Paga la penale l’ex dipendente che viola il patto di non concorrenza (Cass. n. 2162/2013)

Redazione 30/01/13
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Svolgimento del processo

Con sentenza del 29/5 – 6/6/07 la Corte d’appello di Venezia ha parzialmente accolto il gravame proposto dalla società T. s.r.l avverso la decisione del giudice del lavoro del Tribunale di Vicenza, che le aveva respinto la domanda diretta alla condanna di C. M., suo dipendente fino al 31/3/2000, al pagamento della penale concordata per la violazione del patto di non concorrenza ed al risarcimento del danno, avendo quest’ultimo operato per altra ditta dello stesso settore chimico dalla quale era stato successivamente assunto, ed ha condannato l’appellato al versamento della suddetta penale nella misura di € 35.751,10, mentre ha disatteso la domanda per il conseguimento dell’ulteriore risarcimento del maggior danno.
La Corte ha spiegato che la consulenza tecnica espletata in secondo grado ha consentito di appurare la similarità tra i prodotti merceologici della nuova datrice di lavoro e quelli realizzati dall’impresa appellante, vale a dire dei prodotti previsti sia nel contratto di lavoro intercorso tra quest’ultima ed il C., sia nella lettera di incarico conferito al medesimo dalla nuova datrice di lavoro (omissis) oltre che la parziale coincidenza della clientela delle due imprese, per cui non potevano sussistere dubbi sull’avvenuta violazione da parte dell’appellato del patto di non concorrenza.
Per la cassazione della sentenza propone ricorso C. M. il quale affida l’impugnazione a quattro motivi di censura.
Resiste con controricorso la società *********
Il ricorrente deposita memoria ai sensi dell’art. 378 c.p.c.

Motivi della decisione

1. Col primo motivo il ricorrente denunzia la violazione e/o falsa applicazione degli artt. 414, 420, 421 e 437 c.p.c. con riferimento all’art. 2697 c.c. ed in relazione all’ammessa produzione di nuova documentazione in entrambi i gradi del giudizio.
In pratica, il ricorrente contesta sia la rilevanza, ai fini della decisione, dei capitoli della prova testimoniale ammessi dal giudicante, sia l’autorizzazione da questi concessa alla controparte per la produzione di una serie di documenti, produzione a suo dire tardiva; nel contempo il medesimo deduce quelli che a suo giudizio dovevano essere i criteri da seguire per l’ammissione della prova della contestata circostanza della violazione del patto di non concorrenza, dolendosi, altresì, del ricorso giudiziale alla consulenza d’ufficio, mezzo istruttorio, questo, che secondo il suo assunto avrebbe avuto valore suppletivo della mancanza di prova dei fatti allegati dalla controparte.
II motivo è inammissibile.
Anzitutto, non può sottacersi l’inammissibilità del quesito di diritto che, essendo formulato sulla base del richiamo alle norme del codice di rito che attengono agli oneri di allegazione ricadenti sulla parte attrice, finisce per esaurirsi in una richiesta di affermazione di principi processuali scontati, senza che ciò possa servire a confutare la validità della “ratio decidendi” dell’impugnata sentenza, che poggia sulla libera valutazione, da parte della Corte di merito del materiale istruttorio regolarmente acquisito al processo.
Ulteriore profilo di inammissibilità discende dalla critica mossa alla decisione di ammissione dei capitoli di prova indicati dall’attrice, capitoli dei quali si asserisce l’irrilevanza ai fini decisori, in quanto un tale tipo di doglianza si traduce in una mera contrapposizione della tesi di parte ricorrente alla valutazione liberamente operata dal giudicante, nell’ambito dei suoi poteri istruttori, ai fini dell’autorizzazione all’espletamento dello specifico mezzo richiesto della prova orale. Egualmente inammissibile è la doglianza con la quale si adduce che il giudicante avrebbe utilizzato lo strumento della consulenza d’ufficio per supplire alle carenze probatorie della controparte: invero, attraverso tale censura si tenta una rivisitazione della valutazione del materiale istruttorio, operata dal giudice del merito, non consentita nella sede di legittimità allorquando la stessa valutazione giudiziale è immune, come nella fattispecie, da vizi di carattere logico—giuridico. In realtà, lo sviluppo della prospettazione difensiva del ricorrente appare proteso, piuttosto, verso la denunzia di un vizio motivazionale, anziché verso la segnalazione di un vizio di violazione di legge, cosi come preannunziato nella premessa del motivo. In ogni caso, al giudice del merito spetta in via esclusiva il compito di individuare le fonti del proprio convincimento, di assumere e valutare le prove, di controllarne l’attendibilità e la concludenza, di scegliere, tra le complessive risultanze del processo, quelle ritenute maggiormente idonee a dimostrare la veridicità dei fatti ad essi sottesi, dando, cosi, liberamente prevalenza all’uno o all’altro dei mezzi di prova acquisiti (salvo i casi tassativamente previsti dalla legge). Quanto alla lamentata ammissione di prove documentali, che si asserisce essere state tardivamente prodotte dall’azienda, non può che rilevarsi la mancanza di autosufficienza di un tale tipo di censura, per la ragione che non solo non si specifica di quali documenti in concreto si trattava, ma nemmeno si forniscono i dati necessari per comprendere in quale momento del procedimento fu chiesta la loro produzione, ai fini della verifica della sussistenza o meno della denunziata tardività.
2. Col secondo motivo il ricorrente denunzia la violazione e/o falsa applicazione dell’art. 2697 c.c. con riferimento all’interpretazione della consulenza tecnica d’ufficio del secondo grado di giudizio ed alla prova della violazione del patto di non concorrenza. In sostanza, il C. si duole del fatto che, a suo parere, la Corte territoriale avrebbe condiviso acriticamente il responso finale del consulente d’ufficio di quel grado.
Il motivo è infondato, in quanto la Corte di merito si è preoccupata di illustrare adeguatamente le risultanze del consulente d’ufficio ed ha congruamente motivato, a tal riguardo, il suo convincimento con argomentazioni del tutto immuni da rilievi di carattere logico-giuridico. Infatti, grazie ad un attento esame dei rilievi svolti dal perito, la Corte d’appello ha potuto riscontrare la similarità tra i prodotti merceologici della nuova datrice di lavoro del C. e quelli realizzati dall’impresa appellante, vale a dire la similarità di quei prodotti previsti sia nel contratto di lavoro intercorso tra quest’ultima ed il suo ex—dipendente, sia nella lettera di incarico conferito al medesimo C. dalla nuova datore di lavoro (omissis); inoltre, la stessa Corte ha accertato la parziale coincidenza della clientela delle due imprese, per cui ha concluso che non potevano sussistere dubbi sull’avvenuta violazione da parte dell’appellato del patto di non concorrenza.
3. Col terzo motivo il ricorrente deduce la violazione e la falsa applicazione dell’art. 2125 c.c. in ordine alla eccepita nullità del patto di non concorrenza per la genericità dello stesso o, in alternativa, per la mancanza di proporzione tra il compenso pattuito ed il sacrificio richiestogli, considerati, in questo secondo caso,gli elementi rappresentati dall’ampiezza della zona inibita, dall’importanza dei soggetti destinatari, dall’entità dell’oggetto e dalla durata del vincolo di non promozione dei prodotti rientranti nel divieto di commercializzazione in concorrenza.
Il motivo è inammissibile.
Invero, nella sentenza impugnata è stato chiaramente posto in rilievo che l’appellato, nel resistere al gravame della società, non aveva affatto riproposto il problema sollevato in prime cure della invalidità del patto di non concorrenza, ed è stato, altresì, specificato che per tale ragione la suddetta questione doveva ritenersi estranea alla materia del contendere che riguardava esclusivamente là verifica dell’avvenuta violazione del patto.
Ne consegue che l’attuale doglianza è nuova, non essendo stata proposta nel giudizio d’appello, per cui la sua formulazione nella presente sede di legittimità è inammissibile.
4. Col quarto motivo il C. lamenta la violazione e la falsa applicazione dell’art. 1384 c.c. riferendosi al mancato esercizio, da parte della Corte d’appello, del potere d’ufficio di riduzione della penale.
Anche tale motivo è inammissibile, trattandosi di questione nuova che non risulta
essere stata prospettata nelle fasi del giudizio di merito.
Il ricorso va, pertanto, rigettato.
Le spese del presente giudizio seguono la soccombenza del ricorrente e vanno poste a suo carico nella misura liquidata come da dispositivo.

 

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso. Condanna il ricorrente alle spese del presente giudizio nella misura di € 3000,00 per compensi professionali e di € 40,00 per esborsi, oltre IVA e CPA ai sensi di legge.
Così deciso in Roma il 22 novembre 2012

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