Legittimo esercizio dello “ius variandi” da parte del datore di lavoro (Cass. n. 20569/2012)

Redazione 21/11/12
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Svolgimento del processo – Motivi della decisione

Ritenuto che il consigliere designato ha depositato, in data 13 gennaio 2012 la proposta di definizione, ai sensi dell’art. 380-bis cod. proc. civ., dal seguente tenore:

“1.- La sentenza attualmente impugnata respinge l’appello di O.G. avverso la sentenza del Tribunale di Cosenza n. 1035/2008 dell’8 maggio 2008, di rigetto del ricorso dell’ O. volto ad ottenere la declaratoria di illegittimità del licenziamento intimatogli per superamento del periodo di comporto dalla datrice di lavoro Carrefour SSC s.r.l. nonchè il risarcimento del danno da demansionamento e da mobbing posto in essere dal direttore della sede di (omissis) e dalla amministrazione della società e il compenso per lavoro straordinario effettuato negli anni dal 2003 al 2005.

2.- La Corte d’appello di Catanzaro rileva: 1) quanto al riconoscimento del demansionamento, va precisato che le dichiarazioni dei testi non consentono di poter affermare lo svolgimento, da parte del ricorrente, delle funzioni di responsabile effettivo della gestione del reparto merci; 2) inoltre, l’assegnazione al reparto gastronomia, avvenuta con attribuzione del livello retributivo di appartenenza, non integra un demansionamento rispetto ai compiti espletati presso il reparto merci, essendo risultato che l’ O. era addetto a servire la clientela e svolgeva le stesse mansioni degli altri addetti al reparto, nè va omesso di rilevare che durante il periodo di assegnazione al reparto gastronomia il lavoratore ha accumulato un rilevante numero di assenze dal servizio;

3) quanto al mobbing, la compiuta istruttoria non ha consentito di rinvenire alcun elemento utile alla prospettazione del lavoratore; 4) infine, va considerata corretta anche l’affermazione del primo giudice sulla legittimità del licenziamento per superamento del periodo di comporto, essendo risultato che l’ O. è rimasto assente dal lavoro per più di 180 giorni nell’anno solare; 5) la deduzione della illegittimità del recesso per la inclusione, nel computo del periodo, anche dei giorni di assenza per infortunio sul lavoro, è stata effettuata solo con le note conclusive del giudizio di primo grado e ciò deve considerarsi irrituale, trattandosi non di un elemento che comporta una semplice diversità di qualificazione dei fatti di causa, ma un vero e proprio ampliamento del petitum, richiedente apposito approfondimento istruttorio; 6) d’altra parte, dai referti medici richiamati dal lavoratore e presenti in atti non emerge alcuna significativa annotazione da cui è possibile riferire l’assenza (e la patologia denunciata) ad un infortunio sul lavoro; 7) nè appaiono sufficienti, al riguardo, le generiche affermazioni di alcuni testi, anche perchè tra il riferito infortunio (che si assume essere avvenuto il 29 aprile 2004) e l’inizio del periodo di comporto (22 giugno 2004) è intercorso un notevole lasso di tempo, sicchè sarebbe stato onere del lavoratore dedurre e provare tempestivamente che l’assenza di cui alla certificazione medica del 22 giugno 2004 era da collegare, non ad una comune malattia, ma ad un infortunio sul lavoro subito.

3.- Il ricorso di O.G. domanda la cassazione della sentenza per due motivi; resiste, con controricorso, la SSC s.r.l. ******à Sviluppo Commerciale s.r.l..

4.- I motivi del ricorso principale possono essere così sintetizzati:

1) in relazione all’art. 360 cod. proc. civ., n. 3, violazione e/o falsa applicazione dell’art. 2103 cod. civ. e dell’art. 3 c.c.n.l. per i dipendenti di aziende del terziario della distribuzione e dei servizi; in relazione all’art. 360 cod. proc. civ., n. 5, omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio.

Si sostiene che la Corte d’appello abbia escluso il demansionamento esclusivamente sulla base delle deposizioni testimoniali, senza effettuare alcun raffronto tra le mansioni rientranti nella qualifica di inquadramento dell’ O. (3^ livello) e quelle in astratto previste per la qualifica inferiore (4^ livello). Tale omissione non consentirebbe alcun controllo sulla correttezza giuridica e logica della decisione perchè renderebbe apodittica l’affermazione secondo cui l’assegnazione del lavoratore al reparto gastronomia non ne avrebbe comportato alcun demansionamento. Infatti, dal suddetto raffronto emerge chiaramente che nell’ambito delle mansioni del 3^ livello – proprie dell’impiegato, in particolare del responsabile effettivo della gestione del reparto merci, svolte dal ricorrente – non rientrano quelle del commesso addetto al reparto gastronomia, assegnate all’ O. dopo l’aprile 2004.

2) In relazione all’art. 360 cod. proc. civ., n. 4, violazione e/o falsa applicazione degli artt. 414 e 437 cod. proc. civ.; in relazione all’art. 360 cod. proc. civ., n. 3, violazione e/o falsa applicazione dell’art. 93 c.c.n.l. di categoria e dell’art. 2697 cod. civ.; in relazione all’art. 360 cod. proc. civ., n. 5, omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio.

Dopo aver precisato di fare acquiescenza rispetto al capo della sentenza impugnata di rigetto del riconoscimento del mobbing, il ricorrente contesta la decisione della Corte d’appello in merito all’asserita illegittimità del licenziamento, irrogato per superamento del periodo di comporto.

Al riguardo si sostiene che, diversamente da quanto ritenuto dal Giudice di primo grado e dalla Corte d’appello, la deduzione della inclusione, nel computo dei giorni di assenza, anche dei 35 giorni conseguenti ad un infortunio sul lavoro (e, come tali, irrilevanti ai fini del comporto, in base all’art. 93 c.c.n.l.) era già presente nel ricorso introduttivo del giudizio e nelle note conclusive del giudizio di primo grado è stata solo specificata, senza che ciò abbia determinato alcun ampliamento del petitum, ma caso mai solo una diversa qualificazione dei fatti di causa.

In ogni caso, essendo l’infortunio un fatto dedotto nel ricorso introduttivo la Corte d’appello avrebbe dovuto esaminarlo, anche se proposto per la prima volta in appello, trattandosi di una mera difesa e non di una eccezione in senso proprio.

Inoltre, il ricorrente lamenta il travisamento delle prove documentali da parte della Corte territoriale, visto che la Corte ha ignorato che in atti erano presenti sia diversi certificati medici attestanti l’avvenuto infortunio sul lavoro sia un certificato dell’INAIL, ove si da espressamente atto dell’infortunio stesso.

Infine, il ricorrente sottolinea che la Corte catanzarese ha ignorato che, nella specie, era a carico del datore di lavoro la prova dell’avvenuto superamento del periodo di comporto a causa di malattia, mentre ciò non è accaduto.

5.- Il primo motivo del ricorso appare palesemente non fondato. In base a consolidati e condivisi orientamenti di questa Corte:

a) ai fini della verifica del legittimo esercizio dello ius variandi da parte del datore di lavoro deve essere valutata dal giudice di merito – con giudizio di fatto incensurabile in cassazione ove adeguatamente motivato – la omogeneità tra le mansioni successivamente attribuite e quelle di originaria appartenenza, sotto il profilo della loro equivalenza in concreto rispetto alla competenza richiesta, al livello professionale raggiunto ed alla utilizzazione del patrimonio professionale acquisito dal dipendente nella pregressa fase del rapporto e nella precedente attività svolta (Cass. 12 gennaio 2006, n. 425; Cass. SU 24 novembre 2006, n. 2503; Cass. 8 giugno 2009, n. 13173);

b) allorquando da parte di un lavoratore sia allegata una dequalificazione o venga dedotto un demansionamento riconducibili ad un inesatto adempimento dell’obbligo gravante sul datore di lavoro ai sensi dell’art. 2103 cod. civ. è su quest’ultimo che incombe l’onere di provare l’esatto adempimento del suo obbligo, o attraverso la prova della mancanza in concreto di qualsiasi dequalificazione o demansionamento, ovvero attraverso la prova che l’una o l’altro siano stati giustificati dal legittimo esercizio dei poteri imprenditoriali o disciplinari o, comunque, in base al principio generale risultante dall’art. 1218 cod. civ., da un’impossibilità della prestazione derivante da causa a lui non imputabile (Cass. 6 marzo 2006, n. 4766);

c) in tema di demansionamento e relativo onere probatorio, il lavoratore può reagire al potere direttivo che assume esercitato illegittimamente prospettando circostanze di fatto volte a dare fondamento alla denuncia e, quindi, con un onere di allegazione di elementi di fatto significativi dell’illegittimo esercizio, mentre il datore di lavoro, convenuto in giudizio, è tenuto a prendere posizione, in maniera precisa e non limitata ad una generica contestazione, circa i fatti posti dal lavoratore a fondamento della domanda (art. 416 c.p.c.) e può allegarne altri, indicativi, per converso, del legittimo esercizio del potere direttivo (Cass. SU 6 marzo 2009, n. 5454).

Nella specie risulta che la Corte territoriale si è attenuta ai suddetti principi ed ha accertato in modo adeguato – dandone congrua motivazione – la natura non demansionante dei compiti lavorativi attribuiti all’ O. nel reparto gastronomia, rispetto a quelli in precedenza svolti presso il reparto merci, appurando non solo che il livello retributivo è rimasto quello proprio della qualifica di appartenenza, ma anche che non sono emersi elementi probatori dai quali desumere che il lavoratore aveva svolto funzioni di responsabile effettivo della gestione del reparto merci, sicchè doveva escludersi una dequalificazione, salvo restando che lo spostamento del lavoratore è stato attuato nell’ambito di una movimentazione del personale riguardante una pluralità di dipendenti.

6.- Diversamente appare palesemente inammissibile il secondo motivo del ricorso.

L’argomentazione della Corte territoriale in ordine alla legittimità del licenziamento si basa principalmente sulla ritenuta inammissibilità della deduzione, effettuata dal lavoratore nelle note conclusive del giudizio di primo grado, dell’erronea inclusione, nel computo del periodo di comporto, anche di numerosi giorni di assenza dovuti ad un infortunio sul lavoro e, come tali, da non conteggiare ai suddetti fini in base all’art. 93 del contratto collettivo applicabile.

La Corte territoriale perviene alla suddetta conclusione sul rilievo che la suindicata deduzione rappresenterebbe una domanda nuova, come tale improponibile nelle note conclusive.

Tale assunto, in astratto, non è condivisibile in base agli orientamenti consolidati e condivisi di questa Corte secondo cui:

a) con riguardo alla disciplina del licenziamento per superamento del periodo di comporto per malattia, ove la contrattazione collettiva preveda la non computabilità dei giorni di assenza del lavoratore dovuta ad infortunio sul lavoro, grava sul datore di lavoro, che procede al licenziamento del lavoratore, l’onere di provare – in caso di contestazione – che i periodi di assenza si riferiscono ad episodi di malattia e non già ad infortunio sul lavoro (Cass. 16 febbraio 1989, n. 941);

b) la qualificazione dell’infermità del lavoratore, come infortunio sul lavoro, anzichè come malattia professionale, non preclude, in nessun caso, al giudice, in base al principio di corrispondenza tra chiesto e pronunciato, di conoscere e decidere la questione se le assenze del lavoratore, causate dalla stessa infermità, risultino comunque imputabili a responsabilità del datore di lavoro e, come tali, non siano computabili nel periodo di comporto, di cui all’art. 2110 cod. civ. (Cass. 30 agosto 2006, n. 18711).

6.1.- Invero, anche nel rito del lavoro, trova applicazione il principio di corrispondenza tra il chiesto e il pronunciato (imposto dall’art. 112 cod. proc. civ.) – cui fa riscontro, nel giudizio d’appello, il principio del tantum devolutimi quantum appellatimi (artt. 434, 437 cod. proc. civ.) – e, pertanto, mentre il giudice di primo grado non può pronunciare ultra petita, analogamente il giudizio d’appello deve avere ad oggetto la medesima controversia, decisa dalla sentenza di primo grado, però entro i limiti della devoluzione, quali risultano fissati dai motivi specifici che l’appellante ha l’onere di proporre con l’atto d’appello (ai sensi dell’art. 434 cod. proc. civ.), senza possibilità di integrazione nel successivo corso dello stesso giudizio di gravame (ai sensi dell’art. 437 cod. proc. civ.).

Tuttavia, sia il principio della corrispondenza tra il chiesto e il pronunciato sia il principio del tantum devolulum quantum appellatum non ostano a che il giudice renda la pronuncia richiesta in base ad una ricostruzione dei fatti autonoma rispetto a quella prospettata dalle parti, nonchè in base alla qualificazione giuridica dei fatti medesimi e, in genere, all’applicazione di una norma giuridica, diversa da quella invocata dall’istante, ma implicano – secondo la costante giurisprudenza di questa Corte (vedi, per tutte: Cass. 30 agosto 2006, n. 18711; Cass. 11 luglio 2007, n. 15496; Cass. 25 settembre 2009, n. 26052) – il divieto per il giudice di attribuire alla parte un bene della vita diverso da quello richiesto (petitum mediato) oppure di emettere una qualsiasi pronuncia su domanda nuova quanto a causa petendi, non fondata, cioè sui fatti ritualmente dedotti o, comunque, acquisiti al processo – anche se ricostruiti o giuridicamente qualificati dal giudice in modo diverso rispetto alle prospettazioni di parte, ma fondata su elementi di fatto, che non siano ritualmente acquisiti come oggetto del contraddittorio.

Coerentemente, il principio secondo cui l’interpretazione di qualsiasi domanda, eccezione o deduzione di parte da luogo ad un giudizio di fatto, riservato al giudice del merito non trova applicazione – secondo la consolidata giurisprudenza di questa Corte – quando, come nella specie, si assuma che l’accertamento del giudice di merito, abbia determinato un vizio – che sia riconducibile alla violazione del principio di corrispondenza tra il chiesto e il pronunciato oppure del principio del tantum devolutimi quantum appellatimi – trattandosi, in tale caso, della denuncia di un error in procedendo, in relazione al quale la Corte di cassazione è giudice anche del fatto ed ha, quindi, il potere-dovere di procedere direttamente all’esame ed all’interpretazione degli atti processuali.

6.2.- Va però ricordato che, in base ad un indirizzo altrettanto consolidato e condiviso di questa Corte, l’esercizio del potere di diretto esame degli atti del giudizio di merito, riconosciuto al giudice di legittimità ove sia denunciato un error in procedendo, presuppone comunque l’ammissibilità del motivo di censura, cosicchè, laddove sia stata denunciata la falsa applicazione del principio tantum devolutum quantum appellatimi, ai sensi dell’art. 437 cod. proc. civ., è necessario, in ottemperanza del principio di specificità e autosufficienza del ricorso per cassazione, che deve consentire al giudice di legittimità di effettuare, senza compiere generali verifiche degli atti, il controllo demandatogli dal corretto svolgersi dell’iter processuale, che nel ricorso stesso siano riportati, nei loro esatti termini, e non genericamente ovvero per riassunto del loro contenuto, i passi del ricorso introduttivo con i quali la questione controversa è stata dedotta in giudizio e quelli del ricorso d’appello con cui le censure ritenute inammissibili per la loro novità sono state formulate. (Cass. 10 novembre 2011, n. 23420; Cass. 14 gennaio 2010, n. 488).

In linea generale, del resto, èjus reception che il ricorrente che, in sede di legittimità, denunci il difetto di motivazione su un’istanza di ammissione di un mezzo istruttorio o sulla valutazione di un documento o di risultanze probatorie o processuali, ha l’onere di indicare specificamente le circostanze oggetto della prova o il contenuto del documento trascurato od erroneamente interpretato dal giudice di merito, provvedendo alla loro trascrizione, al fine di consentire al giudice di legittimità il controllo della decisività dei fatti da provare, e, quindi, delle prove stesse, che, per il principio dell’autosufficienza del ricorso per cassazione, la Corte deve essere in grado di compiere sulla base delle deduzioni contenute nell’atto, alle cui lacune non è consentito sopperire con indagini integrative (Cass. 30 luglio 2010, n. 17915).

Nella specie, le suddette prescrizioni non risultano essere state rispettate in quanto nel ricorso non sono stati riportati i passi salienti degli atti (comprese le prove documentali asseritamente travisate) sulla cui erronea valutazione si fonda il secondo motivo del ricorso”.

che, quindi, il relatore ha proposto la trattazione del ricorso in camera di consiglio, in applicazione degli artt. 376, 380-bis e 375 cod. proc. civ., per esservi rigettato per quanto detto in precedenza.

Considerato che il Collegio condivide la proposta di definizione contenuta nella relazione ex art. 380 bis cod. proc. civ.;

che, pertanto, il ricorso deve essere dichiarato rigettato perchè infondato;

che le spese del presente giudizio di cassazione, liquidate nella misura indicata in dispositivo, seguono la soccombenza.

 

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento, in favore della parte costituita, delle spese del presente giudizio di cassazione, liquidate in Euro 40, 00 (quaranta/00) per esborsi, Euro 3000,00 (tremila/00) per compensi professionali, oltre accessori come per legge. Nulla spese per la parte rimasta intimata.

Redazione