Legittimo l’accertamento induttivo se il bilancio di esercizio della società è poco chiaro e impreciso (Cass. n. 19697/2013)

Redazione 28/08/13
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Svolgimento del processo

La srl ***********, in persona del legale rappresentante P.P. , ricorre, sulla base di sette motivi, nei confronti della sentenza della Commissione tributaria regionale del Lazio che, accogliendo parzialmente l’appello dell’Agenzia delle entrate, ha ritenuto legittimo l’avviso con il quale era stato rettificato ai fini dell’IRPEG il reddito dichiarato per l’anno 1998 e, conseguentemente, la dichiarazione IVA. per il medesimo anno, mentre ha annullato le sanzioni irrogate alla società.
L’ufficio aveva proceduto all’accertamento induttivo in ragione dell’inattendibilità delle scritture esaminate in sede di verifica e delle inesattezze rilevate nella dichiarazione.
L’Agenzia delle entrate resiste con controricorso proponendo ricorso incidentale affidato ad un motivo, cui replica con controricorso la società contribuente, che ha successivamente depositato memoria.

Motivi della decisione

I ricorsi, siccome proposti nei confronti della medesima decisione, devono essere riuniti per essere definiti con unica pronuncia.
Con il primo motivo del ricorso principale la società contribuente assume, sotto il profilo della violazione di legge, che la mancata impugnazione da parte dell’ufficio delle rationes decidendi, concernenti l’accertamento dell’inapplicabilità della presunzione di cui all’art. 32, primo comma, n. 2 e n. 7, del d.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, in relazione alle movimentazioni sui conti correnti bancari della società, determinerebbe “il passaggio in giudicato della sentenza di primo grado e, conseguentemente, la violazione da parte dei giudici di seconde cure degli artt. 53 e 56 del d.lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, e dell’art. 324 cod. proc. civ., per non aver rilevato il suddetto giudicato”.
Con il secondo motivo denuncia omessa motivazione sull’eccepita inammissibilità dell’appello dell’ufficio per “l’avvenuta modifica dei presupposti in fatto e in diritto posti a fondamento dell’avviso e che hanno formato oggetto della sentenza di primo grado”.
Con il terzo motivo sostiene, lamentando violazione di legge, che “la modifica da parte dell’ufficio appellante dei presupposti in fatto e in diritto sui quali si basa l’avviso di accertamento oggetto del giudizio e quella del metodo di accertamento utilizzato costituiscono un mutamento della domanda inammissibile in appello in virtù dell’art. 57 del d.lgs. n. 546 del 1992”.
Con il quarto motivo denuncia vizio di omessa pronuncia, ai sensi dell’art. 360, n. 4, cod. proc. civ., per il mancato esame dell’eccezione di inammissibilità del ricorso in appello per mancanza di specificità dei motivi, in violazione dell’art. 53 del d.lgs. n. 546 del 1992.
Il quinto motivo, con il quale si denuncia violazione di legge, si conclude con il quesito “se la sentenza di appello nel non verificare l’esistenza dei presupposti fondanti l’accertamento induttivo-extracontabile che si assume utilizzato e nel non verificare l’attitudine dei dati accertati ad esprimere il reddito netto del contribuente, abbia malamente applicato gli artt. 39, co. 2, lett. d), del d.P.R. n. 600 del 1973, 2697 e 2423 cod. civ.”.
L’illustrazione del sesto motivo si chiude con il quesito “se costituisce violazione degli artt. 39, co. 1, lett. d), e co. 2, lett. d), e 42 del d.P.R. n. 600 del 1973 e 7 della legge n. 212 del 2000 la modifica/sostituzione da parte dell’ufficio nel corso del giudizio dei presupposti in fatto e le ragioni in diritto su cui si basa l’atto di accertamento a giustificazione dell’utilizzo di un metodo di accertamento (induttivo extracontabile) diverso da quello utilizzato nell’avviso di accertamento oggetto del giudizio (analitico-induttivo)”.
L’esposizione del settimo motivo è seguita dal quesito “se la sentenza d’appello, omettendo di valutare i documenti non disponibili durante la fase amministrativa dell’accertamento ma prodotti tempestivamente in giudizio dal contribuente abbia violato l’art. 32, comma 5, del d.P.R. n. 600 del 1973, che va interpretato nel senso di ammettere la produzione in giudizio da parte del contribuente della documentazione non disponibile durante la fase amministrativa, non solo se la mancata produzione durante la fase di accertamento sia imputabile a causa di forza maggiore ira anche se dovuta a colpa quale la negligenza e l’imperizia nella custodia e nella conservazione”.
Con l’unico motivo del ricorso incidentale l’amministrazione si duole, sotto il profilo della violazione di legge, che sia stata esclusa la punibilità della società contribuente per le violazioni e quindi l’applicabilità ad essa delle sanzioni amministrative. Assume in proposito che l’art. 7, comma 2, del d.l. n. 269 del 2003, in forza del quale l’esclusiva responsabilità in capo alla persona giuridica per le sanzioni tributarie si applica anche alle violazioni già commesse ma non ancora contestate o irrogate alla data di entrata in vigore dello stesso decreto, escluderebbe, per effetto del successivo comma 3, la possibilità di invocare il principio di legalità di cui all’art. 3, comma 1, del d.lgs. n. 472 del 1997, per cui sarebbe illegittima la sentenza impugnata che, in applicazione di tale principio, abbia dichiarato non responsabile una persona giuridica solo perché il fatto era stato commesso prima dell’entrata in vigore del d.l. n. 269 del 2003, ancorché la sanzione sia stata irrogata in epoca successiva.
Il quarto motivo del ricorso principale, il cui esame logicamente precede, è privo di pregio.
Secondo il consolidato orientamento di questa Corte, “ad integrare gli estremi del vizio di omessa pronuncia non basta la mancanza di una espressa statuizione del giudice, ma è necessario che sia stato completamente omesso il provvedimento che si palesa indispensabile alla soluzione del caso concreto, il che non si verifica quando la decisione adottata in contrasto con la pretesa fatta valere dalla parte comporti il rigetto di tale pretesa anche se manchi in proposito una specifica argomentazione” (Cass. n. 4317 del 2000 e n. 10636 del 2007).
Nella specie, la reiezione dell’eccezione di inammissibilità per mancanza di specificità dei motivi di appello risulta evidente dalla dettagliata trascrizione, nello svolgimento del processo, dei detti motivi, e quindi dal successivo, analitico esame degli stessi – nonché dalla decisione in ordine ad essi – da parte del giudice del gravame.
Gli altri motivi del ricorso principale, da esaminarsi congiuntamente in quanto strettamente connessi, devono essere disattesi.
Si rivelano infondati anzitutto il quinto ed il sesto motivo.
Con l’avviso impugnato era stata rettificata, ai fini IRPEG e IVA, per quanto ancora interessa, la dichiarazione della srl *********** per l’anno 1998 formulandosi, come principale rilievo, l’omessa contabilizzazione di ricavi per lire 6.347.956.000 in relazione ad operazioni non identificabili indicate, si legge nel ricorso della ricorrente, in un conto di mastro finanziario “crediti/debiti v. società controllante”, ovvero, si legge nel controricorso, “registrate nelle sezioni Dare e Avere e a cui non sono state fornite idonee documentazioni”.
Nell’accertamento delle imposte, come questa Corte ha ripetutamente affermato, “l’art. 39 del d.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, consente la rideterminazione dei ricavi e, quindi, dei redditi su base induttiva, facendo ricorso a presunzioni semplici di cui agli artt. 2727 e 2729 cod. civ., pur in presenza di scritture contabili formalmente corrette, quando la contabilità possa essere considerata complessivamente ed essenzialmente inattendibile” (Cass. n. 57321 del 2012).
Si è chiarito come “mentre in presenza di irregolarità della contabilità meno gravi, contemplate dal primo comma dell’art. 39 del d.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, l’amministrazione può procedere a rettifica analitica, utilizzando gli stessi dati forniti dal contribuente, ovvero dimostrando, anche per presunzioni, purché munite dei requisiti di cui all’art. 2729 cod. civ., l’inesattezza o incompletezza delle scritture medesime, allorquando, invece, constati un’inattendibilità globale delle scritture, l’ufficio è autorizzato, ai sensi del successivo secondo comma, a prescindere da esse ed a procedere in via induttiva, avvalendosi anche di semplici indizi sforniti dei requisiti necessari per costituire prova presuntiva, la circostanza che le irregolarità contabili siano così gravi e numerose da giustificare un giudizio di complessiva inattendibilità delle stesse rende, dunque, di per sé sola legittima l’adozione del metodo induttivo, senza che sui presupposti per il ricorso ad esso incidano le modalità con cui tale forma di accertamento viene poi eseguita: l’amministrazione può quindi utilizzare elementi esterni rispetto alle scritture, ma anche dati da queste emergenti, nella misura in cui risultino singolarmente affidabili. L’esistenza dei presupposti per l’applicazione del metodo induttivo non esclude, infatti, che l’amministrazione possa servirsi, nel corso del medesimo accertamento e per determinate operazioni, del metodo analitico di cui al primo comma dell’art. 39, oppure contemporaneamente di entrambe le metodologie” (Cass. n. 27068 del 2006).
Nella specie il giudice d’appello ha considerato non dimostrata la tesi della contribuente – incentrata sull’esistenza di un conto di natura finanziaria, utilizzato dalle società del gruppo… e da società terze per perseguire “obiettivi strategici di investimento nonché per sopperire a momentanee crisi di liquidità con la conseguenza della irrilevanza delle poste in esso contenute ai fini del calcolo dell’utile di gestione” -della “concentrazione in capo ad un unico soggetto della gestione delle disponibilità finanziarie di un gruppo societario e di organismi sociali terzi, al fine di ottenere la migliore gestione della tesoreria aziendale con relazione ai rapporti in essere tra le società menzionate e gli istituti di credito. Di tale contratto, denominato contratto di pool, di tesoreria accentrata, infatti, la contribuente non ha offerto alcuna prova ritenendo che ogni relativo onere ricada sull’ufficio”.
La Commissione regionale ha osservato, richiamando Cass. sez. un., 21 febbraio 2000, n. 27, che il bilancio di esercizio che violi i precetti di chiarezza e precisione dettati dall’art. 2423, secondo comma, cod. civ., è illecito, con conseguente nullità della deliberazione assembleare che l’abbia approvato, non soltanto quando la violazione della normativa in materia determini una divaricazione tra il risultato effettivo dell’esercizio e quello del quale il bilancio da invece contezza, ma anche nei casi in cui dal bilancio stesso e dai relativi allegati non sia possibile desumere l’intera gamma delle informazioni che la legge vuole siano fomite per ciascuna delle singole poste iscritte.
Ed ha ritenuto che, coincidendo la situazione descritta nella pronuncia con quella riscontrata nel verbale di constatazione posto a base dell’accertamento, l’ufficio abbia legittimamente fatto ricorso al metodo induttivo di ricostruzione del reddito effettivo, con inversione dell’onere della prova (sui riflessi nell’accertamento del reddito d’impresa del principio di chiarezza del bilancio e di corretta e veritiera rappresentazione della situazione patrimoniale ed economica dell’impresa, cfr., tra le altre, Cass. n. 1910 del 2007, n. 21157 del 2008).
Si rivelano quindi infondati, in particolare, i primi tre motivi del ricorso principale, atteso che, come è incontroverso e ulteriormente accertato dal giudice d’appello, la contestata omessa contabilizzazione di ricavi è stata sempre riferita ad operazioni non identificabili registrate nelle scritture della società contribuente, e la verifica ha avuto ad oggetto al più gli estratti conto bancari, ma non i movimenti bancari, sicché il richiamo all’art. 37, primo comma, n. 2 e n. 7, del d.P.R. n. 600 del 1973 è semplicemente non pertinente.
Privo di pregio è quindi il motivo riferito ad un giudicato costituito dall’esclusione della ricorrenza dell’ipotesi considerata nelle disposizioni da ultimo menzionate, essendo una siffatta non ricorrenza del tutto condivisa dal giudice d’appello, nonché dall’ufficio appellante, che ha svolto con il gravame difese comprese tutte entro il thema decidendum originario, dato dalla contestazione formulata nell’avviso nei termini detti.
Secondo il consolidato orientamento di questa Corte, “si ha domanda nuova – inammissibile in appello – per modificazione della causa petendi quando il diverso titolo giuridico della pretesa, dedotto innanzi al giudice di secondo grado, essendo impostato su presupposti di fatto e su situazioni giuridiche non prospettate in primo grado, comporti il mutamento dei fatti costitutivi del diritto azionato e, introducendo nel processo un nuovo tema di indagine e di decisione, alteri l’oggetto sostanziale dell’azione e i termini della controversia, in modo da porre in essere una pretesa diversa, per la sua intrinseca essenza, da quella fatta valere in primo grado e sulla quale non si è svolto in quella sede il contraddittorio” (Cass. n. 2201 e 10806 del 2012).
Sono perciò infondati il secondo ed il terzo motivo del ricorso, che muovono dalla denunciata novità dei motivi di appello, ovvero dal mutamento della domanda.
Il settimo motivo è del pari infondato, ove si consideri che nell’accertamento delle imposte sui redditi, l’art. 32 del d.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, nei commi aggiunti dall’art. 25 della legge 18 febbraio 1999, n. 28, nel prevedere che la mancata risposta agli inviti dell’ufficio da parte del contribuente preclude, ai fini dell’accertamento in sede amministrativa e contenziosa, la considerazione a suo favore degli elementi non addotti, “non richiede che l’omissione sia frutto di un comportamento doloso e fraudolento, intenzionalmente diretto ad intralciare l’attività di accertamento, essendo sufficiente il fatto obbiettivo della mancata risposta, a prescindere dalle motivazioni della parte privata, ossia dall’elemento psicologico del contribuente che omette di rispondere” (Cass. n. 28049 del 2009).
Inoltre, la dichiarazione del contribuente di non aver potuto rispondere all’invito dell’Ufficio per causa a lui non imputabile, che egli può formulare al fine di impedire la produzione di detti effetti (impossibilità che le notizie non fornite siano prese in considerazione a suo favore), deve essere fatta in modo chiaro ed esplicito nel ricorso introduttivo del giudizio di primo grado, non richiedendosi la prova contestuale della non imputabilità della causa dell’inadempimento (Cass. n. 28049 del 2009, cit.).
Il ricorso incidentale dell’Agenzia delle entrate è fondato.
L’art. 7, comma 1, del d.l. 30 settembre 2003, n. 269, come convertito nella legge 24 novembre 2003, n. 326, per le “sanzioni amministrative relative al rapporto fiscale proprio di società o enti con personalità giuridica” non contempla (più) la responsabilità della persona fisica autore materiale delle violazioni – prevista invece dall’art. 11, comma 1, del d.lgs. 18 dicembre 1997, n. 472 -, stabilendo che le sanzioni stesse “sono esclusivamente a carico della persona giuridica”.
La norma intertemporale dettata al successivo comma 2 dispone quindi che “le disposizioni del comma 1 si applicano alle violazioni non ancora contestate o per le quali la sanzione sia stata irrogata alla data di entrata in vigore del presente decreto”.
La disposizione, nel consentire l’applicazione della (nuova) disciplina dettata al comma 1 anche per violazioni connesse anteriormente alla entrata in vigore del decreto, potrebbe apparire in contrasto con il principio di legalità fissato in via generale dall’art. 3, comma 1, del d.lgs. n. 472 del 1997 (“nessuno può essere assoggettato a sanzioni se non in forza di una legge entrata in vigore prima della commissione della violazione”).
A ben vedere, tuttavia, un siffatto contrasto non sussiste, sol che si consideri che la responsabilità della persona giuridica era già stabilita dalla previgente norma incriminatrice del d.lgs. n. 472 del 1997, che pure al comma 1 dell’art. 11 la contemplava in forma innegabilmente “rafforzata”, essendo l’autore materiale della violazione “obbligato solidalmente [con la persona giuridica] al pagamento di una somma pari alla sanzione irrogata”.
Per dissolvere ogni equivoco, l’art. 7 del d.l. n. 269 del 2003 ha comunque espressamente previsto al comma 3 che “nei casi di cui al presente articolo le disposizioni del d.lgs. 18 dicembre 1997, n. 472, si applicano in quanto compatibili”: e ciò con riguardo non solo alla previgente disciplina racchiusa nell’art. 11, ma anche alle disposizioni dell’art. 3.
In conclusione, il ricorso principale va rigettato, mentre va accolto il ricorso incidentale, la sentenza impugnata va cassata in relazione al motivo accolto e, non essendo necessari ulteriori accertamenti di fatto, la causa va decisa nel merito, rigettando il ricorso introduttivo del contribuente con riguardo alle sanzioni.
Le spese del giudizio seguono la soccombenza e si liquidano come in dispositivo, mentre vanno compensate fra le parti le spese per i gradi di merito.

P.Q.M.

La Corte, riuniti i ricorsi, rigetta il ricorso principale ed accoglie il ricorso incidentale, cassa la sentenza impugnata in relazione al motivo di ricorso accolto e, decidendo nel merito, rigetta il ricorso introduttivo della contribuente in ordine alle sanzioni.
Condanna la ricorrente al pagamento delle spese del giudizio, liquidate in Euro 13.000, oltre alle spese prenotate a debito, e dichiara compensate fra le parti le spese per i gradi di merito.

Redazione