Nel giudizio di revoca la locuzione “nuove prove” si riferisce esclusivamente alle prove “sopravvenute” o “scoperte” dopo la condanna (Cass. pen. n. 17335/2013)

Redazione 16/04/13
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Svolgimento del processo

1. Con decreto del 22/03/2012, la Corte di Appello di Salerno confermava il decreto con il quale, in data 22/06/2010, il Tribunale della medesima città aveva respinto l’istanza di revoca proposta da P.L. avverso la misura di prevenzione della confisca di tre unità immobiliari disposta con decreto definitivo del 15/06/2005.

2. Avverso il suddetto decreto, la P., a mezzo del proprio difensore, ha proposto ricorso per cassazione deducendo manifesta contraddittorietà e carenza della motivazione: sostiene la ricorrente che la Corte territoriale non avrebbe ben valutato i nuovi documenti prodotti a sostegno dell’istanza di revoca, avendoli analizzati con una “metodica non scevra da preconcetti, in quanto la conferma dell’irrogata confisca finisce per essere basata su considerazioni non documentate”. La ricorrente, poi, passa ad esaminare la motivazione nella parte in cui ha la Corte ha analizzato la documentazione prodotta e rilevatane, di volta in volta, contraddittorietà, “ragionamento non lineare”, sbrigativo e superficiale, conclude chiedendo l’annullamento del’impugnato decreto avendo la Corte territoriale “reso una motivazione palesemente contraddittoria o comunque carente in ordine al rigetto dell’appello (…)”.

3. Il Procuratore Generale, nella sua requisitoria scritta, ha chiesto che il ricorso sia dichiarato inammissibile in quanto le prove prodotte nel giudizio di merito non erano prove nuove essendo nella disponibilità della ricorrente fin dall’originario giudizio conclusosi con la confisca e, quindi, essendo deducibili, il giudizio di revoca avrebbe dovuto essere dichiarato inammissibile a monte.

Motivi della decisione

1. In via preliminare, va disattesa la richiesta del P.G. il quale fonda la sua richiesta sulla sentenza n 57/2007 con la quale le SSUU hanno ampliato la revoca prevista, L. n. 1423 del 1956, ex art. 7, solo per le misure di sicurezza personali, anche alle misure di natura patrimoniali.

Il brano della citata sentenza è il seguente: “13. Ci si deve però soffermare ancora su questa revoca, per tornare ad osservare che essa si riferisce ad un provvedimento definitivo. Carattere, questo, che preclude di rimettere in discussione con l’istanza atti o elementi già considerati nel procedimento di prevenzione o in esso deducibili.

Come correttamente rileva Cass. sez. 6^, 17 settembre 2004, n. 46449, ******* e altro, la richiesta di rimozione del provvedimento definitivo deve muoversi nello stesso ambito della rivedibilità del giudicato di cui all’art. 630 c.p.p. e ss., con postulazione dunque di prove nuove sopravvenute alla conclusione del procedimento (e sono tali anche quelle non valutate nemmeno implicitamente: S.U., 26 settembre 2001, ******), ovvero di inconciliabilità di provvedimenti giudiziari, ovvero di procedimento di prevenzione fondato su atti falsi o su un altro reato.

Gli elementi dedotti saranno diretti a dimostrare l’insussistenza di uno o più dei presupposti del provvedimento reale e pertanto in primo luogo la pericolosità del proposto, ma anche, unitamente o separatamente, la disponibilità diretta o indiretta del bene in capo al proposto medesimo, il valore sproporzionato della cosa al reddito dichiarato o all’attività economica svolta, il frutto di attività illecite o il reimpiego di profitti illeciti”.

Ad avviso del P.G. ricorrente, poichè le SSUU hanno scritto che non si possono rimettere “in discussione con l’istanza atti o elementi già considerati nel procedimento di prevenzione o in esso deducibili”, allora, nel caso di specie l’istanza di revoca sarebbe inammissibile perchè la documentazione prodotta era deducibile fin dal giudizio conclusosi con la confisca.

Tuttavia, va osservato che, se è vero che le SSUU, hanno scritto che nel procedimento di revoca non si possono rimettere “In discussione con l’istanza atti o elementi già considerati nel procedimento di prevenzione o in esso deducibili”, tuttavia, hanno anche scritto che “la richiesta di rimozione dei provvedimento definitivo deve muoversi nello stesso ambito della rivedibilità del giudicato di cui all’art. 630 c.p.p. e ss., con postulazione dunque di prove nuove sopravvenute alla conclusione del procedimento…”.

Ora, poichè tutta la ratio decidendi della suddetta sentenza è imperniata sull’assimilabilità del procedimento di revoca a quello di revisione, tant’è che viene effettuato un rinvio integrale alla normativa di cui all’art. 630 c.p.p., non vi è ragione alcuna per ritenere che il procedimento di revoca delle misure di prevenzione debba soffrire di una così evidente, ingiustificata ed irrazionale limitazione tanto più ove si consideri che in esso viene in rilievo un diritto costituzionalmente protetto (diritto di proprietà).

E’ vero che l’art. 28 del nuovo codice antimafia (dlgs 159/2011) prevede la revoca solo per “prove nuove decisive, sopravvenute alla conclusione del procedimento”, ma, è del tutto evidente che la lacuna legis presente nella previgente normativa non si può colmare con quella sopravvenuta ma solo con quella preesistente: di conseguenza, poichè la normativa applicabile, in via analogica, è quella di cui al giudizio di revisione, è questa che, per le fattispecie antecedenti all’entrata in vigore del D.Lgs. n. 159 del 2011, si deve applicare.

Il che comporta, come hanno correttamente deciso entrambi i giudici di merito, che nel giudizio di revoca, la locuzione “nuove prove” cui fa riferimento l’art. 630 c.p.p., comma 1, lett. c) si riferisce soltanto alle prove “sopravvenute” o “scoperte” dopo la condanna non rilevando la causa della mancata scoperta al momento del procedimento neppure quando la medesima sia addebitabile all’imputato: ex plurimis Cass. 3147/1998 rv 212661 – SSUU 624/2001 Rv. 220443.

2. Tanto premesso, la doglianza del ricorrente è manifestamente infondata e, quindi, va dichiarata inammissibile.

In questa sede, la ricorrente ha sostenuto che la Corte non avrebbe tenuto in alcuna considerazione le sue allegazioni difensive e che, comunque le avrebbe disattese con motivazione contraddittoria e/o illogica.

Sennonchè, si deve ribattere che, a ben vedere, la ricorrente, tenda di introdurre, in questa sede, in modo surrettizio, una censura in ordine alla motivazione addotta dalla Corte territoriale: il che deve ritenersi inammissibile, essendo ben noto che il sindacato di legittimità sui provvedimenti in materia di prevenzione è limitato, a norma della L. n. 1423 del 1956, art. 4, comma 11, alla sola violazione di legge (norma ritenuta legittima anche sotto il profilo costituzionale: cfr Corte Cost. n 321 del 2004) e quindi non può estendersi al controllo sulla adeguatezza e coerenza logica della motivazione se non nei casi di inesistenza o mera apparenza intendendosi con tale ultima locuzione quella motivazione priva dei requisiti minimi di coerenza e completezza, al punto da risultare inidonea a rendere comprensibile l’iter logico seguito dal giudice di merito, ovvero quando le linee argomentative del provvedimento siano talmente scoordinate da rendere oscure le ragioni che hanno giustificato il provvedimento.

Ma, per quanto detto, nel caso di specie, deve escludersi la suddetta violazione di legge in quanto la Corte, con motivazione amplissima, dopo avere preso in esame singolarmente i tre documenti prodotti a sostegno del giudizio di revoca, ha illustrato le ragioni per le quali quei documenti non erano idonei a travolgere il giudizio che si era con la confisca, disattendo, poi, puntualmente la tesi difensiva.

Ora, quello che è certo è che la suddetta motivazione – la si condivida o no – non è nè omessa nè apparente e, quindi, avverso di essa non è ammissibile un ricorso come quello proposto dalla ricorrente con il quale si deducono solo vizi motivazionali ex art. 606 c.p.p., lett. e): alla relativa declaratoria consegue, per il disposto dell’art. 616 c.p.p., la condanna della ricorrente al pagamento delle spese processuali, nonchè al versamento in favore della Cassa delle Ammende di una somma che, ritenuti e valutati i profili di colpa emergenti dal ricorso, si determina equitativamente in Euro 1.000,00.

P.Q.M.

DICHIARA Inammissibile il ricorso e CONDANNA la ricorrente al pagamento delle spese processuali e al versamento della somma di Euro 1.000,00 alla Cassa delle Ammende.

Così deciso in Roma, il 27 marzo 2013.

Redazione