Legittimo il licenziamento del dirigente sindacale si appropria dell’indirizzario aziendale (Cass. n. 20175/2013)

Redazione 10/09/13
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Fatto

G.M. , dipendente della Arnoldo Mondadori s.p.a. con la qualifica di quadro, adiva il Tribunale di Milano chiedendo l’annullamento del licenziamento in tronco a lui intimato dalla società il 19.3.2004 con le conseguenziali statuizioni ex art. 18 Stat. Lav. nonché l’accertamento della dequalificazione e del mobbing subito con condanna della società al risarcimento del danno biologico, esistenziale, professionale e morale.
Il Tribunale separava le domande e, con sentenza n. 2791/2007, dichiarava inammissibile quella relativa alla declaratoria di illegittimità del licenziamento per la posizione assunta dal G. nel giudizio ex art. 28 Stat. Lav. instaurato dal Sindacato Libero, del quale egli era dirigente e rappresentante sindacale, inteso all’accertamento della natura antisindacale – discriminatoria del licenziamento a lui irrogato, giudizio nel quale il G. , secondo il Tribunale, non si era limitato a sostenere le ragioni del sindacato ma aveva proposto una vera e propria azione individuale autonoma.
Con successiva sentenza n. 3008/2007 veniva rigettata la domanda di risarcimento del danno da dequalificazione e mobbing.
Avverso entrambe dette decisioni interponeva distinti gravami il G. e la Corte di appello di Milano, dopo averli riuniti, riformava la decisione n. 2791/2007 dichiarando legittimo il licenziamento sotto il profilo del giustificato motivo soggettivo e confermava la sentenza n. 3008/2007.
Ad avviso della Corte di merito, per quello che qui interessa, la domanda intesa alla declaratoria di illegittimità del licenziamento era ammissibile in quanto il G. , nel giudizio ex art. 28 Stat. Lav. (conclusosi con il rigetto della domanda non essendo stato ritenuto il comportamento della società antisindacale), aveva spiegato intervento adesivo concludendo per l’accoglimento del ricorso proposto dalla segreteria del sindacato, ma dichiarando espressamente di volersi riservare l’azione individuale. Quindi, la successiva autonoma impugnativa del licenziamento da parte del predetto era ammissibile a ciò non essendo di ostacolo l’identità dei fatti dedotti che ben potevano essere valutati a fini diversi in relazione ad una domanda con un diverso titolo ed un oggetto solo in parte coincidente con quello del precedente giudizio ex art. 28 Stat. Lav..
Ciò chiarito, la Corte territoriale riteneva legittimo il recesso intimato al G. per essersi appropriato dell’indirizzario intero della Mondadori con la sua password di accesso installandolo sul computer del Sindacato Libero e, quindi, utilizzandolo per invio di e-mail, fatto questo qualificato nella lettera di licenziamento come ultimo grave episodio che si inseriva in “…un comportamento tenuto per anni, caratterizzato da una costante radicale contrapposizione nei confronti della Direzione aziendale…”. In particolare, secondo la Corte lo specifico fatto contestato, pur non potendo costituire una giusta causa di recesso in tronco, tuttavia, inserito in una situazione sempre più difficile espressamente richiamata nella missiva di licenziamento oltre che emergente dalle risultanze documentali agli atti, integrava un giustificato motivo soggettivo di recesso. Con la conseguenza che il rapporto di lavoro doveva considerarsi cessato solo allo scadere del preavviso.
Per la cassazione di questo capo della sentenza propone ricorso il G. affidato a tre motivi.
La Arnoldo Mondadori s.p.a. resiste con controricorso e propone, a sua volta, ricorso incidentale fondato su tre motivi.
Entrambe le parti hanno depositato memoria ex art. 378 c.p.c..

Diritto

Preliminarmente, i ricorsi vanno riuniti in quanto proposti avverso la medesima sentenza, ai sensi dell’art. 335 c.p.c..
Con il primo motivo del ricorso principale viene dedotta “violazione e falsa applicazione dell’art. 7 della L. n. 300 del 20.5.70 in relazione all’art. 18 L. n. 300/70 cit. ed all’art. 1 L. n. 604/1966 nonché agli artt. 1175, 1375, 2106 e 2119 c.c.. Tardività della contestazione e violazione del principio di tempestività. Violazione e falsa applicazione dell’art. 112 c.p.c.. Mancata corrispondenza tra chiesto e pronunciato. Omessa pronuncia.”. Si assume che la Corte di merito aveva del tutto omesso di pronunciarsi sul motivo di appello relativo alla dedotta tardività della contestazione e del licenziamento in palese violazione dell’art. 112 c.p.c.. Ed infatti, era stato evidenziato che gli addebiti specificamente mossi al ricorrente – ovvero il trafugamento, l’illecita installazione e la altrettanto abusiva utilizzazione dell’indirizzario di proprietà della Mondadori s.p.a. – contenuti nella missiva di contestazione datata 1.3.2004 erano risalenti al periodo dal 12.6.2002, quanto all’appropriazione dell’indirizzario, e sino al 14.3.2003, quanto alle altre condotte, ragion per cui la contestazione di tali fatti era avvenuta con notevole ritardo (circa due anni rispetto al primo ed un anno quanto al secondo) del tutto ingiustificato visto che già all’epoca della denuncia la società aveva la ragionevole convinzione della sussistenza dei fatti addebitati.
Con il secondo motivo si deduce motivazione contraddittoria in ordine ad un fatto controverso e decisivo per il giudizio nonché violazione dell’art. 2119 c.c. e dell’art. 1 della L. n. 604/1966 per avere la Corte di merito dato per acquisito il fatto contestato (ovvero la sottrazione abusiva dell’indirizzario e la sua altrettanto illecita utilizzazione) soltanto sulla scorta delle risultanze del procedimento penale che, invece, erano di segno opposto almeno nell’unico documento richiamato (la sentenza penale stessa) in cui si affermava non solo che il comportamento non era abusivo ma si escludeva che lo avesse posto in essere il ricorrente. Inoltre, il giudice del gravame aveva motivato la congruità della sanzione espulsiva adducendo una condotta del G. non oggetto di contestazione (ma aggiunta solo “ad colorandum”) oltre che non provata ed inesistente.
Con il terzo motivo viene denunciata violazione e falsa applicazione degli artt. 652 e 654 c.p.p.. Più specificamente, come dedotto nell’atto di appello, la Arnoldo Mondadori Editore si era costituita parte civile nel processo penale conclusosi con la sentenza che aveva assolto il G. , in riferimento agli stessi fatti posti a fondamento del licenziamento, sia con la formula “il fatto non sussiste” sia per non averlo commesso e, dunque, il giudice civile era vincolato a tale accertamento – se definitivo – o sarebbe stato obbligato a sospendere il giudizio ex art. 295 c.p.c. in attesa della definizione del procedimento processo penale.
Tutti i motivi si concludono con la formulazione del relativo quesito di diritto.
Osserva il Collegio che il primo motivo è inammissibile.
È orientamento pacifico di questa Corte che nel giudizio di cassazione è preclusa alle parti la prospettazione di nuove questioni di diritto o nuovi temi di contestazione che postulino indagini ed accertamenti di fatto non compiuti dal giudice del merito, neanche se si tratti di questioni rilevabili d’ufficio. Per superare il rilievo della novità della questione è onere del ricorrente, in ossequio al principio di autosufficienza del ricorso, di indicare in quale specifico atto del giudizio precedente la questione sia stata dedotta (Cass. 26.1.2010 n. 1562; Cass. 28.7.2008 n. 20518; 13.9.2007 n. 19164; Cass. n. 14590 del 12/07/2005; Cass. 27-7-2003 n. 12571; Cass. 5-4-2003 n. 5375).
Orbene, dalla lettura dell’atto di appello e, in particolare, delle pagine in cui, nell’assunto del ricorrente, sarebbe contenuto il motivo cui la Corte non avrebbe dato alcuna risposta, emerge che la tardività della contestazione dell’addebito disciplinare posto, poi, a fondamento del licenziamento non era stata oggetto di uno specifico motivo di gravame. Nelle indicate pagine la questione della intempestività della contestazione viene solo in modo del tutto fugace e generico richiamata ma con riferimento alla “sospensione cautelare” adottata unitamente alla contestazione ma non quale motivo di illegittimità del recesso.
Infondato è il secondo motivo di ricorso.
Vale ricordare il principio più volte affermato da questa Corte secondo cui il giudicato penale di assoluzione non preclude al giudice del lavoro di procedere ad una autonoma valutazione dei fatti stessi ai fini propri del giudizio civile, e cioè tenendo conto della loro incidenza sul particolare rapporto fiduciario che lega le parti del rapporto di lavoro, ben potendo essi avere un sufficiente rilievo disciplinare ed essere idonei a giustificare il licenziamento anche ove non costituiscano reato (Cass. n. 452 del 14/01/2003; Cass. n. 8716 del 17/06/2002; in senso analogo, vedi: Cass. n. 24862 del 09/12/2010; Cass. n. 9508 del 20/04/2007).
In ossequio a tale principio la Corte di appello con la motivazione adottata ha accertato in sede civile i fatti contestati al G. tenendo conto degli elementi emersi nel procedimento penale che si era concluso con la assoluzione del dipendente con la formula di insussistenza del fatto. Il riferimento del giudice di merito è alla contestazione e cioè alle dichiarazioni rese da R.G. relative alla estrazione da parte del G. del detto indirizzario interno ed all’invio di “mail” effettuato, dichiarazioni ritenute inutilizzabili dal giudice penale – ma utilizzabili in sede civile – in quanto rese da persona che doveva essere sentita con la presenza del difensore avendo già fatto, nel corso delle indagini investigative, dichiarazioni autoindizianti.
Peraltro, la circostanza che nella motivazione della sentenza penale di assoluzione “perché il fatto non sussiste”, fosse stato anche chiarito che non erano stati raccolti sufficienti elementi di prova a carico dell’imputato non impediva al giudice civile di procedere alla rivalutazione dei fatti in quanto, come affermato da questa Corte, ai sensi dell’art. 652 (nell’ambito del giudizio civile di danni) e dell’art. 654 (nell’ambito di altri giudizi civili) cod. proc. pen., il giudicato di assoluzione ha effetto preclusivo nel giudizio civile solo ove contenga un effettivo e specifico accertamento circa l’insussistenza o del fatto o della partecipazione dell’imputato e non anche nell’ipotesi in cui l’assoluzione sia determinata dall’accertamento dell’insussistenza di sufficienti elementi di prova circa la commissione del fatto o l’attribuibilità di esso all’imputato e cioè quando l’assoluzione sia stata pronunziata a norma dell’art. 530, comma secondo, cod. proc. pen. (Cass. 11 febbraio 2011, n. 3376; Cass. n. 5676 del 09/03/2010).
Ciò detto, la Corte ha ritenuto che l’aver estratto un indirizzario interno ad uso aziendale al quale potevano accedere tutti i dipendenti della Mondadori (si trattava di indirizzi di dipendenti e collaboratori) trasferendolo sul computer del Sindacato Libero ed averlo utilizzato per l’invio di alcune e-mail, anche con volantini allegati, critiche verso la direzione aziendale integrava una condotta rilevante dal punto di vista disciplinare. Ha, quindi, inquadrato tale comportamento nell’ambito di una situazione conflittuale esistente tra il G. e la società, così come emergente dalla documentazione acquisita agli atti, sintomatica di una crescente insofferenza del predetto rispetto alle indicazioni dei vertici aziendali, situazione evidenziata nella contestazione dell’addebito riportata testualmente nella impugnata sentenza.
In questa valutazione il giudice del gravame, evidentemente tenendo anche conto dell’esito del giudizio penale, ha ritenuto, con giudizio di merito non sindacabile in questa sede (tra le molte, Cass. n 2013 del 13/02/2012; Cass. n. 25144 del 13/12/2010; Cass. n. n. 17514 del 26/07/2010), che i fatti addebitati al dipendente non fossero di gravità tale da giustificare un licenziamento per giusta causa, ma erano idonei, comunque, ad integrare un giustificato motivo soggettivo di recesso.
Del parti infondato è il terzo motivo di ricorso.
Non ricorreva una ipotesi di sospensione necessaria del giudizio civile in ossequio al principio affermato da questa Corte secondo cui “Ai sensi degli artt. 295 cod. proc. civ., 75 cod. proc. pen., 211 disp. att. cod. proc. civ., fuori dal caso in cui i giudizi di danno possono proseguire davanti al giudice civile ai sensi dell’art. 75, secondo comma cod. proc. pen., negli altri casi, il processo può essere sospeso se tra processo penale e altro giudizio ricorra il rapporto di pregiudizialità indicato dall’art. 295 cod. proc. civ. o se la sospensione sia prevista da altra specifica norma, e sempre a condizione che la sentenza penale esplichi efficacia di giudicato nell’altro giudizio, ai sensi degli artt. 651, 652 e 654 cod. proc.” (in materia, Cass. SU. 13682/2001; più di recente cfr. Sez. 6 – L, Ordinanza n. 10417 del 21/06/2012).
Passando all’esame del ricorso incidentale si rileva che con il primo motivo viene dedotta violazione dell’art. 2099 c.c. in relazione agli artt. 28 e 18 L. n. 300/1970.
Si evidenzia che la formazione del giudicato in ordine alla pretesa antisindacalità di un licenziamento per giusta causa – in quanto asseritamente illegittimo per ragioni formali/procedurali nonché per carenza di causa giustificativa – non può non operare, diversamente da quanto affermato nell’impugnata sentenza, nel successivo giudizio attivato dal dipendente licenziato, già parte del processo ex art. 28 Stat. Lav., e tendente alla declaratoria di illegittimità del recesso quando le questioni di fatto e di diritto affrontate e decise nella precedente controversia avente ad oggetto la antisindacalità del comportamento aziendale sono le stesse di quelle da valutare nel successivo giudizio di impugnativa del recesso. Siffatta situazione si era verificata nel caso in esame in cui la Corte di appello di Venezia, nell’escludere la antisindacalità della condotta della Arnoldo Mondadori Editore, aveva delibato sulle seguenti questioni oggetto di altrettanti motivi di appello in quel giudizio: sulla illegittimità del procedimento disciplinare per tardività della contestazione e per omessa affissione del codice disciplinare; circa la efficacia vincolante della sentenza penale; in ordine alla insussistenza della giusta causa/giustificato motivo oggettivo del licenziamento (per non essere riferibile al G. il comportamento addebitatogli, per mancanza di proporzionalità della sanzione espulsiva venendo in questione dati non significativamente tutelati dalla società).
Con il secondo motivo di ricorso si deduce violazione e falsa applicazione delle norme di cui agli artt. 39 c.p.c., 105 c.c. e 1 e 2 c.p.c.. Si assume che la Corte di merito erroneamente aveva rigettato la proposta eccezione del “ne bis in idem”. Ed infatti, se per un verso era fuori discussione che il lavoratore potesse proporre una propria azione tendente alla declaratoria di illegittimità del licenziamento (già asseritamente integrante condotta antisindacale), era altrettanto evidente che, per verificare la ricorrenza o meno del divieto del “ne bis in idem”, occorreva verificare che i fatti già acclarati nel precedente giudizio relativo alla antisindacalità della condotta aziendale e costituenti la premessa logica della relativa decisione non fossero identici a quelli posti a fondamento del successivo giudizio concernente la impugnativa del recesso. E tale indagine non era stata correttamente svolta dal giudice del gravame che si era limitato a rilevare che l’oggetto dei due giudizi era diverso e che alla proposizione di una autonoma domanda da parte del G. non era di ostacolo la identità dei fatti i quali ben potevano essere nuovamente valutati a fini diversi e cioè in relazione ad un diverso “petitum”.
Con il terzo motivo si deduce omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione circa un punto decisivo della controversia prospettato dalle parti.
La Corte di merito, nel ritenere sussistente il giustificato motivo soggettivo del licenziamento in luogo della giusta causa non aveva adeguatamente valutato le emergenze istruttorie relative, in particolare: alla oggettiva rilevanza dell’illecito in considerazione del valore dell’indirizzario, vera banca dati dell’azienda e dalla stessa utilizzabile per gli scopi aziendali; alla gravità della condotta del dipendente consistito nella ben consapevole illegittima utilizzazione di detta banca dati aziendale per fini estranei a quelli dell’azienda.
Ciascun mezzo si conclude con relativo quesito di diritto.
Il primo ed il secondo motivo, da esaminare congiuntamente in quanto logicamente connessi, sono infondati.
La Corte di merito ha correttamente ritenuto che non ricorresse una ipotesi di inammissibilità della domanda per violazione del principio del “ne bis in idem” osservando che nel giudizio conclusosi con la decisione della Corte di appello di Venezia (in data 16.5.2007), che aveva escluso la antisindacalità del licenziamento del G. , quest’ultimo aveva espressamente fatto riserva di proporre una separata azione individuale di impugnazione del licenziamento (spiegando intervento “ad adiuvandum”) e rilevando che non ricorreva identità dei giudizi avendo gli stessi una “causa petendi” ed un “petitum” diversi.
Peraltro, la stessa sentenza della Corte di appello di Venezia del 16.5.2007 (trascritta integralmente nel ricorso incidentale) aveva preliminarmente chiarito che oggetto di quel giudizio era solo il verificare se il licenziamento integrasse o meno carattere antisindacale, mentre “…. la verifica della correttezza del recesso in relazione agli ulteriori presupposti di legge – formali e sostanziali – rimane(va) subordinata all’iniziativa del singolo lavoratore..” e, quindi, in questa prospettiva aveva limitato la propria indagine circa i profili relativi alla gravità degli addebiti, alla rilevanza dell’assoluzione del G. in sede penale. In altri termini, in quel giudizio non era stata valutata la legittimità o meno del licenziamento irrogato al dipendente ma solo se lo stesso avesse integrato o meno una condotta antisindacale.
Inammissibile è il terzo motivo.
Va, in primo luogo, ricordato che il giudizio sulla proporzionalità della sanzione del licenziamento disciplinare rispetto agli addebiti contestati è una
valutazione devoluta al giudice di merito, non censurabile in sede di legittimità ove – come nella specie – sia sorretta da sufficiente e non contraddittoria motivazione (vedi per tutte le già citate, Cass. n 2013 del 13/02/2012; Cass. n. 25144 del 13/12/2010; Cass. n. n. 17514 del 26/07/2010).
La Corte, infatti, dopo aver rilevato che l’indirizzario di cui si era appropriato il G. era ad uso interno ed accessibile da parte di tutti i dipendenti e che non conteneva indirizzi di clienti (ma solo di dipendenti e collaboratori della società, intendendo con tale rilievo di riconoscergli quella particolare rilevanza attribuitagli dall’azienda) e che era stato utilizzato per l’invio di “e-mail” critiche verso la direzione aziendale, ha valutato tale comportamento come idoneo ad integrare un giustificato motivo soggettivo di licenziamento anche perché si poneva al culmine di una situazione conflittuale venutasi a creare tra il G. e la direzione aziendale. Trattasi di motivazione che, sia pur sintetica, risulta immune da carenze e contraddizioni ed è adeguata ad illustrare l’iter logico seguito dalla Corte nel formulare il giudizio di proporzionalità.
Alla luce di quanto esposto tanto il ricorso principale che quello incidentale devono essere rigettati.
Le spese del presente giudizio, stante la reciproca soccombenza, vanno compensate tra le parti.

P.Q.M.

La Corte, riunisce i ricorsi e li rigetta entrambi; compensa le spese del presente giudizio.

Redazione