura perchè privo non solo di legalizzazione ma anche di apostille. Si è quindi adeguata al principio per cui “ai sensi della Convenzione sull’abolizione della legalizzazione di atti pubblici stranieri, adottata a l’Aja il 5 ottobre 1961 e ratificata dall’Italia con L. 20 dicembre 1966, n. 1253, la dispensa dalla legalizzazione è condizionata al rilascio, da parte dell’autorità designata dallo Stato di formazione dell’atto, di apposita apostille, da apporre sull’atto stesso, o su un suo foglio di allungamento, secondo il modello allegato alla Convenzione, con la conseguenza che, in assenza di tale forma legale di autenticità del documento, il giudice italiano non può attribuire efficacia validante a mere certificazioni provenienti da un pubblico ufficiale di uno Stato estero” (Cass. 27282 del 2008). Più in particolare, “con riguardo a procura alle liti rilasciata all’estero, il requisito della legalizzazione da parte di autorità consolare italiana (di cui alla L. 4 gennaio 1968, n. 15, art. 15 oggi sostituita dal D.P.R. 28 dicembre 2000, n. 445, in tema di documentazione amministrativa), non è richiesto ove la procura medesima sia stata conferita a mezzo di notaio in Paese aderente alla Convenzione dell’Aja del 5 ottobre 1961, resa esecutiva in Italia con la L. 20 dicembre 1966, n. 1253, poichè il relativo atto, di natura sostanziale, rientra tra quelli per i quali detta Convenzione ha abolito l’obbligo della ricordata legalizzazione, nel senso che oggi è sufficiente la formalità della apostille” (Cass., S.U., n. 1244 del 2004; Cass. n. 10901 del 2002).

A maggior ragione deve escludersi che la procura depositata unitamente al ricorso per cassazione possa avere efficacia sanante della rilevata nullità della procura rilasciata per il giudizio svoltosi dinnanzi alla Corte d’appello.

Con il secondo motivo il ricorrente denuncia violazione e falsa applicazione degli artt. 434, 115, 116, 232, 83 cod. proc. civ., e sostiene che la Corte d’appello abbia errato nell’attribuire efficacia decisiva alla circostanza che nella procura rilasciata per il giudizio di merito non fossero indicati nè il luogo nè la data del rilascio della procura, e che avrebbe del pari errato ad attribuire efficacia di confessione alla mancata risposta all’interrogatorio formale, inidonea a costituire la prova contraria alla presunzione di rilascio della procura in Italia.

Il motivo è infondato, trovando applicazione il principio per cui “al cittadino straniero che agisca davanti al giudice italiano è consentito il rilascio del mandato ad litem nella forma prevista dall’art. 83 cod. proc. civ., dovendosi presumere la presenza di esso nello Stato italiano, che costituisce il presupposto per la validità della procura medesima, dall’attestazione del procuratore che ne autentica la sottoscrizione. Ne consegue che chi ha interesse a fornire la prova contraria può deferire alla controparte l’interrogatorio formale sulla circostanza dell’avvenuto rilascio della procura non in Italia e, in caso di mancata risposta, il giudice, tenuto conto di altri elementi di giudizio integrativi di segno negativo (nella specie, la residenza dell’estero della parte onerata), può ritenere che sia stata fornita la prova contraria al rilascio in Italia della detta procura. (Cass. n. 665 del 2011).

L’impugnato provvedimento risulta quindi immune dalle proposte censure.

Il ricorso va conseguentemente rigettato e il ricorrente condannato, in applicazione del principio della soccombenza, al pagamento delle spese del giudizio di legittimità, liquidate come da dispositivo.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso; condanna il ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità che liquida in Euro 292,50 per compensi, oltre alle spese prenotate a debito.

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della sesta sezione civile della Corte Suprema di Cassazione, il 12 dicembre 2012.

Redazione