Non basta registrarsi all’AIRE per escludere la residenza fiscale in Italia (Cass. n. 5382/2012)

Redazione 04/04/12
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Svolgimento del processo – Motivi della decisione

 

1. N.A. ricorre (depositando successiva memoria illustrativa) nei confronti dell’Agenzia delle Entrate (che resiste con controricorso) per la cassazione della sentenza con la quale, in controversia concernente impugnazione di avviso di accertamento Irpef relativo al 1997, la C.T.R. Toscana, rigettando l’appello del contribuente, confermava la sentenza di primo grado che aveva respinto il ricorso introduttivo, limitandosi a ridurre il reddito imponibile della somma di L. 52.000.000.

In particolare i giudici d’appello, dopo aver preliminarmente disatteso l’eccezione di nullità dell’avviso opposto per difetto di motivazione, affermavano che il N., nonostante la residenza anagrafica nel principato di Monaco, aveva stabilito e mantenuto a Siena il suo domicilio, ossia la sede principale dei suoi affari ed interessi economici e morali, come dimostrato tra l’altro dall’aver egli ricoperto, dal 1991 al 2001, cariche sociali in ben 13 società aventi sede legale in Siena e provincia, sottoscrivendo personalmente, tra il 1995 e il 1998, numerosi atti societari, nonchè dal fatto che, nell’anno oggetto di verifica, era stato intestatario o co intestatario di numerosi conti correnti bancari e che, in particolare negli anni 1996 – 1997, aveva erogato finanziamenti a favore di una delle suddette società mentre da un’altra aveva ricevuto un compenso in qualità di consigliere, risultando altresì che egli era rappresentante per l’Italia di una società residente in Gran Bretagna ma con domicilio fiscale in Italia e che come pilota aveva stipulato vari accordi di prestazioni sportive con società italiane. Peraltro, secondo i suddetti giudici, le cariche societarie del N. non erano puramente formali ma egli partecipava attivamente all’attività imprenditoriale, come dimostrato dalla relazione di bilancio del 1997, dalla quale risulta che il medesimo si attivò concretamente per risanare la situazione economica di una delle società della quale era presidente del Consiglio di Amministrazione.

2. Col primo motivo, deducendo vizio di motivazione, il ricorrente si duole del fatto che i giudici d’appello abbiano ritenuto insussistente il difetto di motivazione dell’avviso opposto pur riconoscendo che il medesimo era stato redatto sulla falsariga delle indicazioni del verbale della G.d.F. e che l’Ufficio aveva spiegato le ragioni per le quali riteneva di plausibili le conclusioni del p.v.c. solo in sede di contraddittorio.

Col secondo motivo, deducendo violazione e falsa applicazione del D.P.R. n. 600 del 1973, artt. 38, 39, 41, 41 bis e 42, la ricorrente si duole del fatto che i giudici d’appello abbiano ritenuto motivato l’avviso opposto benchè l’Agenzia avesse omesso ogni verifica critica dei dati raccolti dagli accertatori, limitandosi a riportare acriticamente il testo e le risultanze del p.v.c..

Le censure sopra esposte, da esaminare congiuntamente perchè connesse, sono in parte infondate e in parte inammissibili per difetto di autosufficienza.

Giova preliminarmente rilevare che, secondo la univoca giurisprudenza di questo giudice di legittimità, la motivazione degli atti di accertamento “per relationem”, con rinvio alle conclusioni contenute nel verbale redatto dalla Guardia di Finanza nell’esercizio dei poteri di polizia tributaria (ovvero con mera riproposizione delle medesime), non è illegittima per mancanza di autonoma valutazione da parte dell’ufficio degli elementi da quella acquisiti, significando semplicemente che l’ufficio stesso, condividendo quelle conclusioni, ha inteso realizzare una economia di scrittura che non arreca alcun pregiudizio al corretto svolgimento del contraddittorio (v. Cass. n. 8690 e 15379 del 2002).

Tanto premesso, occorre ancora evidenziare che la scelta dell’Amministrazione finanziaria di motivare l’avviso di accertamento – atto conclusivo di una sequenza procedimentale alla quale possono partecipare anche organi amministrativi diversi – anche con il rinvio pedissequo alle conclusioni contenute in un atto istruttorio (nella specie il p.v.c.) non può essere di per sè censurata dal giudice di merito, al quale, invece, spetta il potere di valutare se, dal richiamo globale all’atto strumentale (o dalla mera riproposizione di esso), sia derivata in concreto un’inadeguatezza o un’insufficienza della motivazione dell’atto finale, con la conseguenza che il contribuente che in sede di legittimità intenda contestare l’accertamento dell’adeguatezza della motivazione “per relationem” dovrà innanzitutto, in base al principio di autosufficienza del ricorso per cassazione, riportare testualmente in ricorso la motivazione di detto atto (v. tra le altre Cass. n. 15867 del 2004) ed inoltre specificamente indicare, nei motivi di ricorso, le cause della sua inadeguatezza (v. tra le altre Cass. n. 2907 del 2010).

Col terzo motivo, deducendo ancora violazione e falsa applicazione del D.P.R. n. 600 del 1973, artt. 38, 39, 41, 41 bis e 42, il ricorrente si duole del fatto che l’Agenzia si sia limitata a riportare acriticamente il testo e le risultanze del p.v.c. senza considerare che tale p.v.c. citava altri documenti ed altre attività di accertamento che non erano stati comunicati al ricorrente e dei quali egli nulla sapeva.

La censura è inammissibile per difetto di autosufficienza. La citazione (nell’avviso, ovvero nel p.v.c. cui eventualmente l’avviso rinvii per relationem) di documenti ignoti al contribuente o comunque non comunicatigli non comporta di per sè un difetto di motivazione dell’avviso, ben potendo essere in esso riportato il contenuto essenziale degli atti richiamati (ed in ipotesi ignoti al contribuente), con la conseguenza che il ricorrente avrebbe dovuto innanzitutto riportare in ricorso per esteso il testo dell’avviso opposto (ed eventualmente del p.v.c.) per consentire a questo giudice di verificare la sussistenza del riferimento a documenti esterni ignoti al contribuente e l’effettiva incidenza di tale circostanza sulla congruità della motivazione dell’atto opposto.

Col quarto motivo, deducendo violazione e falsa applicazione del D.P.R. n. 917 del 1986, art. 2, e art. 43 c.c., il ricorrente sostiene che i giudici d’appello ai fini dell’individuazione del domicilio avrebbero considerato i soli interessi economico – patrimoniali e non anche gli interessi morali, sociali e familiari del contribuente, non considerando in particolare una serie di elementi di segno contrario (quali ad esempio i certificati di iscrizione all’****, il certificato di residenza a Montecarlo anche della moglie del N., articoli giornalistici, contratti ecc.).

Col quinto motivo, deducendo violazione e falsa applicazione del D.P.R. n. 917 del 1986, art. 2, e art. 43 c.c., il ricorrente sostiene che i giudici d’appello avrebbero violato le norme in rubrica senza considerare che l’unicità e principalità del domicilio impongono al giudice, in presenza di più luoghi ed elementi qualificanti, di effettuare un giudizio comparativo circa la presenza di interessi economico-patrimoniali, morali, sociali e familiari della persona.

La censure sopra esposte, da esaminare congiuntamente perchè logicamente connesse, sono inammissibili perchè non trovano riscontro nella decisione impugnata: i giudici d’appello non hanno affermato il principio di diritto in base al quale ai fini della individuazione del domicilio devono essere considerati soltanto gli interessi economico-patrimoniali, ma hanno ritenuto, sulla base di una argomentata serie di elementi, che il centro degli affari e degli interessi economici e morali del contribuente fosse in Italia, essendo risultato il suo pieno coinvolgimento nelle vicende economiche e morali della famiglia N. e delle società ad essa facenti capo.

E’ peraltro da rilevare che, secondo la giurisprudenza di questo giudice di legittimità, il D.P.R. 22 917/1986, art. 2, comma 2, richiede, per la configurabilità della residenza fiscale nello Stato, tre presupposti, indicati in via alternativa, il primo, formale, rappresentato dall’iscrizione nelle anagrafi delle popolazioni residenti, e gli altri due, di fatto, costituiti dalla residenza o dal domicilio nello Stato ai sensi del codice civile, con la conseguenza che l’iscrizione del cittadino nell’anagrafe dei residenti all’estero non è elemento determinante per escludere la residenza fiscale in Italia, allorchè il soggetto abbia nel territorio dello Stato il proprio domicilio, inteso come sede principale degli affari ed interessi economici, nonchè delle proprie relazioni personali, non risultando determinante, a tal fine, il carattere soggettivo ed elettivo della “scelta” dell’interessato – rilevante solo quanto alla libertà dell’effettuazione della stessa, ma non ai fini della verifica del risultato di quella scelta – ma dovendosi contemperare la volontà individuale con le esigenze di tutela dell’affidamento dei terzi, per cui il centro principale degli interessi vitali del soggetto va individuato dando prevalenza al luogo in cui la gestione di detti interessi viene esercitata abitualmente in modo riconoscibile dai terzi (v. tra le altre Cass. n. 14434 del 2010).

Peraltro, ove il ricorrente ritenga che nella propria valutazione i giudici d’appello abbiano trascurato fatti decisivi, ossia potenzialmente idonei a condurre ad una decisione diversa, non può censurare la decisione per violazione o falsa applicazione di norme, ma solo per vizio di motivazione, indicando in maniera autosufficiente i suddetti fatti ed evidenziandone la decisività ex art. 360 c.p.c., n. 5.

Col sesto motivo, deducendo violazione e falsa applicazione dell’art. 2697 c.c., D.P.R. n. 917 del 1986, art. 2, e art. 43 c.c., il ricorrente chiede a questo giudice di dire se è “vero che gli artt. 2697 e 43 c.c., e il D.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917, art. 2, impongono all’Agenzia delle Entrate di fornire al giudice una rigorosa prova del domicilio del contribuente in Italia e che il giudice viola le norme suddette ogniqualvolta considera domiciliato in Italia un contribuente in base a mere affermazioni della Agenzia delle Entrate, con ciò gravando illegittimamente il contribuente della relativa prova contraria”.

La censura è inammissibile.

E’ infatti da rilevare che il quesito non risulta conforme al dettato dell’art. 366 bis c.p.c., nella lettura data ad esso dalla giurisprudenza (anche a sezioni unite) di questa Corte, secondo la quale il quesito di diritto che deve seguire l’illustrazione dei motivi deve comprendere, oltre alla riassuntiva esposizione degli elementi di fatto sottoposti al giudice di merito, la sintetica indicazione della regola di diritto applicata dal quel giudice e la diversa regola di diritto che, ad avviso del ricorrente, si sarebbe dovuta applicare al caso di specie, rendendo la mancanza anche di una sola delle due suddette indicazioni il motivo inammissibile e dovendo altresì ritenersi inammissibile il motivo che si concluda con un quesito di diritto che contempli una quaestio facti (v. tra le altre SU numeri 18759 e 23860 del 2008 nonchè Cass. numeri 19769 e 24339 del 2008).

Col settimo motivo, deducendo vizio di motivazione, il ricorrente afferma che i giudici d’appello non avrebbero motivato la propria decisione indicando le circostanze poste a base di essa e la relativa documentazione, nonostante la contestazione specifica del contribuente in proposito ed afferma altresì che i suddetti giudici non avrebbero considerato le argomentazioni e la documentazione prodotta da esso ricorrente sia per inficiare la portata dei collegamenti individuati con l’Italia sia per evidenziare più cospicui collegamenti con l’estero.

La censura è inammissibile innanzitutto per mancanza dell’indicazione prevista dalla seconda parte dell’art. 366 bis c.p.c., a norma del quale è richiesta una illustrazione che, pur libera da rigidità formali, si deve concretizzare in una esposizione chiara e sintetica del fatto controverso in relazione al quale la motivazione si assume viziata, essendo peraltro da evidenziare che, secondo la giurisprudenza di questo giudice di legittimità, l’onere di indicare chiaramente tale fatto ovvero le ragioni per le quali la motivazione è insufficiente, imposto dal citato art. 366 bis c.p.c., deve essere adempiuto non già e non solo illustrando il relativo motivo di ricorso, ma anche formulando, al termine di esso, una indicazione riassuntiva e sintetica, che costituisca un “quid pluris” rispetto all’illustrazione del motivo, e che consenta al giudice di valutare immediatamente l’ammissibilità del ricorso (v. Cass. n. 8897 del 2008).

E’ in particolare da sottolineare che l’illustrazione di cui al citato art. 366 bis c.p.c., deve sempre avere ad oggetto (non più un una questione o un “punto”, secondo la versione dell’art. 360 c.p.c., n. 5, anteriore alla modifica introdotta dal D.Lgs. n. 40 del 2006, ma) un fatto preciso, inteso sia in senso storico che normativo, ossia un fatto “principale”, ex art. 2697 c.c. (cioè un “fatto” costitutivo, modificativo, impeditivo o estintivo) o anche, secondo parte della dottrina e giurisprudenza, un fatto secondario (cioè un fatto dedotto in funzione di prova di un fatto principale), purchè controverso e decisivo, e che nella specie manca non solo l’illustrazione di cui alla seconda parte dell’art. 366 bis c.p.c., ma, ancor prima, l’individuazione di uno o più “fatti” specifici (intesi come sopra e non come generico sinonimo di punto, circostanza, questione) rispetto ai quali la motivazione risulti viziata nonchè l’evidenziazione del carattere decisivo dei medesimi fatti.

La censura è inoltre priva di autosufficienza, posto che i giudici d’appello hanno basato la propria decisione su di una serie di circostanze che, secondo quanto risultante dalla sentenza, emergono dal verbale della G.d.F. e non sono sostanzialmente contestate, mentre il ricorrente non ha riportato in ricorso il testo del p.v.c. e dell’atto o degli atti nei quali le suddette circostanze sarebbero state contestate nonchè il testo dei documenti prodotti per inficiare la portata dei collegamenti individuati con l’Italia e per evidenziare più cospicui collegamenti con l’estero.

Con l’ottavo motivo, deducendo violazione e falsa applicazione del D.P.R. n. 600 del 1973, artt. 1 e 38, nonchè art. 52 Cost., il ricorrente si duole del fatto che i giudici di merito abbiano considerato, ai fini dell’accertamento del domicilio del contribuente in Italia, anche circostanze di fatto relative ad anni anteriori e successivi a quello oggetto di accertamento.

La censura è infondata. E’ vero che i giudici d’appello hanno in sentenza riferito alcune circostanze relative anche ad anni anteriori e successivi a quello in considerazione, ma non risulta affatto che tali circostanze siano state in sè valutate ai fini della decisione.

Anzi, il fatto che la sentenza non si limiti ad evidenziare la suddette circostanze ma ne evidenzi chiaramente il riferimento temporale, indica che esse sono state riportate non perchè ritenute idonee a provare di per sè la sussistenza del domicilio del contribuente in Italia in un periodo diverso da quello cui le medesime siano riferibili, ma al fine di lumeggiare la completezza dell’accertamento, posto che l’esistenza, in fatto, in un determinato luogo, del centro degli interessi economici e morali del contribuente non dipende esclusivamente dalla volontà dell’interessato ma da una serie concomitante di situazioni ed elementi spesso evolventisi nel tempo, e quindi quasi mai si realizza o cessa istantaneamente.

Col nono motivo, deducendo violazione e falsa applicazione dell’art. 2697 c.c., D.P.R. n. 600 del 1973, art. 32, e D.P.R. n. 917 del 1986, art. 81, il ricorrente chiede a questo giudice di dire se è “vero che gli artt. 2697 e 43 c.c., e il D.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917, art. 2, impongono all’Agenzia delle Entrate di fornire al giudice una rigorosa prova della consistenza dei movimenti bancari che intende assoggettare all’imposta sui redditi e che il giudice viola le norme suddette ogniqualvolta accerta che i movimenti bancari sono assoggettabili ad imposta quali redditi, in assenza della documentazione informativa che l’Agenzia delle Entrate avrebbe dovuto raccogliere presso le banche ed altri enti, ai sensi del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, art. 32, al fine di comprovare la sussistenza e la consistenza di detti movimenti bancari”.

La censura è inammissibile.

E’ infatti da rilevare che il quesito non risulta conforme al dettato dell’art. 366 bis c.p.c., nella lettura data ad esso dalla giurisprudenza (anche a sezioni unite) di questa Corte, secondo la quale il quesito di diritto che deve seguire l’illustrazione dei motivi deve comprendere, oltre alla riassuntiva esposizione degli elementi di fatto sottoposti al giudice di merito, la sintetica indicazione della regola di diritto applicata dal quel giudice e la diversa regola di diritto che, ad avviso del ricorrente, si sarebbe dovuta applicare al caso di specie, rendendo la mancanza anche di una sola delle due suddette indicazioni il motivo inammissibile e dovendo altresì ritenersi inammissibile il motivo che si concluda con un quesito di diritto che contempli una quaestio facti – nella specie il quesito proposto presuppone accertata la mancanza di documentazione informativa raccolta presso le banche – (v. tra le altre SU numeri 18759 e 23860 del 2008 nonchè Cass. numeri 19769 e 24339 del 2008).

Col decimo motivo, deducendo violazione e falsa applicazione di norme di diritto, il ricorrente sostiene che il D.P.R. n. 600 del 1973, art. 32, e D.P.R. n. 917 del 1986, art. 81, sono applicabili ai soli ricavi derivanti dall’attività di impresa e non alla retribuzione degli amministratori di società di capitali e che l’Agenzia avrebbe invocato una presunzione di imponibilità per redditi diversi da quelli di impresa senza fornire la prova della effettiva componente reddituale delle suddette somme.

La censura è infondata. In proposito, è sufficiente rilevare che la giurisprudenza di questo giudice di legittimità è univoca nel ritenere che i dati e gli elementi risultanti dai conti correnti bancari assumono sempre rilievo ai fini della ricostruzione del reddito imponibile, se il titolare di detti conti non fornisca adeguata giustificazione, ai sensi del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 32, poichè questa previsione ha portata generale, riguardando la rettifica delle dichiarazioni dei redditi di qualsiasi contribuente, quale che sia la natura dell’attività svolta e dalla quale quei redditi provengano (v. tra le altre Cass. n. 19692 del 2011 – riferita proprio a soggetto svolgente attività di collaborazione coordinata e continuativa come amministratore di società a responsabilità limitata – e Cass. n. 14041 del 2011).

3. Alla luce di quanto sopra esposto, il ricorso deve essere rigettato. Le spese seguono la soccombenza.

 

P.Q.M.

 

Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente alle spese del presente giudizio di legittimità che liquida in Euro 7.000,00 oltre spese prenotate a debito.

Redazione