La nozione di imprenditore, art. 2082 c.c., non comprende il libero professionista (Cass. n. 16092/2013)

Redazione 26/06/13
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Svolgimento del processo

Con sentenza pubblicata il 9.1.07 la Corte d’appello di Salerno, in parziale riforma della pronuncia emessa in prime cure dal Tribunale della stessa sede, riconosceva all’avv. T.P. solo il diritto ad usufruire, in relazione alla sua dipendente V. A., dell’agevolazione contributiva di cui alla L. n. 407 del 1990, art. 8, comma 9, e non anche quello allo sgravio contributivo di cui alla L. n. 448 del 2001, art. 44, da ritenersi limitato ai soli datori di lavoro imprenditori (operanti nelle regioni Campania, Basilicata, Puglia, Calabria, Sicilia e Sardegna).

Per la cassazione di tale sentenza ricorre l’avv. T. affidandosi a due motivi, poi ulteriormente illustrati con memoria ex art. 378 c.p.c..

L’INPS resiste con controricorso.

Motivi della decisione

1- Con il primo motivo si lamenta violazione ed errata applicazione della L. n. 448 del 2001, art. 44, degli artt. 12 e 14 preleggi, nonchè vizio di motivazione, nella parte in cui l’impugnata sentenza ha ritenuto, malgrado il tenore letterale della norma, la sua collocazione e la stessa originaria interpretazione contenuta nella circolare INPS n. 24 del 23.1.02, che lo sgravio contributivo previsto dalla L. n. 448 del 2001, art. 44, per i nuovi assunti nelle regioni Campania, Basilicata, Puglia, Calabria Sicilia e Sardegna sia da ritenersi limitato ai soli nuovi assunti alle dipendenze di imprenditori e non anche di qualsiasi altro datore di lavoro (come, appunto, un libero professionista).

Con il secondo motivo si denuncia violazione ed errata applicazione degli artt. 2082, 2083 e 2238 c.c., nonchè vizio di motivazione, per avere la Corte territoriale escluso la qualifica di imprenditore all’avvocato che – come l’odierna ricorrente – svolga la propria attività professionale con organizzazione produttiva e apporto di personale dipendente.

2 – Il primo motivo è infondato alla stregua di un’interpretazione letterale, teleologica e conforme al diritto comunitario.

La L. n. 448 del 2001, art. 44, comma 1, costituisce una proroga della precedente L. n. 448 del 1998, art. 3, comma 5, atteso che contenutisticamente le due disposizioni sono sostanzialmente coincidenti, con un’unica differenza nella rubrica (l’art. 3 cit. parla di “Incentivi alle imprese”, mentre l’art. 44 di “Sgravi per i nuovi assunti”).

Per il resto, entrambe le norme concedono incentivi ai datori di lavoro sotto forma di sgravi contributivi.

La continuità normativa fra le due disposizioni è resa evidente dall’ultimo periodo della cit. L. n. 448 del 2001, art. 44, comma 1, ove si stabilisce che “Ai fini della concessione delle predette agevolazioni, si applicano le condizioni stabilite alla L. 23 dicembre 1998, n. 448, art. 3, comma 6, aggiornando al 31 dicembre 2001 le date di cui al medesimo art. 3, comma 6, lett. a)”.

E l’art. 3, comma 6, è esplicito nel riferirsi alle imprese e a disposizioni normative soltanto ad esse applicabili.

Dunque, atteso che la disposizione inizialmente formulata (l’art. 3 cit.) è esplicitamente indirizzata alle imprese e che quella successiva (l’art. 44 cit.) espressamente richiama proprio il comma 6, dell’art. 3, riferito solo alle imprese (e non ad altri tipi di datori di lavoro), è indubbio che da un punto di vista letterale anche l’art. 44 debba applicarsi soltanto ad imprenditori e ad enti pubblici economici.

Si noti che il rinvio alle imprese (di cui si parla nel cit. art. 3, comma 6) è esplicitamente posto in chiave alle agevolazioni enunciate nella prima parte del cit. art. 44, comma 1.

Inoltre, se è vero che taluni testi normativi, pur riferendosi ad imprese e ad aziende, nondimeno sono stati considerati suscettibili di estensione analogica anche ai datori di lavoro non imprenditori, è altrettanto indiscutibile che tale operazione ermenutica non è consentita riguardo alle disposizioni in esame.

Non lo è ai sensi dell’art. 12 cpv. preleggi (pur invocato in ricorso), che ammette il ricorso all’estensione analogica solo in caso di mancanza di una disposizione ad hoc, mentre nel caso di specie le disposizioni sull’ordinario pagamento dei contributi esistono, sicchè non vi sono lacune normative.

Non lo è ai sensi dell’art. 14 preleggi, che esclude l’applicazione analogica di una norma eccezionale (e tale è una norma che esonera solo talune imprese e a determinate condizioni dal generale obbligo contributivo gravante su tutte le altre).

Non lo è nemmeno alla luce del diritto comunitario, nello specifico evocato tanto dall’art. 3 cit., quanto dall’art. 44 cit., che subordinano l’efficacia del riconoscimento degli sgravi all’autorizzazione e ai vincoli della Commissione Europea ai sensi dell’art. 87 e ss. del Trattato e successive modificazioni.

E, si noti, la Commissione Europea, con provvedimento n. SG (99) D/6511 del 10.8.1999, ha sì ritenuto che l’aiuto di Stato di cui al summenzionato art. 3, commi 5 e 6, sia conforme alla politica comunitaria in materia di occupazione, ma ciò ha affermato sull’espresso presupposto, comunicato dal Governo italiano, che tali aiuti riguardavano le imprese.

In proposito va rammentato che il diritto comunitario vede con sfavore gli aiuti di Stato alle imprese (nel cui novero rientrano anche le politiche di sgravi contributivi) perchè alterano la concorrenza, sicchè essi possono impiegarsi in ambito nazionale solo come extrema ratio e nel rispetto delle predette regole comunitarie.

Pertanto, sarebbe un’interpretazione contraria (non solo al diritto nazionale, ma anche) al diritto comunitario quella che estendesse gli sgravi in discorso anche ai datori di lavoro non imprenditori.

La conclusione è confermata dall’approccio storico-teleologico, considerato che entrambe le norme (i citati L. n. 448 del 1998, art. 3, e L. n. 448 del 2001, art. 44) sono finalizzate a promuovere l’occupazione nel Mezzogiorno, vale a dire in una realtà territoriale carente nel settore dell’imprenditoria per numero e dimensioni delle imprese ivi operanti rispetto a quelle attive in altre regioni italiane, mentre non v’è ragione alcuna per supporre che la ratio dell’art. 44 cit. fosse quella di incentivare – sempre e soltanto nel Mezzogiorno – assunzioni di lavoro domestico o presso studi professionali od organizzazioni di tendenza prive di scopo di lucro (cioè assunzioni alle dipendenze di datori di lavoro non imprenditori).

2 – Anche il secondo motivo di ricorso è infondato.

Il concetto di imprenditore accolto nell’ordinamento italiano (v. art. 2082 c.c.) tradizionalmente esclude il libero professionista (nella specie, l’esercente la professione forense), in particolare per l’assenza, nell’attività da lui svolta, della necessaria componente organizzativa di un apparato produttivo stabile e complesso, formato da beni strumentali (macchinari, locali, materie prime, merci) e lavoratori.

E’ pur vero che uno studio di avvocato ben può presentare, in concreto, una siffatta organizzazione: tuttavia, il fatto stesso che essa possa mancare esclude che il concetto di imprenditore possa estendersi tout court anche al libero professionista.

Sebbene in dottrina si sia proposto di adottare, almeno ai fini dell’applicazione delle norme a difesa della concorrenza (ambito diverso da quello in cui si muove il contenzioso in oggetto), una nozione di imprenditore più ampia di quella enunciata dall’art. 2082 c.c., comprendendovi qualunque entità – persona fisica o giuridica – esercente un’attività economicamente rilevante, industriale o commerciale o di prestazione di servizi, compreso lo sfruttamento di un’opera dell’ingegno, la giurisprudenza di questa Corte Suprema si è invece pronunciata nel senso di negare qualità imprenditoriale al libero professionista, anche ai fini dell’applicazione delle norme poste a tutela della concorrenza (cfr., da ultimo, Cass. 13.1.05 n. 560).

In tale occasione la giurisprudenza ha altresì valorizzato l’intento legislativo, desumibile sia dal c.c. sia da altre disposizioni normative, di differenziare le due figure (al punto che, proprio riguardo alla professione di avvocato, il regime delle incompatibilità di cui al R.D.L. n. 1578 del 1933, art. 3, comma 1, comprende, fra l’altro, il divieto dell’esercizio del commercio in nome proprio o altrui, divieto privo di significato se lo studio professionale fosse assimilabile ad un’azienda commerciale).

Nè nel caso in esame è stata allegata l’ipotesi (pur esaminata da questa Corte Suprema con giurisprudenza costante: cfr., da ultimo, Cass. 22.12.2011 n. 28312) in cui il professionista intellettuale rivesta la qualità di imprenditore commerciale per il fatto di esercitare la professione nell’ambito di un’attività organizzata in forma d’impresa.

A tal fine deve trattarsi di una distinta e assorbente attività che si differenzia da quella professionale per il diverso ruolo che riveste il sostrato organizzativo ù il quale cessa di essere meramente strumentale – e per il differente apporto del professionista, non più circoscritto alle prestazioni d’opera intellettuale, ma involgente una prevalente azione di organizzazione, ossia di coordinamento e di controllo dei fattori produttivi, che si affianca all’attività tecnica ai fini della produzione del servizio.

In tale evenienza l’attività professionale rappresenta una componente non predominante, per quanto indispensabile, del processo operativo, il che giustifica la qualificazione come imprenditore.

Ma – come s’è detto – non è questo il caso.

Dunque, la nozione di imprenditore propria del nostro ordinamento non può valere come supporto della domanda dell’odierna ricorrente.

La giurisprudenza della C.G.U.E. è più ampia – rispetto a quella nazionale – in tema di individuazione del concetto di imprenditore (che non si rinviene nel Trattato); essa intende come imprenditore qualsiasi soggetto che, indipendentemente dallo stato giuridico e dalle modalità di finanziamento, eserciti un’attività economica (cfr. ******** T.7.08, causa C-49/07) e definisce attività economica qualunque attività consistente nell’offrire beni o servizi su un determinato mercato (cfr. ******** 10.1.06, causa C-222/04), a prescindere dallo scopo di lucro eventualmente perseguito (cfr. ******** 29.11.07, causa C-119/06).

Ma si tratta di nozione utile in tema di applicazione di norme comunitarie, mentre nel caso di specie si verte su una materia – quella degli sgravi contributivi – che, anzi, costituisce deroga al principio comunitario contrario agli aiuti di Stato (come innanzi detto).

3 – Infine, quanto ai dedotti vizi di motivazione, essi si collocano all’esterno dell’area dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, in quanto il vizio di motivazione spendibile mediante ricorso per cassazione concerne solo la motivazione in fatto, giacchè quella in diritto può sempre essere corretta o meglio esplicitata, sia in appello che in cassazione (v. art. 384 c.p.c., u.c.), senza che la sentenza impugnata ne debba in alcun modo soffrire.

Invero, rispetto alla questione di diritto ciò che conta è che la soluzione adottata sia corretta ancorchè malamente spiegata o non spiegata affatto; se invece risulta erronea, nessuna motivazione (per quanto dialetticamente suggestiva e ben costruita) la può trasformare in esatta ed il vizio da cui risulterà affetta la pronuncia sarà non già di motivazione, bensì di inosservanza o violazione di legge o falsa od erronea sua applicazione.

4 – In conclusione, il ricorso è da rigettarsi.

La problematicità della materia del contendere e l’originaria interpretazione contenuta nella circolare INPS n. 24 del 23.1.02 (che, pur se irrilevante nel caso di specie non costituendo fonte del diritto, nondimeno può aver indotto in errore la ricorrente) consigliano di compensare per intero fra le parti le spese del giudizio di legittimità.

P.Q.M.

LA CORTE rigetta il ricorso e compensa fra le parti le spese del giudizio di legittimità.

Così deciso in Roma, il 5 marzo 2013.

Redazione