Obbligo di motivazione: sanzionato il giudice che non motiva la sentenza (Cass. n. 20570/2013)

Redazione 06/09/13
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Svolgimento del processo

1.- Con sentenza pronunciata il 14 dicembre 2012 la Sezione disciplinare del Consiglio Superiore della Magistratura ha inflitto al Dott. A.R., giudice della sezione lavoro presso il Tribunale di Milano, la sanzione dell’ammonimento, avendolo riconosciuto responsabile dell’illecito previsto dal D.Lgs. n. 109 del 2006, art. 1, comma 1, e art. 2, comma 1, lett. l). Gli era stato addebitato di avere omesso di motivare, sia pure in forma succinta come previsto per tutte le ordinanze dall’art. 134 c.p.c., l’ordinanza di pagamento della complessiva somma di Euro 101.255,50, emessa ex art. 423 c.p.c., il 10.6.2011, a scioglimento della riserva formulata all’udienza del 24.3.2011.

L’ordinanza era così strutturata: “Il giudice, letti gli atti e i documenti della causa iscritta al n…., pendente tra… e…, sciogliendo la riserva, letto l’art. 423 c.p.c., ordina a… di pagare immediatamente…”.

L’azione disciplinare era stata iniziata a seguito di un esposto al Consiglio Superiore della Magistratura delle due società destinatane delle ingiunzioni di pagamento.

2.- Avverso detta sentenza ricorre per cassazione il ********, affidandosi a cinque motivi illustrati anche da memoria.

Il Ministero della Giustizia non ha svolto attività difensiva.

Motivi della decisione

1.- Nell’illustrazione del fatto il ricorrente espone che, contemporaneamente all’esposto di cui sopra, i destinatari delle ingiunzioni di pagamento richiesero, ex art. 700 c.p.c., la sospensione cautelare della provvisoria esecutività dell’ordinanza di cui all’incolpazione e che l’istanza fu rigettata dallo stesso ******** con ordinanza ampiamente motivata e non fatta oggetto di reclamo; e che fu del pari respinta l’opposizione proposta in sede esecutiva.

1.1.- Col primo motivo sono denunciate violazione o falsa applicazione degli artt. 423 e 134 c.p.c., “per la parte in cui dalle predette disposizioni si ricava l’individuazione della motivazione sommaria, anzichè della motivazione succinta, come forma motivazionale propria delle ordinanze emesse ex art. 423 cit.”.

Il ricorrente assume che l’ordinanza di cui all’art. 423 c.p.c., richieda una motivazione sommaria perchè sommaria è la cognizione che la presuppone;

afferma che la motivazione succinta si distingue da quella sommaria (equiparandola sostanzialmente – e talora esplicitamente, come a pag. 7 del ricorso – ad assenza di motivazione);

illustra l’analogia fra le ingiunzioni di pagamento di cui agli artt. 423 e 186 ter, ed il decreto ingiuntivo di cui all’art. 633 c.p.c.;

prospetta la sufficienza del richiamo della disposizione normativa in quanto la stessa predetermina in modo univoco i presupposti per la pronuncia dell’ordinanza ingiuntiva, riferendosi l’art. 423, citato all’insussistenza di contestazione in ordine alla spettanza di denaro ovvero alla sussistenza di dati probatori allo stato idonei a far ritenere accertato il diritto di credito del lavoratore;

sostiene che il contenuto del verbale contenente l’istanza motivata della parte richiedente integra quello del provvedimento che vi è redatto in calce o che allo stesso è unito;

conclude nel senso dell’inutilità di una motivazione che ecceda le prospettazioni dell’istanza accolta, volta che l’ordinanza in questione non è nè impugnabile nè reclamarle e corrisponde all’esigenza di celerità ed ai caratteri dell’immediatezza e della concentrazione propri dei processi del lavoro.

1.2. – Il motivo è infondato.

Deve anzitutto negarsi che alla motivazione succinta, cui si riferisce l’art. 134 c.p.c. laddove stabilisce che “l’ordinanza è succintamente motivata”, sia contrapponibile una “motivazione sommaria”, intesa come diverso tipo delle modalità di esternazione delle ragioni che giustificano l’adozione di un provvedimento giurisdizionale. Al di là del rilievo che il codice di rito non si riferisce mai alla motivazione “sommaria” (che è attributo proprio del procedimento e della cognizione), quante volte tuttavia la giurisprudenza definisce sommaria una motivazione per dirla adeguata al caso, usa il termine in un’accezione semantica equivalente a quella propria della parola, “succinta”, al di là delle innegabili diversità di significato letterale.

Entrambe le locuzioni sottendono la non necessità di una motivazione diffusa, analitica, che si faccia carico di tutte le allegazioni e di tutte le risultanze processuali, e, per contro, la sufficienza di una spiegazione particolarmente concisa, che tuttavia quantomeno indichi, anche solo (appunto) sommariamente, gli elementi essenziali sulla base dei quali il provvedimento è adottato, quand’anche per relationem se il caso lo consente.

Dire sufficiente una motivazione sommaria non equivale, peraltro, ad affermare che la motivazione può completamente mancare. E una motivazione completamente manca quante volte chi legge non è posto in condizione di cogliere neppure la ragione di fondo che sorregge il provvedimento giurisdizionale, in quanto tale incompatibile con la mera espressione di un immotivato comando (stat pro ratione voluntas).

Ora, se il riferimento all’art. 423 c.p.c., comma 1, che prevede l’ordinanza di pagamento delle somme non contestate, può apparire per questo sufficiente ad esternare, anche solo per implicito, le ragioni dell’ordinanza, così non è per il caso di cui al secondo comma, che consente l’ordinanza ingiuntiva del pagamento quando il giudice “ritenga il diritto accertato e nei limiti della quantità per cui ritiene già raggiunta la prova”. Nella specie si verteva nella seconda ipotesi e l’art. 423 c.p.c., era stato comunque citato senza indicazioni ulteriori.

Va del pari esclusa, per l’aspetto che viene in rilievo, l’assimilazione della fattispecie in scrutinio a quella del decreto ingiuntivo, assai approfonditamente propugnata dal ricorrente. E ciò per tre ragioni:

– la prima è che il decreto di cui all’art. 633 c.p.c., col quale si ingiunge il pagamento di una somma di denaro, deve essere motivato, secondo quanto espressamente previsto dall’art. 641, comma 1, che appunto integra una delle ipotesi per le qual l’art. 134 c.p.c., comma 3, contempla una deroga alla regola generale;

– la seconda è che il decreto è scritto in calce al ricorso (art. 135 c.p.c., comma 2) col quale la richiesta di ingiunzione è formulata ed è notificato unitamente al ricorso in copia autentica (art. 643 c.p.c., n. 1), sicchè non può accadere che il destinatario della notificazione possa ignorare le ragioni per le quali l’ingiunzione è stata emessa, pur se la motivazione del decreto consista nell’implicito richiamo a quelle addotte dal ricorrente;

– la terza è che al destinatario dell’ingiunzione è data la possibilità di provocare la piena cognitio mediante l’opposizione, a seguito della quale l’art. 649 c.p.c., prevede che possa essere sospesa l’esecuzione provvisoria eventualmente concessa a mente del precedente art. 642; mentre l’ordinanza di cui all’art. 423 c.p.c., non è reclamabile ed è revocabile, ai sensi dell’ultimo comma, solo con la sentenza che decide la causa.

Quanto, infine, alle invocate esigenze di celerità ed ai caratteri di immediatezza e concentrazione propri del processo del lavoro, nessuno di essi è incompatibile con la motivazione succinta dell’ordinanza ex art. 423 c.p.c., comunque imposta dalla legge, secondo quanto s’è appena osservato.

2.- Il secondo motivo di ricorso, col quale è in via subordinata dedotta violazione del D.Lgs. n. 109 del 2006, art. 2, comma 2, “nella parte in cui esclude la responsabilità disciplinare del magistrato per attività provvedimentale costituente l’esito dell’adesione ad una tra le più possibili interpretazioni di disposizioni ordinamentali”, è infondato perchè le osservazioni che precedono radicalmente escludono che del combinato disposto dell’art. 133 c.p.c., e art. 423 c.p.c., comma 2, possa darsi un’interpretazione diversa da quella prospettata.

Tanto alla luce del rilievo che, come s’è sopra osservato, nella specie la motivazione totalmente manca e che non vi sono opzioni ermeneutiche note che abbiano affermato la possibilità che l’ordinanza di cui all’art. 423 c.p.c., (comma 2) possa essere priva di qualsivoglia motivazione, al di là del riferimento in Cass. nn. 1049/1980 e 14390/2005 (richiamate dal ricorrente), alla possibilità che il decreto rechi una motivazione “non diffusa come quella della sentenza nè succinta come quella dell’ordinanza, ma sommaria”, essendosi immediatamente aggiunto; “nel senso che il giudice, senza trascriverli nel decreto, può limitarsi ad indicare quali fatti, tra quelli indicati nell’istanza che lo ha sollecitato, lo hanno convinto ad accordare il provvedimento richiesto” (così la prima delle due sentenze, richiamata dalla seconda, quest’ultima relativa ad un caso in cui si assumeva che il decreto del Garante per la protezione dei dati personali dovesse assumere la forma della sentenza).

Nel caso in esame, come inequivocamente risulta dal testo dell’ordinanza, non sono stati indicati fatti o apprezzamenti di sorta.

3.- Col terzo motivo è denunciata, in ulteriore subordine, falsa applicazione dell’art. 2, comma 1, lett. l), dello stesso decreto legislativo “nella parte in cui, considerato in una con la disposizione di cui al precedente art. 1, comma 1, esclude la responsabilità disciplinare del magistrato allorchè l’omissione di motivazione o la redazione di motivazione apparente non siano tali da recare pregiudizio all’affidamento sulla diligenza e laboriosità del magistrato, ovvero disdoro all’ordine giudiziario ed alla funzione giurisdizionale”.

Col quarto motivo, in via ancor più gradata, è dedotta “motivazione omessa, o insufficiente, o contraddittoria in ordine a fatti controversi e decisivi ai fini dell’accertamento della responsabilità disciplinare dell’incolpato, quali: l’unicità del provvedimento di cui all’incolpazione a fronte della riconosciuta non comune laboriosità dell’incolpato; la difficoltà tecnica dell’opzione ermeneutica relativa alla scelta del modello di motivazione; la conformità del provvedimento rispetto all’orientamento corrente della dottrina e della giurisprudenza (con conseguente travisamento delle risultanze di cui alla rassegna di ordinanze formata dall’incolpato e della nota del presidente della sezione lavoro del Tribunale di Milano); l’assenza di effetti dannosi direttamente riconducibili all’asserita mancanza di motivazione del provvedimento”.

3.1. – Entrambi i motivi – che possono congiuntamente esaminarsi per la connessione che li connota – fanno precipuamente leva sull’eccellente profilo del magistrato, anche in ordine alla laboriosità ed alla diligenza; nonchè sulla sostanziale assenza, per le parti destinatane dell’ordinanza, di un danno correlato alla pretesa incongruità (n.d.e.: ma, recte, mancanza) della motivazione, atteso che, a fronte della diffusa motivazione di rigetto della loro istanza cautelare, esse non avevano proposto reclamo ex art. 669 terdecies c.p.c..

Va premesso che – com’è stato anche di recente ribadito da queste Sezioni unite con sentenza 29.3.2013, n. 7934 – la valutazione, in concreto, dell’idoneità di un determinato comportamento a ledere il bene giuridico protetto dalla norma violata, e perciò ad assumere rilevanza disciplinare, è compito esclusivo del giudice di merito, ossia della Sezione disciplinare, e che a tale valutazione la Suprema corte non può dunque sovrapporre la propria.

Nel caso in esame la Sezione disciplinare ha fatto esplicito riferimento, pur se succintamente, sia alla ragguardevole entità della somma oggetto della “condanna giudiziale” (ma, recte, dell’ingiunzione) sia alla intervenuta contestazione del credito, avendo le società convenute opposto di aver interamente pagato il dovuto. E benchè tanto sia stato rilevato per porre in luce quanto fosse, per questo, vieppiù evidente la necessità della motivazione dell’ordinanza anticipatoria, è del tutto ovvio che l’osservazione reca in se stessa l’implicita affermazione della ravvisata gravità della contestata violazione del dovere di diligenza e dei riflessi di quella violazione sull’immagine del magistrato.

Neppure è sostenibile che le parti destinatane dell’ingiunzione non abbiano subito alcun pregiudizio in considerazione del rigetto sia della richiesta di sospensione in sede cautelare, di cui non s’erano dolute con reclamo, che dell’opposizione all’esecuzione. Anzitutto perchè il pregiudizio risentito dalla parte in relazione ad un immotivato ordine di pagare ben può essere correlato alla frustrazione anche del solo interesse a conoscere le ragioni per le quali il giudice ha ritenuto che il pagamento fosse dovuto; in secondo luogo perchè l’omesso reclamo avverso la (stavolta) motivata ordinanza di rigetto dell’istanza cautelare di sospensione, se per un verso è suscettibile di essere riguardato come dimostrazione di persuasività (anche) per le parti di tale seconda ordinanza, per altro verso consente pure di inferire, sullo stesso piano logico, che alla richiesta di tutela cautelare esse si siano determinate proprio perchè non erano state poste in grado di conoscere prima le ragioni dell’ordine di pagamento e, per converso, che avrebbero potuto evitare di farlo se tutte o alcune di quelle ragioni fossero state succintamente rappresentate già nell’ordinanza originaria.

E’ tuttavia decisiva la considerazione che alla fattispecie di cui al D.Lgs. n. 109 del 2006, art. 2, comma 1, lett. l), è estranea la considerazione del pregiudizio che dalla omessa motivazione (invece richiesta dalla legge) possa essere derivata alla parte, giacchè la possibile mancanza di pregiudizio non incide sulla rilevanza dell’illecito disciplinare quando il comportamento del magistrato medesimo risulti comunque idoneo, secondo la valutazione del giudice di merito, ad arrecare discredito all’ordine giudiziario (Cass., Sez. un., n. 24758/2009).

Da ultimo, l’intervenuto rigetto dell’opposizione in sede esecutiva, per essere l’ordinanza ex art. 423 c.p.c. titolo esecutivo quand’anche non motivata, è evidentemente irrilevante ai fini che ne occupano; mentre la decisività dell’omessa considerazione dell’affermata “unicità del provvedimento di cui in incolpazione” è elisa dal rilievo che la Sezione disciplinare ha ritenuto di conferire all’opinione dello stesso incolpato circa la non necessità di motivare quel tipo di provvedimento.

4.- Col quinto ed ultimo motivo, in via di estremo subordine, la sentenza è infine censurata per omessa motivazione in ordine alla sussistenza delle ragioni di fatto (segnatamente individuabili in quelle indicate nell’illustrazione del quarto motivo) idonee a determinare la non configurabilità dell’illecito disciplinare per scarsa rilevanza del fatto, ai sensi del D.Lgs. n. 109 del 2006, art. 3 bis.

4.1.- Premesso che dell’eccellente profilo del magistrato incolpato, in una alla sua non comune laboriosità ed all’assenza di precedenti disciplinari, la Sezione disciplinare ha tenuto conto ai fini dell’irrogazione della pena minima edittale, neanche questo motivo può essere accolto.

Sulla scorta del rilievo che gli eventi in base ai quali il fatto può essere ritenuto di scarsa rilevanza non sono elementi costitutivi dell’illecito, va data continuità al principio secondo il quale il giudice disciplinare, se non sollecitato da specifica richiesta, non è tenuto ad esporre le ragioni per le quali abbia ritenuto che non ricorre l’esimente in parola (Cass., Sez. un., n. 14665/2011).

La Sezione disciplinare dovrà dunque considerare, anche d’ufficio, le caratteristiche e le circostanze della vicenda addebitata al fine di apprezzare la possibile scarsa rilevanza del fatto, ma in tanto sarà tenuta a dare esplicitamente conto della propria valutazione negativa in quanto la scarsa rilevanza del fatto sia stata, per ragioni specifiche, – espressamente prospettata dal magistrato incolpato per gli effetti di cui al D.Lgs. n. 109 del 2006, art. 3 bis, introdotto dalla L. n. 269 del 2006, art. 1, comma 1, lett. e), (cfr., da ultimo, la citata Cass., Sez. un., n. 7934/2013).

Tanto non si afferma essere nella specie avvenuto, nè dagli atti consta che così sia stato.

5.- Il ricorso va conclusivamente rigettato. Non sussistono i presupposti per provvedere sulle spese.

P.Q.M.

LA CORTE DI CASSAZIONE, A SEZIONI UNITE, rigetta il ricorso.

Così deciso in Roma, il 11 giugno 2013. 

Redazione