Peculato: dipendente banca si impossessa di somme di tre contribuenti riscosse per conto dell’Erario (Cass. n. 45881/2012)

Redazione 21/11/12
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Fatto

A.A.S.S. ricorre avverso la sentenza con cui la Corte d’appello di Palermo in data 10.2.2010 ha confermato la condanna deliberata nei suoi confronti dal locale Tribunale il 21.1.2009, per il delitto di peculato continuato consumato dal 31 marzo al 16 novembre 2000, anche con le statuizioni civili in favore del Banco di Sicilia spa, costituitosi parte civile. L’imputazione era di essersi impossessato, quale dipendente del Banco di Sicilia delegato e quindi pubblico ufficiale, di somme riscosse per conto dell’Erario da tre contribuenti.
Unico il motivo enunciato dal ricorso: l’epigrafe indica la violazione dell’art. 192 c.p.p., comma 2, ma nel testo ci si duole innanzitutto della mancata diversa qualificazione giuridica del fatto, in relazione alla svolta attività di sportellista e quindi di soggetto privo di ogni qualificazione pubblicistica. A singolare sostegno della tesi esposta, il ricorrente informa di essere stato appunto già condannato, proprio per appropriazione indebita aggravata, nella qualità di dipendente di altra banca, la Carige, e per fatti analoghi ma successivi a quello per cui è processo.
Il ricorrente contesta poi effettivamente anche l’idoneità del materiale probatorio acquisito nei suoi confronti, deducendo il valore non determinante della perizia grafologica che gli avrebbe attribuito la responsabilità per le somme destinate al pagamento degli F24.
2. Il ricorso è inammissibile per la manifesta infondatezza della questione di diritto (sul punto la Corte di Palermo ha correttamente motivato a p. 3 della sentenza, richiamando gli insegnamenti di questa Corte relativi all’attività prestata dall’impiegato di sportello bancario che si appropri di somma di denaro ricevuta per conto dell’amministrazione finanziaria a titolo di pagamento di imposte: significativamente nessun confronto argomentativo vi è in proposito nel ricorso) e per l’assoluta genericità della censura rivolta all’esito della perizia sulle sigle dei moduli di pagamento (a fronte della specifica motivazione del Giudice d’appello sul punto; genericità palese anche sotto il concorrente profilo dell’omesso confronto argomentativo con il rilievo della Corte d’appello sull’uso, in tutti i casi e in apprezzabile distanza temporale, sempre del timbro numerato che era nell’esclusiva disponibilità dell’imputato).
Consegue la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali di questo giudizio di legittimità e della somma, equa al caso, di Euro 1000 in favore della Cassa delle ammende.
L’imputato va altresì condannato a rifondere le spese di difesa sostenute dalla costituita ed oggi presente parte civile, liquidate come da dispositivo avuto riguardo all’attività prestata.

P.Q.M.

Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro 1000 in favore della Cassa delle ammende, nonchè a rifondere alla parte civile Banco di Sicilia le spese del grado, liquidate in complessivi Euro 3.000 oltre iva e cpa.

Redazione