Legittime le sanzioni a carico dei vertici dell’istituto di credito se violano le prescrizioni impartite dall’autorità di vigilanza (Cass. n. 15019/2013)

Redazione 14/06/13
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Svolgimento del processo

La Corte d’appello di Roma, con decreto reso pubblico mediante deposito in cancelleria in data 26 giugno 2006, ha rigettato l’opposizione proposta da bnl – BANCA NAZIONALE DEL LAVORO s.p.a., nonchè da A.L., + altri omessi avverso il decreto emesso dal Ministero dell’Economia e delle Finanze in data 4 agosto 2005, con cui era stato ingiunto, in adesione alla proposta della Banca d’Italia in data 7 giugno 2005, il pagamento di una sanzione amministrativa pecuniaria per violazione di norme legislative e regolamentari in materia di organizzazione aziendale. In particolare, agli opponenti erano state contestate le violazioni:
a) del D.Lgs. n. 385 del 1993, art. 53, comma 1, lett. d), e delle relative istruzioni di vigilanza, per carenze nell’organizzazione e nei controlli interni, da parte del consiglio di amministrazione e del direttore;
b) del D.Lgs. n. 385 del 1993, art. 53, comma 1, lett. d), e delle relative istruzioni di vigilanza, per carenze nei controlli interni, da parte del collegio sindacale;
c) del D.Lgs. n. 385 del 1993, art. 51 e delle relative istruzioni di vigilanza, per errate segnalazioni all’Organo di vigilanza da parte del consiglio di amministrazione, del collegio sindacale e del direttore;
d) del D.Lgs. n. 385 del 1993, art. 53, comma 1, lett. d), e delle relative istruzioni di vigilanza, per carenze nei processi di erogazione del credito da parte del consiglio di amministrazione e del direttore;
e) del D.Lgs. n. 385 del 1993, art. 116 e delle relative istruzioni di vigilanza, per inosservanza delle disposizioni in materia di trasparenza da parte del direttore;
f) del D.Lgs. n. 385 del 1993, artt. 51 e 53, comma 1, lett. b) e d), e delle relative istruzioni di vigilanza e centrale dei rischi, per errate segnalazioni alla centrale dei rischi da parte del direttore. A fronte di tali contestazioni, la Banca d’Italia proponeva l’applicazione di sanzioni amministrative pecuniarie, salvo che per le violazioni ascritte al direttore.

La Corte d’appello ha innanzitutto rigettato il primo motivo di opposizione escludendo che, nella specie, la contestazione fosse stata formulata in violazione del termine di cui alla L. n. 689 del 1981, artt. 14 e 18 e in violazione del principio del giusto procedimento e della L. n. 241 del 1990. Premesso che il periodo di gestione esaminato decorreva dal 1999 e che gli accertamenti avevano interessato numerosi e complessi aspetti dell’attività bancaria, la contestazione doveva ritenersi tempestivamente formulata rispetto al complesso degli accertamenti svolti.

La Corte capitolina ha altresì rigettato il secondo motivo di opposizione, escludendo che al procedimento sanzionatorio fosse applicabile, come invece preteso dagli opponenti, il termine di cui alla L. n. 241 del 1990, art. 2.

Ha quindi ritenuto infondato anche il terzo motivo sul rilievo che nel procedimento sanzionatorio delineato dal D.Lgs. n. 385 del 1993 non è affatto preclusa la possibilità che il provvedimento sanzionatorio sia motivato per relationem ad altri atti del procedimento, ed escludendo poi che la fase procedimentale che si svolge dinnanzi al Ministero sia soggetta all’applicazione della L. n. 241 del 1990, art. 7, e ciò sul rilievo che il diritto di difesa degli interessati è ampiamente assicurato nella fase istruttoria dinnanzi alla Banca d’Italia.

Ed ancora, la Corte d’appello ha escluso la fondatezza del motivo con il quale veniva eccepita la prescrizione dell’illecito contestato sub a), rilevando che i comportamenti oggetto di contestazione avevano avuto carattere continuativo e ripetuto e soprattutto riguardavano le politiche bancarie seguite fino alla data di conclusione degli accertamenti.

La Corte d’appello ha anche escluso la fondatezza delle cen-sure con le quali veniva denunciata la violazione dei principi di legalità, colpevolezza, determinatezza, tipicità e conoscibilità delle fattispecie sanzionatorie nonchè la violazione del, diritto di difesa, sotto il profilo della impossibilità di ricondurre le condotte contestate alle generiche previsioni normative asseritamente violate. In proposito, la Corte d’appello ha rilevato che le prescrizioni violate erano state espressamente riportate sia nelle lettere di contestazione, sia nella proposta della Banca d’Italia, sia nel decreto sanzionatorio: tutti atti nei quali erano state dettagliatamente descritte le condotte irregolari riscontrate e indicate le disposizioni violate. La proposta della Banca d’Italia illustrava poi le difese sostenute dagli interessati, i quali quindi avevano potuto pienamente comprendere la portata delle contestazioni loro rivolte e la valutazione dell’Autorità proponente. D’altra parte, ha osservato la Corte d’appello, non era seriamente ipotizzabile che amministratori, componenti del collegio sindacale e il direttore generale di una grande Banca quale la BNL, dotati dei necessari requisiti di esperienza e professionalità, non fossero in grado di comprendere il significato delle prescrizioni impartite dall’Autorità di vigilanza, la cui violazione aveva formato oggetto di contestazione.

Nel merito, la Corte d’appello ha rilevato che gli opponenti non avevano negato la sussistenza delle manchevolezze e delle carenze negli apparati organizzativi e di controllo interno della BNL, come accertate dagli ispettori della Banca d’Italia, e che le deduzioni svolte in sede di opposizione altro non erano che quelle già svolte nel corso del procedimento sanzionatorio. In ogni caso, l’analiticità dell’esame condotto dalla Banca d’Italia nella proposta sanzionatoria e il merito delle vantazioni in quella sede formulate valevano ad escludere la fondatezza dei rilievi svolti dagli opponenti. In particolare, la Corte d’appello ha escluso che potesse essere accolta la deduzione secondo cui gli ispettori avrebbero omesso di tenere nel debito conto le molteplici iniziative adottate dal management della Banca per porre rimedio a criticità risalenti nel tempo, atteso che le dette iniziative erano comunque intervenute tardivamente, nel corso dell’ispezione e sul finire della stessa, e non risultava che avessero prodotto risultati positivi.

Con particolare riferimento alla posizione dei componenti del collegio sindacale, la Corte d’appello ha ritenuto che non potesse essere condivisa la deduzione degli opponenti, secondo cui i controlli contabili sarebbero stati di competenza della società di revisione, essendo evidente che il compito del collegio sindacale di controllo sulla adeguatezza dell’assetto organizzativo, amministrativo e contabile dell’istituto bancario non poteva avvenire altro che in maniera autonoma e svincolata dalle iniziative e dalle attività di altri organi dell’istituto e a maggior ragione della società di revisione.

Quanto, infine, alla posizione del direttore generale, la Corte d’appello ha rilevato che della brevità dell’incarico il Ministero aveva tenuto conto, atteso che non era stata inflitta la sanzione per carenze nell’organizzazione e nei controlli, mentre, con riferimento al residuo illecito per il quale la sanzione era stata applicata – errata segnalazione di posizioni ad andamento anomalo -, la natura istantanea dell’illecito stesso rendeva irrilevante la durata dell’incarico.

Avverso il decreto della Corte d’appello di Roma hanno proposto ricorso BNL – BANCA NAZIONALE DEL LAVORO s.p.a., nonchè *****, + altri omessi ; hanno resistito, con distinti controricorsi, la Banca d’Italia e il Ministero dell’economia e delle finanze.

I ricorrenti hanno depositato memoria ex art. 378 cod. proc. civ..

Motivi della decisione

1. Con il primo motivo i ricorrenti denunciano violazione e falsa applicazione della L. n. 689 del 1981, artt. 14 e 18, del principio del giusto procedimento e della L. n. 241 del 1990, nonchè omessa e insufficiente motivazione su un punto decisivo della controversia.

Premesso che gli accertamenti ispettivi erano iniziati il 1 dicembre 2003 e che si erano conclusi il 29 ottobre 2004, i ricorrenti deducono che il rilevante lasso di tempo intercorso tra l’inizio e la fine degli accertamento non trovava giustificazione nella natura e nella complessità delle indagini effettivamente svolte, sicchè risulterebbe violata la disposizione della L. n. 689 del 1981, art. 14, a norma della quale, nella interpretazione offerta dalla giurisprudenza di legittimità, il termine di novanta giorni inizia a decorrere dal momento in cui è compiuta, o si sarebbe dovuta compiere, l’attività amministrativa intesa a verificare l’esistenza dell’infrazione. La motivazione del decreto impugnato sarebbe poi insufficiente e inadeguata rispetto alle deduzioni svolte nell’atto di opposizione e si risolverebbe nella affermazione non della complessità degli accertamenti, ma in quella dell’organizzazione della banca sottoposta ad ispezione.

A conclusione del motivo i ricorrenti formulano il seguente quesito di diritto: “Dica la Suprema Corte – fermo restando quanto dedotto in punto di omessa e/o insufficiente motivazione – se nel contesto di un procedimento sanzionatorio condotto dalla Banca d’Italia l’eccessiva durata degli accertamenti ispettivi in relazione alla loro effettiva complessità determini una violazione e falsa applicazione della L. n. 689 del 1981, artt. 14 e 18 e, per l’effetto, l’estinzione della pretesa sanzionatoria”.

1.1. Il motivo è infondato.

La L. n. 689 del 1981, art. 14, dopo aver previsto al primo comma che “la violazione, quando è possibile, deve essere contestata immediatamente tanto al trasgressore quanto alla persona che sia obbligata in solido al pagamento della somma dovuta per la violazione stessa”, stabilisce al secondo comma che, “se non è avvenuta la contestazione immediata per tutte o per alcune delle persone indicate nel comma precedente, gli estremi della violazione debbono essere notificati agli interessati residenti nel territorio della Repubblica entro il termine di novanta giorni e a quelli residenti all’estero entro il termine di trecentosessanta giorni dall’accertamento”.

Orbene, i ricorrenti erroneamente denunciano la violazione di tale disposizione, dal momento che la censura che essi introducono attiene in realtà alla durata dell’accertamento ispettivo, per la quale dalla citata disposizione non può desumersi la previsione di un termine quale condizione di legittimità dell’accertamento.

In ogni caso, deve rilevarsi che, “in tema di sanzioni amministrative, il giudice dell’opposizione, dinanzi al quale sia stata eccepita la tardività della notificazione degli estremi della violazione, nell’individuare la data dell’esito del procedimento di accertamento di più violazioni connesse dalla quale decorre – ai sensi della L. n. 689 del 1981, art. 14, comma 2, – il termine di novanta o trecentosessanta giorni, deve valutare il complesso degli accertamenti compiuti dall’amministrazione procedente e la congruità del tempo complessivamente impiegato in relazione alla complessità degli accertamenti compiuti, anche in vista dell’emissione di un’unica ordinanza ingiunzione per violazioni connesse, ma non può sostituirsi alla stessa amministrazione nel valutare l’opportunità di atti istruttori collegati ad altri e compiuti senza apprezzabile intervallo temporale” (Cass. n. 16642 del 2005).

Dalla normativa applicabile nel caso di specie risulta, chiaramente ed univocamente, che il termine prescritto – per la notifica degli estremi della violazione, che non sia stata contestata immediatamente – decorre “dall’accertamento” e che questo non coincide (come si ricava agevolmente dalla L. 24 novembre 1981, n. 689, art. 13) nè con la data di consumazione della violazione (che, segna, invece, il dies a quo della prescrizione del credito sanzionatorio ai sensi dell’art. 28 della stessa legge), nè con la mera percezione del fatto, ma – secondo la giurisprudenza di questa Corte (Cass., S.U., n. 5395 del 2007) – con il compimento di tutte le indagini volte ad acquisire la piena conoscenza dei fatti e della determinazione della sanzione – che siano ritenute necessarie – da parte degli “organi addetti al controllo sull’osservanza delle disposizioni per la cui violazione è prevista la sanzione amministrativa” -inflitta nel caso concreto – oppure degli ufficiali e degli a-genti di polizia giudiziaria.

La valutazione circa la tempestività della notifica degli estremi della violazione – in relazione alì”accertamento” dell’organo addetto al controllo – è riservata al giudice di merito (vedi, per tutte, Cass. n. 7710 del 2004) e, come tale, può essere sindacata, in sede di legittimità, soltanto per vizio di motivazione (art. 360 c.p.c., n. 5).

Orbene, nel caso di specie, gli accertamenti ispettivi si sono conclusi il 29 ottobre 2004 e le violazioni sono state contestate il 21 gennaio 2005, e cioè entro il termine di novanta giorni decorrente dalla conclusione degli accertamenti. Quanto poi alla durata di tali accertamenti e alla congruità della valutazione in ordine al momento conclusivo degli stessi, la Corte d’appello ha adeguatamente dato conto delle ragioni che la hanno indotta a ritenere non illegittima la protrazione della ispezione oltre il termine di novanta giorni, tenuto conto delle grandi dimensioni dell’istituto di credito, della complessità degli accertamenti e del rilevante periodo sottoposto ad indagine.

2. Con il secondo motivo i ricorrenti deducono violazione e falsa applicazione del D.M. Tesoro 23 marzo 1992, n. 304, in relazione alla L. n. 241 del 1990 e al D.P.R. n. 385 del 1993, art. 145, violazione del principio del giusto procedimento e dei diritti procedimentali dell’opponente nell’ambito del procedimento sanzionatorio in relazione alla L. n. 241 del 1990, e difetto assoluto di motivazione.

Premesso che il citato d.m. individuava il termine di trenta giorni per l’adozione del provvedimento ministeriale, i ricorrenti ritengono che le ragioni addotte nel decreto impugnato per escludere la denunciata violazione di legge siano del tutto insufficienti ed erronee. Formulano a conclusione del motivo il seguente quesito di diritto: “Dica la Suprema Corte: (1) se la violazione di un termine fissato in via regolamentare o legislativa per l’irrogazione di una sanzione amministrativa comporti l’invalidità del provvedimento tardivamente emanato; (2) fermo restando quanto dedotto in termini di omessa e insufficiente motivazione se in presenza di un termine procedimentale fissato in via regolamentare dall’amministrazione ai sensi della L. n. 241 del 1990 quest’ultima determinazione debba ritenersi abrogata dalla successiva disposizione di legge recante la fissazione di un termie più ampio; (3) se nell’ambito dei procedimenti sanzionatori l’applicazione del principio del tempus regit factum comporta l’applicabilità delle norme procedimentali vigenti al momento di consumazione del comportamento illecito”.

2.1. Il motivo è infondato.

Le Sezioni Unite di questa Corte hanno avuto modo di chiarire che la previsione dei termini di cui alla L. n. 241 del 1990, art. 2 non è compatibile con le disposizioni sul procedimento di irrogazione delle sanzioni amministrative dettate dalla L. 24 novembre 1981, n. 689 (Cass. n. 9591 del 2006).

Di recente si è poi affermato che in tema di sanzioni amministrative per violazione delle disposizioni in materia di intermediazione finanziaria, per effetto dell’entrata in vigore della L. 7 agosto 1990, n. 241, art. 21-octies, comma 2, gli eventuali vizi del procedimento amministrativo previsto dal D.Lgs. 24 febbraio 1998, n. 58, art. 195, che si svolge innanzi alla Commissione nazionale per le società e la borsa o al Ministero, non sono rilevanti, in ragione tanto della natura vincolata del provvedimento sanzionatorio, quanto della immodificabilità del suo contenuto; tale disposizione, introdotta dalla L. 11 febbraio 2005, n. 15, art. 14, ha carattere processuale, ed è pertanto applicabile con effetto retroattivo anche ai giudizi di opposizione in corso, ancorchè promossi in epoca successiva alla sua emanazione (Cass., S.U., n. 20929 del 2009, nella quale si è anche precisato che la delicata questione del mancato rispetto dei termini di cui alla L. n. 241 del 1990, art. 2, oggetto di contrasto nella giurisprudenza di legittimità, deve essere risolta – al di là ed a prescindere dalla questione della natura perentoria, ordinatoria, acceleratoria ovvero sollecitatoria del termine in parola – sulla base di quanto disposto dall’art. 21- octies, inserito nel corpus normativo della L. n. 241 del 1990, così come introdotto dalla L. n. 15 del 2005).

Per effetto di tale innovativa disposizione, gli eventuali vizi del procedimento non sono, nella specie, rilevanti, in quanto risulta palese tanto la natura vincolata del provvedimento impugnato quanto la immodificabilità del relativo contenuto (cfr. Cass. n. 24784 del 2010, anche sulla portata retroattiva dello ius superveniens, e Cass. n. 7777 del 2011).

3. Con il terzo motivo i ricorrenti lamentano violazione e falsa applicazione della legge n. 241 del 1990 in relazione all’art. 145 T.U.B. e al D.M. Tesoro n. 304 del 1992 e successive modificazioni;

omessa e/o insufficiente motivazione su punti decisivi della controversia inerenti (1) il difetto di motivazione del decreto ministeriale sanzionatorio in relazione alla L. n. 241 del 1990 e alla L. n. 689 del 1981, art. 18, comma 2, e (2) la violazione del principio del giusto procedimento e dei diritti procedimentali dell’opponente nell’ambito del procedimento sanzionatorio. I ricorrenti si dolgono che la Corte d’appello abbia ritenuto ammissibile una motivazione per relationem di secondo grado del decreto ministeriale con il quale è stata applicata la sanzione e del fatto che non sia stata ravvisata la illegittima preclusione, per gli interessati, di svolgere le proprie difese nella fase procedimentale che si è svolta dinnanzi al Ministero dell’economia e delle finanze.

A conclusione del motivo i ricorrenti chiedono alla Corte di affermare: “(1) se il provvedimento sanzionatorio adottato dal Ministero dell’economia e finanze ex art. 145 TUB debba essere autonomamente motivato anche succintamente ovvero sia da considerarsi legittimamente motivato per relationem e, in questo caso, (2) se sia consentita la motivazione per relationem anche agli atti e provvedimenti richiamati solo nell’atto cui espressamente rinvia il provvedimento motivato per relationem; (3) se nel procedimento sanzionatorio ex art. 145 TUB debba essere consentita la partecipazione del privato anche alla fase procedimentale finale di competenza ministeriale se, in mancanza, il provvedimento sanzionatorio finale sia da considerarsi illegittimo”.

3.1. Il motivo è infondato.

Si deve rilevare, in via generale, che è ammissibile la motivazione per relationem e che, nella specie, la Corte d’appello ha accertato che il decreto sanzionatorio conteneva un rinvio ad altri atti del procedimento pienamente conosciuti dagli opponenti, i quali in sede amministrativa avevano potuto compiutamente spiegare le proprie difese.

Quanto alla motivazione si deve comunque rilevare che “in tema di opposizione ad ordinanza ingiunzione per l’irrogazione di sanzioni amministrative – emessa in esito al ricorso facoltativo al Prefetto ai sensi del D.Lgs. 30 aprile 1992, n. 285, art. 204, ovvero a conclusione del procedimento amministrativo L. 24 novembre 1981, n. 689, ex art. 18 – i vizi di motivazione in ordine alle difese presentate dall’interessato in sede amministrativa non comportano la nullità del provvedimento, e quindi l’insussistenza del diritto di credito derivante dalla violazione commessa, in quanto il giudizio di opposizione non ha ad oggetto l’atto, ma il rapporto, con conseguente cognizione piena del giudice, che potrà (e dovrà) valutare le deduzioni difensive proposte in sede amministrativa (eventualmente non esaminate o non motivatamente respinte), in quanto riproposte nei motivi di opposizione, decidendo su di esse con pienezza di poteri, sia che le stesse investano questioni di diritto che di fatto” (Cass., S.U., n. 1786 del 2010).

3.2. Quanto poi alla doglianza concernente la mancata partecipazione degli interessati alla fase del procedimento svoltosi dinnanzi al Ministero dell’economia e delle finanze, trova applicazione il principio per cui “il procedimento diretto all’irrogazione di sanzioni per infrazioni commesse dai consiglieri di amministrazione degli istituti di credito, previsto dal D.Lgs. 1 settembre 1993, n. 385, art. 145, non prescrive altro, prima dell’adesione – con decreto motivato – del Ministro del Tesoro alla proposta di applicazione della sanzione avanzata dalla Banca d’Italia, che la contestazione, da parte della Banca, dell’addebito mosso e la valutazione delle eventuali controdeduzioni dell’interessato, senza alcuna altra interlocuzione di quest’ultimo prima del provvedimento ministeriale.

Nè il difetto di previsione d’una ulteriore forma di difesa può essere colmata invocando una diretta applicazione dei precetti costituzionali riguardanti il diritto di difesa (art. 24 Cost.) e il giusto processo (art. 111 Cost.), atteso che tali norme riguardano espressamente e solo il giudizio, ossia il procedimento giurisdizionale che si svolge avanti al giudice, e non il procedimento amministrativo, ancorchè finalizzato all’emanazione di provvedimenti incidenti su diritti soggettivi. Nemmeno tale mancata (completa) equiparazione del procedimento amministrativo a quello giurisdizionale viola la Costituzione. Siffatta interpretazione, poi, non si pone in contrasto con la L. 7 agosto 1990, n. 241, art. 8, alla stregua del quale l’amministrazione è tenuta a dare notizia dell’avvio del procedimento mediante comunicazione personale all’interessato, essendo tale precetto di legge rispettato con la comunicazione fatta dalla Banca d’Italia” (Cass. n. 23782 del 2004; in senso sostanzialmente conforme, Cass. n. 6703 del 2003).

Le censure svolte dai ricorrenti non appaiono tali da indurre a conclusioni differenti.

4. Con il quarto motivo i ricorrenti denunciano violazione e falsa applicazione della L. n. 689 del 1981, art. 28 e il vizio di omessa motivazione, dolendosi del fatto che la Corte d’appello non abbia dichiarato estinta per prescrizione quinquennale la pretesa sanzionatoria dell’amministrazione relativa a fatti e condotte anteriori al 21 gennaio 2000. Chiedono quindi alla Corte di affermare “se ai sensi della L. n. 689 del 1981, art. 28 siano legittimamente sanzionabili condotte tenute precedentemente ai cinque anni dalla contestazione delle violazioni”.

4.1. Il motivo è infondato. Il fatto che alcune delle contestazioni si riferissero alla gestione della banca a far data dal 1999 non comporta che l’accertamento dovesse essere ritenuto precluso, una volta che la medesima condotta si sia protratta per gli anni successivi. In sostanza, l’applicazione della sanzione è avvenuta con riferimento alla condotta complessivamente valutata e certamente non prescritta alla data di applicazione della sanzione.

5. Con il quinto motivo i ricorrenti lamentano violazione e falsa applicazione del principio di legalità delle norme che configurano illeciti amministrativi (L. n. 689 del 1981, art. 1; artt. 3, 25 e 97 Cost.); violazione del principio di legalità, determinatezza e tipicità, conoscibilità delle fattispecie sanzionatorie (anche amministrative), e violazione del diritto di difesa, nonchè carenza e insufficienza di motivazione sul punto. I ricorrenti ricordano che già in sede endoprocedimentale avevano formulato censure in ordine alla genericità delle disposizioni asseritamente violate e alla genericità degli addebiti e dei criteri di imputazione degli addebiti a ciascuno degli incolpati. Le norme primarie richiamate nelle contestazioni, invero, non contengono alcuno specifico precetto, limitandosi, l’art. 53, comma 1, lett. d), del TUB a disporre che la Banca d’Italia emani disposizioni generali e particolari aventi ad oggetto l’organizzazione amministrativa e contabile e i controlli interni, e l’art. 51 a fissare la competenza della Banca d’Italia ad emanare norme regolamentari in materia di modalità e di termini di invio delle segnalazioni di vigilanza. La necessaria integrazione di tali disposizioni era poi effettuata mediante la indicazione di interi capitoli delle Istruzioni di vigilanza per le banche, e quindi in un modo di per sè inidoneo ad offrire la indicazione di uno specifico precetto violato. In particolare, poi, il capitolo oggetto di richiamo si limita a prevedere criteri e raccomandazioni di massima, il che rende le indicazioni in esso contenute prive di quella prescrittivita necessaria ad enucleare un precetto. Orbene, rilevano i ricorrenti, tali specifiche censure non sarebbero state in alcun modo puntualmente esaminate e considerate dalla Corte d’appello, la quale ha invece ritenuto sufficiente e adeguata la indicazione in blocco delle disposizione che si assumono violate. A conclusione del motivo i ricorrenti chiedono a questa Corte di affermare “se nel procedimento sanzionatorio previsto dagli artt. 144 e 145 TUB deve ritenersi necessaria a carico dell’autorità procedente, sin dalla contestazione degli addebiti, e nei successivi stadi del procedimento (proposta di sanzioni, decreto irrogante la sanzione) la specifica individuazione della norma delle Istruzioni di Vigilanza asseritamente violata dall’esponente aziendale, o se deve ritenersi sufficiente a tal fine un richiamo “in blocco” ad interi capitoli delle Istruzioni di Vigilanza”.

5.1. Il motivo è infondato.

La Corte d’appello ha dato atto che le prescrizioni violate erano espressamente riportate sia nelle lettere di contestazione, sia nella proposta della Banca d’Italia, sia nel decreto sanzionatorio. In proposito, ha osservato la Corte d’appello, nei richiamati atti erano dettagliatamente descritte le condotte irregolari riscontrate, poste in relazione alle disposizioni violate; e in particolare, nelle lettere di contestazione l’indicazione delle norme violate era accompagnata dalla analitica descrizione dei fatti addebitati, distinti con riferimento ai due gruppi, quello degli amministratori e quello dei componenti del collegio sindacale, corrispondenti alle violazioni delle relative norme di vigilanza, espressamente indicate.

Quanto ai fatti contestati, poi, gli stessi erano individuati mediante riferimento alle contestazioni formulate nel rapporto ispettivo.

Trattasi di accertamento in fatto, adeguatamente e logicamente motivato, rispetto al quale le censure dei ricorrenti si appalesano generiche; il quesito di diritto, poi, non appare idoneamente formulato, atteso che lo stesso muove da una premessa – quella che la individuazione delle norme violate non sarebbe stata specifica – che non corrisponde all’accertamento in fatto compiuto dalla Corte d’appello.

6. Con il sesto motivo i ricorrenti denunciano violazione e falsa applicazione del principio di legalità delle norme che configurano illeciti amministrativi (L. n. 689 del 1981, art. 1; artt. 3, 25 e 97 Cost.; art. 144 TUB); violazione del principio di legalità, determinatezza e tipicità, conoscibilità delle fattispecie sanzionatorie (anche amministrative), violazione del principio di colpevolezza in tema di illeciti amministrativi e del diritto di difesa, nonchè carenza e insufficienza di motivazione sul punto.

I ricorrenti si dolgono che la Corte d’appello non abbia rilevato che nelle contestazioni loro rivolte non risultavano neanche descritte puntualmente le condotte a ciascuno di essi addebitate, risolvendosi le contestazioni stesse in generiche valutazioni circa la inidoneità e inadeguatezza dell’attività di gestione rispetto al conseguimento di determinati obiettivi, senza alcuna indicazione di quale fosse l’attività di gestione adeguata che sarebbe stata immune da rilievi.

In sostanza, le costatazioni ispettive erano formulate per giudizi anzichè per descrizione di infrazioni e ciò spiegherebbe la mancata individuazione, da parte della Banca d’Italia, delle specifiche norme che sarebbero state violate dagli esponenti aziendali. La mancata indicazione delle specifiche condotte tenute e di quelle che avrebbero dovuto essere tenute dagli esponenti aziendali ha poi finito per far gravare su questi ultimi le criticità risalenti al passato al di là delle iniziative da essi in concreto assunte per superarle, dando cosi ingresso ad una sorta di responsabilità oggettiva, in violazione del precetto di cui alla L. n. 689 del 1981, art. 3.

A conclusione del motivo i ricorrenti formulano il seguente quesito di diritto: “Dica la Suprema Corte se nel procedimento sanzionatorio previsto dagli artt. 144 e 145 TUB deve ritenersi necessaria a carico dell’autorità procedente, sin dalla contestazione degli addebiti, e nei successivi stadi del procedimento (proposta di sanzioni, decreto irrogante la sanzione) la specifica individuazione di condotte riferibili agli esponenti aziendali ed a questi ultimi imputabili a titolo di dolo o di colpa, o se è consentito a tal fine formulare giudizi di valore di inidoneità o di insufficienza delle politiche aziendali con riferimento al raggiungimento di obiettivi non prescritti da alcuna norma”.

6.1. Il motivo è infondato.

La Corte d’appello ha escluso la sussistenza della denunciata indeterminatezza, rilevando che la descrizione delle condotte sanzionate che compare sia nelle lettere di contestazione, sia nella proposta della Banca d’Italia, sia nel decreto ministeriale (carenza nell’organizzazione amministrativa e contabile, errate segnalazioni all’organo di vigilanza, carenze nei processi di credito) era specificamente riferita a fattispecie corrispondenti non solo a diverse norme del TUB, espressamente citate negli richiamati atti, ma anche nelle istruzioni di vigilanza, sicchè ben poteva riscontarsi, anche nelle disposizioni secondarie, le regole violate. A tale rilevazione la Corte d’appello ha aggiunto le seguenti considerazioni: non è seriamente ipotizzabile che amministratori, componenti del collegio sindacale e direttore generale di una grande banca quale la BNL, dotati evidentemente dei necessari requisiti di esperienza e professionalità, non fossero in grado di comprendere il significato delle prescrizioni impartite dalle istruzioni di vigilanza, la cui violazione aveva comportato l’irrogazione delle sanzioni opposte; che gli addebiti fossero ben comprensibili era reso evidente dal fatto che i soggetti interessati avevano avuto modo di svolgere analitiche difese, compatibili solo con la adeguata conoscenza che essi avevano degli addebiti contestati, sia dal punto di vista dei fatti addebitati, sia da quello della indicazione delle disposizioni violate.

Nè può essere sottovalutato il rilievo che, secondo la Corte d’appello, gli opponenti non avevano contestato la sussistenza delle manchevolezze e carenze negli apparati organizzativi e di controllo interno della BNL, come accertate dagli ispettori della Banca d’Italia e poste a fondamento del provvedimento opposto.

Con specifico riferimento alla sussistenza dell’elemento soggettivo, la Corte d’appello ha poi rilevato che le deduzioni svolte in sede di opposizione sul punto della asserita esistenza di cause di giustificazione o circa la non imputabilità delle condotte contestate erano ripetitive di quelle già fatte valere in sede di controdeduzioni presentate nel corso della procedura sanzionatoria, e quindi inidonee ad introdurre effettive ragioni di impugnazione del provvedimento sanzionatorio.

D’altra parte, non può non ricordarsi che “in tema di sanzioni amministrative per violazione delle disposizioni in materia di intermediazione finanziaria, la complessa articolazione della struttura organizzativa della banca non può comportare l’esclusione od anche il semplice affievolimento del potere-dovere di controllo riconducibile a ciascuno dei componenti del collegio sindacale, i quali, in caso di accertate carenze delle procedure aziendali predisposte per la prestazione del servizio di negoziazione, sono sanzionabili a titolo di concorso omissivo quoad functionem, gravando sui sindaci, da un lato, l’obbligo di vigilanza – in funzione non soltanto della salvaguardia degli interessi degli azionisti nei confronti di atti di abuso di gestione da parte degli amministratori, ma anche del controllo del corretto operato della banca intermediatrice, secondo parametri procedimentali dettati dalla normativa regolamentare Consob ed a garanzia degli investitori – e, dall’altro lato, l’obbligo legale di denuncia immediata alla Banca d’Italia e alla Consob, ai sensi del D.Lgs. 24 febbraio 1998, n. 58, art. 8, delle violazioni delle norme dettate in tema di intermediazione mobiliare” (Cass., S.U., n. 20934 del 2009).

Da ultimo, non può non rilevarsi che il quesito di diritto, oltre a non compendiare il complesso delle argomentazioni sviluppate nel corpo del motivo, muove ancora una volta da una premessa in fatto – quella che nel corso del procedimento non si sarebbe avuta la specifica individuazione di condotte riferibili agli esponenti aziendali e a questi ultimi imputabili a titolo di dolo o di colpa – che la Corte d’appello ha escluso sulla base di una motivazione coerente e immune da vizi logico – giuridici.

7. Con il settimo motivo i ricorrenti deducono la violazione della disciplina del concorso formale in materia di sanzioni amministrative (L. n. 689 del 1981, art. 8) e vizio di carenza totale e di insufficienza della motivazione sul punto.

I ricorrenti rilevano che con l’atto di opposizione avevano censurato il provvedimento sanzionatorio per avere ritenuto responsabili i componenti del consiglio di amministrazione e del collegio sindacale sia delle violazioni relative all’art. 53, sia di quella dell’art. 51, per avere inviato informazioni errate alla Banca d’Italia;

peraltro, poichè tale invio non era frutto di un’attività dolosa, la relativa condotta non avrebbe potuto costituire oggetto di un’autonoma contestazione, avendo essi automaticamente trasmesso i dati cosi come emergevano dalle risultanza contabili. E la Corte d’appello non avrebbe esaminato il relativo motivo di opposizione.

Chiedono quindi di affermare “se nel procedimento sanzionatorio previsto dagli artt. 144 e 145 TUB, debba applicarsi il principio generale stabilito in materia di sanzioni amministrative dalla L. n. 689 del 1981, art. 8”.

7.1. Il motivo è inammissibile in considerazione della inidoneità del quesito con il quale esso si conclude.

Nella giurisprudenza di questa Corte, si è chiarito che “il quesito di diritto imposto dall’art. 366-bis cod. proc. civ., rispondendo all’esigenza di soddisfare l’interesse del ricorrente ad una decisione della lite diversa da quella cui è pervenuta la sentenza impugnata, ed al tempo stesso, con una più ampia valenza, di enucleare, collaborando alla funzione nomofilattica della S.C. di cassazione, il principio di diritto applicabile alla fattispecie, costituisce il punto di congiunzione tra la risoluzione del caso specifico e l’enunciazione del principio generale, e non può consistere in una mera richiesta di accoglimento del motivo o nell’interpello della Corte di legittimità in ordine alla fondatezza della censura così come illustrata nello svolgimento dello stesso motivo, ma deve costituire la chiave di lettura delle ragioni esposte e porre la Corte in condizione di rispondere ad esso con l’enunciazione di una regola juris che sia, in quanto tale, suscettibile di ricevere applicazione in casi ulteriori rispetto a quello sottoposto all’esame del giudice che ha pronunciato la sentenza impugnata” (Cass., n. 11535 del 2008; Cass., S.U., n. 2863 del 2009).

In particolare, il quesito di diritto di cui all’art. 366-bis cod. proc. civ. deve compendiare: “a) la riassuntiva esposizione degli elementi di fatto sottoposti al giudice di merito; b) la sintetica indicazione della regola di diritto applicata dal quel giudice; c) la diversa regola di diritto che, ad avviso del ricorrente, si sarebbe dovuta applicare al caso di specie” (Cass. n. 19769 del 2008) e “non può essere desunto dal contenuto del motivo, poichè in un sistema processuale, che già prevedeva la redazione del motivo con l’indicazione della violazione / denunciata, la peculiarità del disposto di cui all’art. 366-bis cod. proc. civ., introdotto dal D.Lgs. 2 febbraio 2006, n. 40, art. 6, consiste proprio nell’imposizione, al patrocinante che redige il motivo, di una sintesi originale ed autosufficiente della violazione stessa, funzionalizzata alla formazione immediata e diretta del principio di diritto e, quindi, al miglior esercizio della funzione nomofilattica della Corte di legittimità” (Cass., ord. n. 20409 del 2008).

Ai sensi dell’art. 366-bis cod. proc. civ., il quesito inerente ad una censura in diritto – dovendo assolvere alla funzione di integrare il punto di congiunzione tra la risoluzione del caso specifico e l’enunciazione del principio giuridico generale – non può essere meramente generico e teorico, ma deve essere calato nella fattispecie concreta, per mettere la Corte in grado di poter comprendere dalla sua sola lettura, l’errore asseritamene compito dal giudice di merito e la regola applicabile. Ne consegue che esso non può consistere in una semplice richiesta di accoglimento del motivo ovvero nel mero interpello della Corte in ordine alla fondatezza della propugnata petizione di principio o della censura così come illustrata nello svolgimento del motivo (Cass. n. 3530 del 2012).

Nel caso di specie, appare evidente come, anche dalla ipotetica risposta affermativa al quesito di diritto come formulato, nessuna ricaduta utile ai fini della decisione in ordine alla proposta censura potrebbe discendere, essendo del tutto carente il profilo attinente alla sussistenza, nel caso di specie, di una situazione di concorso formale, che è invece il punto sul quale si incentra la censura.

8. Con l’ultimo motivo di ricorso i ricorrenti denunciano violazione del principio di colpevolezza (L. n. 689 del 1981, art. 3) e carenza totale di motivazione sul punto, censurando il provvedimento impugnato per non avere la Corte d’appello esaminato il motivo di opposizione con il quale si denunciava carenza di motivazione del decreto sanzionatorio in ordine alla misura delle sanzioni, non essendo l’importo delle sanzioni stato determinato con riferimento alla gravità delle violazioni ed essendosi invece assunto il criterio della gravità della violazione, che dovrebbe costituire l’esito finale della valutazione in ordine alla condotta, a criterio guida per la determinazione della sanzione. La Corte d’appello avrebbe poi fatto riferimento alle dimensioni aziendali senza tenere conto che tale criterio non viene in considerazione tra quelli che devono essere seguiti per graduare la sanzione.

A conclusione del motivo i ricorrenti formulano il seguente quesito di diritto: “Dica la Suprema Corte se – con riferimento alla determinazione delle sanzioni amministrative pecuniarie a carico di esponenti bancari nell’ambito del procedimento sanzionatorio previsto dagli artt. 144 e 145 TUB, deve ritenersi consentito o meno fare ricorso a criteri non previsti dalla L. n. 689 del 1981, art. 11 quali le dimensioni aziendali o la complessiva situazione tecnica dell’intermediario”.

8.1. Il motivo è inammissibile.

Atteso che la censura proposta si sostanzia in una omessa pronuncia su di un motivo di opposizione, i ricorrenti avrebbero dovuto dedurre la violazione dell’art. 112, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 4, onde consentire al Collegio, attraverso la denuncia di un error in procedendo, di esaminare gli atti processuali e verificare se e in quali termini la censura era stata proposta e se rispetto alla detta censura il decreto impugnato mostri omissioni di pronuncia.

9. In conclusione, il ricorso deve essere rigettato.

In applicazione del principio della soccombenza, i ricorrenti, in solido tra loro, devono essere condannati alla rifusione delle spese del giudizio di legittimità, come liquidate in dispositivo.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso; condanna i ricorrenti, in solido tra loro, alla rifusione delle spese del giudizio di legittimità che liquida, quanto alla Banca d’Italia, in Euro 12.300,00, di cui Euro 12.100,00 per compensi, oltre agli accessori di legge, e, quanto al Ministero dell’economia e delle finanze in Euro 7.200,00 per compensi, oltre alle spese prenotate a debito.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della 2^ Sezione civile della Corte suprema di Cassazione, il 14 gennaio 2013.

Redazione