Pensione: pignorabile solo il quinto della quota di pensione netta mensile che eccede il minimo vitale (Cass. n. 18755/2013)

Redazione 07/08/13
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Svolgimento del processo

1.- Con la decisione ora impugnata, pubblicata il 2 agosto 2006, il Tribunale di Ascoli Piceno ha rigettato l’opposizione agli atti esecutivi ed ha parzialmente accolto l’opposizione all’esecuzione, proposte, nella procedura esecutiva per pignoramento presso terzi pendente dinanzi allo stesso Tribunale col n. 74/2003 R.G.E., rispettivamente dalla creditrice procedente R.R. ex art. 617 cod. proc. civ. e dall’esecutata M.M.E. ex art. 615 c.p.c., comma 2.

Il Tribunale ha accolto l’opposizione all’esecuzione proposta dall’esecutata, ritenendo che, essendo l’importo mensile netto della pensione di reversibilità percepita dalla M. pari ad Euro 620,61 (come da dichiarazione resa dall’INPS, terzo pignorato), dovesse essere detratto il cd. minimo vitale, pari ad Euro 525,89 (così calcolato in base alla L. n. 448 del 2001, artt. 38, comma 1 e 2, e della L. n. 289 del 2002, art. 39, comma 8; quindi, maggiorato rispetto all’importo di Euro 516,00 ritenuto detraibile con l’ordinanza di assegnazione ex art. 553 cod. proc. civ.), e perciò fosse pignorabile, nei limiti del quinto, la differenza tra i due importi anzidetti. Ha rigettato l’opposizione agli atti esecutivi proposta dalla creditrice pignorante avverso il provvedimento di assegnazione ex art. 553 cod. proc. civ. (con cui il giudice dell’esecuzione, determinato il suo credito in Euro 17.995,08, oltre interessi legali su Euro 9.892,74, le aveva assegnato le somme corrispondenti al quinto della quota di pensione netta mensile eccedente l’importo di Euro 516,00, ritenuto impignorabile), nonchè avverso il diniego di sospensione di tale provvedimento, anche in ragione di quanto statuito a proposito dell’opposizione all’esecuzione.

Ha compensato parzialmente le spese di lite, condannando la R. al pagamento, in favore della M., dell’importo complessivo di Euro 1.000,00.

2.- Avverso la sentenza R.R. (o R.A.) ha proposto ricorso affidato a sei motivi.

Il difensore dell’Istituto Nazionale della Previdenza Sociale, presente all’udienza del 19 aprile 2013 non è stato ammesso a partecipare alla discussione perchè privo di procura speciale.

M.E. non si è difesa.

Motivi della decisione

1.- I primi tre motivi di ricorso sono riferiti all’accoglimento parziale dell’opposizione all’esecuzione proposta dall’esecutata; i restanti concernono invece il rigetto dell’opposizione agli atti esecutivi proposta dalla creditrice procedente, odierna ricorrente.

Sia l’ordine espositivo del ricorso che quello logico-giuridico impongono l’esame dei primi tre motivi, con trattazione preliminare del secondo, in quanto riguarda la questione, più , generale, dei limiti di pignorabilità della pensione di reversibilità alla stregua delle pronunce della Consulta, poste a base della censura; individuati tali limiti, sarà trattato il primo motivo, che riguarda la loro determinazione in concreto; consequenziali alla soluzione che il collegio intende dare a tale ultima questione, saranno le determinazioni in merito al terzo motivo.

Col secondo motivo si denuncia violazione e falsa applicazione delle norme di diritto -ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 3 – dell’art. 113 cod. proc. civ., art. 12 disp. preleggi, R.D.L. n. 1827 del 1935, art. 128 convertito con modificazioni nella L. n. 1155 del 1936, artt. 1 e 2 del D.P.R. n. 180 del 1950, come risultanti a seguito delle sentenze della Corte Costituzionale n. 468/2002 e n. 506/2002; del comma aggiunto al D.P.R. n. 180 del 1950, art. 1 dalla L. n. 266 del 2005, anche in relazione alla sentenza della Consulta n. 506/2002.

La ricorrente, dopo aver riprodotto il dispositivo quest’ultima sentenza, con cui la Consulta ha dichiarato l’illegittimità costituzionale del R.D.L. n. 1827 del 1935, art. 128 convertito con modificazioni nella L. n. 1155 del 1936, nonchè del D.P.R. n. 180 del 1950, artt. 1 e 2 sostiene che avrebbe errato il giudice a quo nel detrarre dall’importo mensile della pensione quello corrispondente al c.d. minimo vitale e nel calcolare sulla differenza il quinto pignorabile. Secondo la ricorrente, il Tribunale avrebbe dovuto ritenere la pignorabilità dell’intera residua parte risultante dalla differenza tra l’importo della pensione e l’importo minimo assolutamente impignorabile (fermo restando che in ogni caso questa parte, ritenuta pignorabile, non possa superare i limiti del quinto dell’importo netto della pensione). Decidendo nel senso anzidetto, il giudice a quo avrebbe male interpretato le norme sopra indicate, come risultanti a seguito della dichiarazione di incostituzionalità della Corte Costituzionale.

1.1.- Il motivo è infondato.

Il Tribunale ha seguito pedissequamente il criterio di calcolo dell’importo minimo impignorabile che risulta, anche letteralmente, dalla sentenza della Corte Costituzionale, laddove la ricorrente vorrebbe reinterpretate quest’ultima secondo una lettura che, pur compatibile con il sistema della pignorabilità dei crediti quale risulta dall’art. 545 cod. proc. civ., dal D.P.R. n. 180 del 1950, art. 2 e dalle altre norme speciali richiamate in ricorso, non è stata tuttavia quella preferita dalla Consulta, avuto riguardo al parametro costituzionale dell’art. 38 Cost..

Con la sentenza n. 506 del 4 dicembre 2002 (che si occupa della questione oggetto di causa, non essendo pertinente l’altra sentenza citata in ricorso, n. 468/02, relativa a crediti di natura tributaria) la Corte Costituzionale – chiamata a pronunciarsi sulla legittimità costituzionale, in relazione all’art. 3, comma 1, e dunque al principio di ragionevolezza, del R.D.L. 4 ottobre 1935, n. 1827, art. 128 (Perfezionamento e coordinamento legislativo della previdenza sociale) convertito con modificazioni nella L. 6 aprile 1936, n. 1155 e della L. 30 aprile 1969, n. 153, art. 69, comma 1, (Revisione degli ordinamenti pensionistici e norme in materia di sicurezza sociale), nella parte in cui escludono, in relazione all’art. 545 c.p.c., comma 4, la pignorabilità nei limiti di un quinto della pensione di vecchiaia per crediti diversi da quelli inerenti all’INPS e da quelli di natura alimentare – ha preso le mosse dalla considerazione che l’adozione a tertium comparationis dell’art. 545 cod. proc. civ., per le retribuzioni, e del D.P.R. n. 180 del 1950, art. 2 per le pensioni, ha comportato, nell’evoluzione della giurisprudenza costituzionale in materia, il risultato di restituire le retribuzioni al novero dei beni sui quali il creditore – nei limiti previsti dalla legge- può soddisfarsi qualunque sia la natura del suo credito, mentre la pensione ha costituito “bene” aggredibile – sempre nei limiti di legge – soltanto dai titolari di crediti determinati, individuati come eccezioni al regime dell’impignorabilità assoluta. Richiamati i propri precedenti in ragione dei quali si è affermato, a diversi fini, che la differenza tra retribuzioni e pensioni è più strutturale che funzionale, la Corte si è mossa lungo la linea di demarcazione segnata, per le pensioni, dall’art. 38 Cost.: così, per un verso, ha ribadito che la norma si ispira a criteri di solidarietà sociale e di pubblico interesse a che venga garantita la corresponsione di un minimum (il cui ammontare è riservato all’apprezzamento del legislatore); per altro verso, ha ritenuto che il pubblico interesse – in cui si traduce il criterio di solidarietà sociale – a che il pensionato goda di un trattamento adeguato alle esigenze di vita può ed anzi deve comportare … anche una compressione del diritto dei terzi di soddisfare le proprie ragioni creditorie sul bene pensione, ma è anche vero che tale compressione non può essere totale ed indiscriminata bensì deve rispondere a criteri di ragionevolezza che valgano, da un lato, ad assicurare in ogni caso (e, quindi, anche con sacrificio delle ragioni di terzi) al pensionato mezzi adeguati alle sue esigenze di vita e, dall’altro, a non imporre ai terzi, oltre il ragionevole limite appena indicato un sacrificio dei loro crediti negando all’intera pensione la qualità di bene sul quale possano soddisfarsi. Queste ed altre considerazioni in merito alla portata dell’art. 38 Cost. hanno condotto la Consulta ad affermare l’impignorabilità assoluta di quella parte della pensione che vale ad assicurare al pensionato mezzi adeguati alle esigenze di vita (su cui si tornerà, trattando del primo motivo di ricorso).

Ma il ragionamento della Corte non si ferma qui, come sembra supporre la ricorrente. Infatti, l’affermazione che precede va letta tenendo presente quanto disposta dall’art. 545 cod. proc. civ., comma 4 che la Corte assume come norma di carattere precettivo generale quanto ai limiti ed alle regole applicabili alla parte di credito (per retribuzione, ma anche per pensione) che si ritenga assoggettabile al regime generale della responsabilità patrimoniale ex art. 2740 cod. civ..

Viene quindi mantenuta una sostanziale differenziazione di regime tra retribuzioni e pensioni, che la Consulta ha individuato essere conseguenza del proprium del disposto costituzionale dell’art. 38: la differenza consiste nell’assicurare una soglia di impignorabilità assoluta, tale cioè che si sottragga anche al regime dell’art. 545 cod. proc. civ., per le pensioni, non anche per le retribuzioni.

Tuttavia, le une (per la parte che si sottrae al regime di impignorabilità assoluta) e le altre (per intero) vengono poi egualmente assoggettate al limite del quinto quale possibile oggetto del pignoramento, ai sensi dell’art. 545 c.p.c., comma 4, frutto del razionale contemperamento dell’interesse del creditore con quello del debitore che percepisca uno stipendio (sentenze n. 20 del 1968 e n. 38 del 1970).

La declaratoria di illegittimità costituzionale è coerente con le motivazioni che la sorreggono ed è espressa nel seguente dispositivo, riportato anche in ricorso: dichiara l’illegittimità costituzionale del R.D.L. 4 ottobre 1935, n. 1827, art. 128 (Perfezionamento e coordinamento legislativo della previdenza sociale), convertito, con modificazioni, nella L. 6 aprile 1936, n. 1155, nella parte in cui esclude la pignorabilità per ogni credito dell’intero ammontare di pensioni, assegni ed indennità erogati dall’INPS, anzichè prevedere l’impignorabilità, con le eccezioni previste dalla legge per crediti qualificati, della sola parte della pensione, assegno o indennità necessaria per assicurare al pensionato mezzi adeguati alle esigenze di vita e la pignorabilità nei limiti del quinto della residua, parte; dichiara, in applicazione della L. 11 marzo 1953, n. 81, art. 21 l’illegittimità costituzionale del D.P.R. 5 gennaio 1950, n. 180, art. 1 e art. 2, comma 1, (Testo unico delle leggi concernenti il sequestro, il pignoramento e la cessione degli stipendi, salari e pensioni dei dipendenti dalle pubbliche amministrazioni), nella parte in cui escludono la pignorabilità per ogni credito dell’intero ammontare di pensioni, indennità che ne tengono luogo ed altri assegni di quiescenza erogati ai dipendenti dai soggetti individuati dall’art. 1, anzichè prevedere l’impignorabilità, con le eccezioni previste dalla legge per crediti qualificati, della sola parte delle pensioni, indennità o altri assegni di quiescenza necessaria per assicurare al pensionato mezzi adeguati alle esigenze di vita e la pignorabilità nei limiti del quinto della residua parte.

La norma, quale risulta dalla dichiarazione di illegittimità costituzionale di cui sopra, di tipo additivo, vincola l’interprete.

La lettura sollecitata dal ricorso si pone in contrasto con la pronuncia della Consulta, laddove finisce per attenuare quella differenza di trattamento tra retribuzioni e pensioni che la Corte ha mantenuto ferma in forza della detta interpretazione dell’art. 38 Cost..

Il secondo motivo di ricorso va perciò rigettato, fissando il principio di diritto per il quale, ai sensi del R.D.L. 4 ottobre 1935, n. 1827, art. 128 (Perfezionamento e coordinamento legislativo della previdenza sociale), convertito, con modificazioni, nella L. 6 aprile 1936, n. 1155 e del D.P.R. 5 gennaio 1950, n. 180, art. 1 e art. 2, comma 1, (Testo unico delle leggi concernenti il sequestro, il pignoramento e la cessione degli stipendi, salari e pensioni dei dipendenti dalle pubbliche amministrazioni), quali risultanti a seguito della dichiarazione di illegittimità costituzionale di cui alla sentenza della Corte Costituzionale n. 506 del 2002, è assolutamente impignorabile, con le eccezioni previste dalla legge per i crediti qualificati, la parte della pensione, assegno o indennità necessaria per assicurare al pensionato mezzi adeguati alle esigenze di vita ed è pignorabile nei soli limiti del quinto la residua parte.

2.- Col primo motivo di ricorso si denuncia violazione e falsa applicazione delle norme di diritto -ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 3 – dell’art. 113 cod. proc. civ., R.D.L. n. 1827 del 1935, art. 128 convertito con modificazioni nella L. n. 1155 del 1936, D.P.R. n. 180 del 1950, artt. 1 e 2 come risultanti a seguito delle sentenze della Corte Costituzionale n. 468/2002 e n. 506/2002; del comma aggiunto all’art. 1 del D.P.R. n. 180 del 1950 dalla L. n. 266 del 2005, anche in relazione alla sentenza della Consulta n. 506/2002, sotto un profilo diverso da quello esaminato col motivo di cui sopra.

Il motivo in esame attiene ai criteri di determinazione del c.d. minimo vitale, vale a dire dell’ammontare della pensione necessario per assicurare al pensionato mezzi adeguati alle esigenze di vita, che la Corte Costituzionale aveva rimesso ad una futura scelta del legislatore.

Secondo la ricorrente questa scelta sarebbe desumibile dalla L. n. 266 del 2005, art. 1, comma 346, che, aggiungendo un comma al D.P.R. n. 180 del 1950, art. 1 ha…fatto salvo l’importo corrispondente al trattamento minimo, così statuendo, a detta della stessa ricorrente, che la parte assolutamente impignorabile della pensione vada individuata nel trattamento minimo mensile, ai sensi della L. n. 218 del 1952, artt. 9 e 10 come adeguato di anno in anno per tutti i titolari di pensioni, con esclusione delle maggiorazioni, che sarebbero praticabili soltanto a condizione che si posseggano determinati requisiti.

Pertanto, avrebbe errato il giudice a quo nell’incrementare il trattamento minimo per l’anno di riferimento del 2006 (come determinato dalla finanziaria 2002) con le maggiorazioni calcolate ai sensi della L. n. 448 del 2001, art. 38, commi 1 e 2, e della L. n. 289 del 2002, art. 39, comma 8, tanto più che si sarebbe trattato di maggiorazioni cui l’esecutata M. non avrebbe avuto diritto.

2.1.- Il motivo è infondato.

Questa Corte si è pronunciata di recente sulla questione posta dal motivo in esame con la sentenza n. 6548/11 ed il collegio intende confermare l’orientamento espresso con questa pronuncia, che ha preso atto della persistente inerzia del legislatore nell’individuazione in concreto dell’ammontare della (parte di) pensione idoneo ad assicurare mezzi adeguati alle esigenze di vita del pensionato come tale legittimamente assoggettabile al regime di assoluta impignorabilità. In particolare, deve essere smentito l’argomento su cui si basa il motivo di ricorso, secondo cui il legislatore sarebbe intervenuto con la L. 23 dicembre 2005, n. 266, art. 1, comma 346, individuando nel trattamento minimo istituito dalla L. n. 218 del 1952, artt. 9 e 10 la soglia dell’impignorabilità. La norma richiamata ha aggiunto un comma al D.P.R. 5 gennaio 1950, n. 180, art. 1 ma la previsione è espressamente limitata all’operatività delle cessioni, quindi non regola, nemmeno indirettamente, l’ipotesi del pignoramento; per di più, non contiene alcun esplicito riferimento al parametro normativo invocato dalla ricorrente.

Va pertanto ribadito quanto affermato nel precedente di questa Corte su richiamato: le soluzioni che si rifanno alle normative la cui utilizzabilità diretta era già stata esclusa dalla sentenza della Corte Costituzionale, ed in particolare quella che si rifà alla pensione sociale, nonchè la soluzione che applica direttamente il trattamento minimo di cui alla L. n. 488 del 2001, art. 38, commi 1 e 5 e della L. n. 289 del 2002, art. 39, comma 8, presentano margini di opinabilità, poichè i relativi presupposti paiono tutti orientati esclusivamente alle specifiche finalità previdenziali o assistenziali dei singoli istituti e non sono suscettibili, se non altro in via immediata, di adeguata generalizzazione: sicchè non solo il trattamento minimo…ma neppure l’importo della pensione sociale corrispondono necessariamente al minimo indispensabile per la sussistenza in vita in condizioni dignitose (così Cass. n. 6548/11, in motivazione).

Il principio di diritto che si intende confermare allora non può che essere quello di cui alla sentenza appena citata, per il quale l’indagine circa la sussistenza o l’entità della parte di pensione necessaria per assicurare al pensionato mezzi adeguati alle sue esigenze di vita, e come tale legittimamente assoggettabile al regime di assoluta impignorabilità – con le sole eccezioni, tassativamente indicate, di crediti qualificati è rimessa, in difetto di interventi del legislatore al riguardo, alla valutazione in fatto del giudice dell’esecuzione ed è incensurabile in cassazione se logicamente e congruamente motivata.

2.2.- Orbene, nel caso di specie, il Tribunale di Ascoli Piceno ha fondato la propria valutazione sul presupposto in ragione del quale è stato espresso il principio di diritto appena richiamato, vale a dire la mancanza di parametri specifici ed analitici del c.d. minimo vitale. Ha perciò ritenuto adeguato, nel caso concreto e tenuto conto del costo della vita, l’importo di Euro 525,89, corrispondente al minimo fissato dalla finanziaria 2002, incrementato delle maggiorazioni di cui alla L. n. 448 del 2001, art. 38, commi 1 e 2, e della L. n. 289 del 2002, art. 39, comma 8.

Il giudizio risulta essere stato riferito al caso concreto, in quanto il Tribunale non ha ritenuto di applicare le maggiorazioni perchè ha interpretato la normativa sull’impignorabilità nel senso che quello indicato fosse un parametro di riferimento predeterminato dal legislatore. Al contrario, per come si evince dalla motivazione che fa riferimento al precedente della Consulta ed all’esigenza di assicurare al pensionato adeguati mezzi di vita (pag. 5), la ratio ispiratrice della correzione apportata alla misura determinata dal giudice dell’esecuzione da parte del Tribunale si rinviene nella maggiore adeguatezza dell’importo di Euro 525,89 a soddisfare, nel caso concreto, detta esigenza.

In conclusione, non è censurabile in questa sede la valutazione operata dal giudice di merito, poichè non viola alcuna delle norme su cui si fonda il motivo di ricorso ed è conforme al principio di diritto di cui al precedente n. 6548/11, qui ribadito.

Il secondo motivo di ricorso va perciò rigettato.

3.- Col terzo motivo di ricorso si denuncia violazione e falsa applicazione delle norme di diritto -ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 3 – dell’art. 113 cod. proc. civ., art. 12 preleggi, R.D.L. n. 1827 del 1935, art. 128 convertito con modificazioni nella L. n. 1155 del 1936, del D.P.R. n. 180 del 1950, artt. 1 e 2 come risultanti a seguito delle sentenze della Corte Costituzionale n. 468/2002 e n. 506/2002; del comma aggiunto al D.P.R. n. 180 del 1950, art. 1 dalla L. n. 266 del 2005, nonchè dell’art. 14 preleggi, del D.M. 27 dicembre 2006, n. 313.

La ricorrente deduce che sarebbe stato accertato in giudizio che la debitrice esecutata, M.E., beneficia di più trattamenti pensionistici (pensione di reversibilità INPS, che è quella pignorata e oggetto di assegnazione nel processo esecutivo n. 74,03; pensione di reversibilità INAIL; pensione di guerra; pensione di invalidità civile; queste ultime non oggetto di pignoramento nel processo esecutivo citato), per un totale che ammonterebbe ad Euro 1.686,00 al mese. Secondo la ricorrente, il giudice di merito avrebbe dovuto tenere conto di questo dato, nel computo del minimo assolutamente impignorabile; invece, vi sarebbe stata violazione delle norme di diritto sopra richiamate perchè il Tribunale ha ritenuto detti trattamenti pensionistici non sommabili tra loro e perchè ha preso in considerazione soltanto la pensione di reversibilità erogata dall’INPS, oggetto di pignoramento e cui era riferita la dichiarazione dell’Istituto quale terzo pignorato.

Precisa che la censura non consiste nel mancato cumulo delle pensioni ai fini del calcolo del quinto sul totale, ma nella mancata considerazione del complesso dei trattamenti pensionistici ai fini della determinazione del minimo vitale.

Formula quindi un quesito di diritto ex art. 366 bis cod. proc. civ. riferito alla censura di violazione di legge ex art. 360 c.p.c., n. 3, in relazione alle norme richiamate nell’intitolazione del motivo, sopra riportata.

3.1.- Il motivo così come proposto è inammissibile poichè sussume nel vizio di violazione di legge quello che avrebbe dovuto essere denunciato come vizio di motivazione, alla stregua di quanto detto trattando del secondo motivo di ricorso.

Va, infatti, escluso che, così come peraltro riconosciuto anche dalla ricorrente, le pensioni diverse da quella oggetto di pignoramento, potessero essere cumulate con questa per effettuare il calcolo di cui si è detto trattando del primo motivo di ricorso.

E’ vero piuttosto che la percezione da parte del debitore esecutato di trattamenti pensionistici diversi ed ulteriori rispetto a quello pignorato può non essere irrilevante. Tuttavia, contrariamente a quanto sostenuto col terzo motivo di ricorso, la rilevanza non è in diritto, ma in fatto.

Dato per accertato che, allo stato della legislazione, non vi è un parametro normativo corrispondente, in via generale ed astratta, all’importo sufficiente ad assicurare al pensionato mezzi adeguati alle sue esigenze di vita, tale perciò da restare entro la soglia dell’impignorabilità assoluta, il complesso dei trattamenti pensionistici ovvero di redditi o rendite di altra natura di cui il debitore esecutato goda, nel caso concreto, può rilevare ai fini del giudizio di fatto che il giudice dell’esecuzione (o dell’eventuale opposizione) deve compiere, in forza del principio di diritto sopra (ri)affermato.

Tale giudizio di fatto, che si fonda su nozioni di comune esperienza, terrà conto delle peculiarità del caso concreto se e nei limiti in cui siffatte peculiarità saranno portate all’attenzione del giudice, dal debitore -se volte a manifestare particolari esigenze vitali dello stesso esecutato – ovvero dal creditore – se volte ad evidenziare una condizione economica dell’esecutato superiore alla media.

Inerendo al giudizio di fatto, la decisione non è censurabile in cassazione, salvo che ricorra il vizio di cui all’art. 360 c.p.c., n. 5.

Nel caso di specie (cui si applica il testo di quest’ultima norma vigente prima della modifica apportata dal D.L. n. 83 del 2012, art. 54, comma 1, lett. b convertito nella L. n. 134 del 2012), la ricorrente avrebbe dovuto dedurre l’insufficienza della motivazione, poichè mancante del riferimento al complesso dei trattamenti pensionistici (che si assumono) goduti dall’esecutata M..

Il motivo che denuncia il vizio di violazione di legge è perciò inammissibile.

4.- Col quarto motivo si deduce, in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 4, nullità della parte della sentenza impugnata che ha deciso l’opposizione agli atti esecutivi, perchè vi sarebbe stata un’omessa pronuncia sui motivi di opposizione, volti a far dichiarare nulla l’ordinanza di assegnazione del 24 novembre 2004.

4.1.- Col sesto motivo, che va trattato congiuntamente, perchè pone questione connessa, si deduce violazione e falsa applicazione di norme di diritto, in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3, degli artt. 552 e 553, 616, 624, 156, 159, 616, 617 e 618 cod. proc. civ., nonchè di tutti gli articoli di legge già richiamati con i primi tre motivi di ricorso, per non avere il Tribunale accolto la richiesta di annullamento dell’ordinanza di assegnazione, perchè emessa disattendendo la richiesta di sospensione del processo esecutivo e perchè contenente statuizioni viziate quanto alla misura dell’assegnazione, avendo sostituito alla trattenuta mensile di Euro 115,00, risultante dall’ordinanza, la trattenuta del minor importo mensile di Euro 12,27.

4.2.- I motivi non sono meritevoli di accoglimento. In proposito, va ribadito che in tema di ricorso per cassazione, vanno tenuti distinti i vizi di omessa pronuncia e di omessa motivazione su un punto decisivo della controversia: il primo, infatti, implica la completa omissione del provvedimento indispensabile per la soluzione del caso concreto e si traduce in una violazione dell’art. 112 cod. proc. civ., denunciabile a norma dell’art. 360 cod. proc. civ., n. 4; il secondo presuppone, invece, l’esame della questione oggetto di doglianza da parte del giudice di merito, seppure se ne lamenti la soluzione in modo giuridicamente non corretto ovvero senza adeguata giustificazione e va denunciato ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 5, (cfr., tra le tante, Cass. n. 15882/07). Nel caso di specie, non sussiste il vizio denunciato, perchè vi è un’espressa pronuncia di rigetto; ma non potrebbe essere configurato nemmeno il secondo, perchè il rigetto risulta altresì motivato, sia pure, in parte, implicitamente. Infatti, il Tribunale ha esaminato i motivi della richiesta di annullamento dell’ordinanza di assegnazione formulata dalla creditrice R.: quindi, ha ritenuto, per un verso, e con motivazione esplicita (pag. 4 della sentenza), che – essendo nella discrezionalità del giudice dell’esecuzione la sospensione o meno del procedimento esecutivo – non potesse la mancata sospensione, nel caso di specie, viziare il provvedimento di assegnazione; per altro verso, e con motivazione implicita (per come risulta da quanto appresso sul sesto motivo), che l’accoglimento parziale dei motivi di opposizione all’esecuzione comportasse, per contro, il rigetto dell’opposizione agli atti esecutivi.

D’altronde, il dispositivo contiene un capo apposito con cui il Tribunale respinge il ricorso in opposizione agli atti esecutivi, dimostrando per tabulas l’infondatezza della denuncia di omessa pronuncia.

4.3.- Quanto al sesto motivo, esso non fa che riproporre, nella prospettiva dell’opposizione agli atti esecutivi avverso l’ordinanza di assegnazione ex art. 553 cod. proc. civ., le stesse censure già rivolte alla sentenza, per la parte in cui ha accolto l’opposizione all’esecuzione, modificando nel quantum, in favore della debitrice esecutata, l’importo dell’assegnazione mensile. Riguardo alla correttezza di siffatta statuizione non possono che essere richiamate le considerazioni già svolte a proposito dei primi tre motivi di ricorso. Esse comportano il rigetto anche del sesto.

5.- Col quinto motivo si deduce omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione circa il fatto controverso della ritenuta insussistenza dei presupposti per la sospensione dell’ordinanza di assegnazione richiesta con l’opposizione agli atti esecutivi ex artt. 617 e 618 c.p.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 5.

Il motivo è inammissibile per violazione dell’art. 366 bis cod. proc. civ., applicabile ratione temporis, in considerazione della data della sentenza impugnata (2 agosto 2006). Infatti, non si rinviene, nè in calce nè in altra parte dell’illustrazione del motivo, la sintesi richiesta dalla norma, così come interpretata (cfr. Cass. S.U. n. 20603/07, secondo cui, in tema di formulazione dei motivi del ricorso per cassazione avverso i provvedimenti pubblicati dopo l’entrata in vigore del D.Lgs. 2 febbraio 2006, n. 40 ed impugnati per omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione, poichè secondo l’art. 366 bis cod. proc. civ., introdotto dalla riforma, nel caso previsto dall’art. 360 c.p.c., n. 5, l’illustrazione di ciascun motivo deve contenere, a pena di inammissibilità, la chiara indicazione del fatto controverso in relazione al quale la motivazione si assume omessa o contraddittoria, ovvero le ragioni per le quali la dedotta insufficienza della motivazione la renda inidonea a giustificare la decisione, la relativa censura deve contenere, un momento di sintesi – omologo del quesito di diritto – che ne circoscriva puntualmente i limiti, in maniera da non ingenerare incertezze in sede di formulazione del ricorso e di valutazione della sua ammissibilità; nello stesso senso, tra le altre, Cass. n. 24255/11).

In conclusione, il ricorso va rigettato.

Non vi è luogo a provvedere sulle spese del giudizio di cassazione, atteso che gli intimati non si sono difesi.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso; nulla sulle spese.

Così deciso in Roma, il 19 aprile 2013.

Redazione