La nomina tardiva ad avvocato cassazionista non sana il ricorso. Necessaria la previa iscrizione all’albo, pena l’inammissibilità (Cass. pen. n. 42491/2012)

Redazione 31/10/12
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Svolgimento del processo

Con la sentenza in data 20 giugno 2011 il Tribunale di Pordenone, ritenuto ingiustificato il dissenso del P.M., applicava a N. P., a sua richiesta – esclusa l’aggravante di cui al D.P.R. n. 309 del 1990, art. 80 comma 2, concesse le attenuanti generiche, valutate equivalenti all’aggravante di cui all’art. 73, comma 6, dello stesso D.P.R., ritenuta la continuazione tra tutti i reati a lui ascritti nel procedimento in corso ed altresì con quelli per i quali lo stesso N. era stato giudicato con sentenza della Corte d’Appello di Trieste del 5 luglio 2009 (irrevocabile il 18 giugno 2010), e ritenuto più grave il fatto di cui al capo B-7) contestato nel procedimento in corso, e rideterminata quindi anche la pena già inflitta, con la diminuente per il rito – la pena di anni cinque di reclusione ed Euro 32.000,00 di multa, dichiarandolo interdetto in perpetuo dai pubblici uffici ed in stato di interdizione legale durante l’esecuzione della pena e ne ordinava l’espulsione dal territorio nazionale a pena espiata.

Proponeva appello l’imputato deducendo motivi che possono così riassumersi: 1) nullità della sentenza di primo grado per incompetenza territoriale; 2) assoluzione per insussistenza del fatto o per non aver commesso il fatto per i capi B1, B2, B3, B4, B5, B6 e B6A, e rideterminazione del capo B7 limitandosi l’imputazione alla cessione di grammi 500 di cocaina; 3) difetto di motivazione in punto di pericolosità sociale per l’applicazione della misura di sicurezza dell’espulsione D.P.R. n. 309 del 1990, ex art. 86.

La Corte d’appello di Trieste pronunciava declaratoria di inammissibilità dell’impugnazione muovendo dal presupposto dell’inappellabilità della sentenza emessa a norma dell’art. 448 c.p.p., e di conseguenza disponeva la trasmissione dell’impugnazione stessa e degli atti a questa Corte per quanto di competenza.

Motivi della decisione

Rileva preliminarmente il Collegio che correttamente la Corte territoriale ha ritenuto inappellabile per l’imputato la sentenza pronunciata in primo grado nei suoi confronti ai sensi dell’art. 448 del codice di rito. Le Sezioni Unite di questa Corte, chiamate a dirimere un contrasto delineatosi nella giurisprudenza di legittimità, con sentenza emessa in data 24/06/2005 (e quindi ben prima che fosse proposta l’impugnazione nell’interesse del N. P.) hanno enunciato il principio di diritto così massimato:

“Non è appellabile dall’imputato la sentenza di applicazione della pena pronunciata dal giudice che, in chiusura del dibattimento, ritenga ingiustificato il dissenso espresso dal P.M. o il provvedimento di rigetto della richiesta, poichè tutte le sentenze che applicano la pena su richiesta delle parti hanno analoga natura e, salvo particolari disposizioni normative, esplicano i medesimi effetti” (Sez. Un., n, 36084 del 24/06/2005 Ud. – dep. 06/10/2005 – imp. Fragomeli, Rv. 231806). Con la citata decisione, le Sezioni Unite hanno precisato quanto segue: “Dall’esame dell’art. 448 c.p.p., comma 1, risulta che il legislatore ha preso in esame un ventaglio di situazioni processualmente eterogenee che si concludono, tuttavia, tutte nello stesso modo e cioè con la pronunzia in ogni caso della stessa sentenza di applicazione della pena. Questa, infatti, malgrado possa essere pronunziata nel corso delle indagini preliminari, nell’udienza preliminare, nel giudizio di primo grado prima della apertura del dibattimento e dopo la sua celebrazione e persino dopo il giudizio di impugnazione, in presenza o in mancanza del consenso del pubblico ministero, non può mai contenere statuizioni di condanna ad una determinata pena ed i suoi effetti sono, in tutti i casi, quelli previsti dall’art. 445 c.p.p.. E l’assoluta identità degli effetti di tutte le sentenze di applicazione della pena risulta anche dal rinvio implicito dell’art. 448, all’art. 445, ed è confermata espressamente dall’art. 445, comma 1 bis, che testualmente recita: salvo quanto previsto dall’art. 653 c.p.p. la sentenza prevista dall’art. 444, comma 2, anche quando è pronunziata dopo la chiusura del dibattimento, non ha efficacia nei giudizi civili o amministrativi”.

Il gravame proposto nell’interesse dell’imputato contro la sentenza del Tribunale di Pordenone in data 20 giugno 2011,deve pertanto correttamente essere qualificato ricorso.

Orbene, il difensore che ha sottoscritto l’atto di gravame nell’interesse del N. – avv. ************** – non risulta iscritto nell’albo speciale della Corte di Cassazione: ciò determina la inammissibilità del gravame ai sensi dell’art. 613 c.p.p., comma 1, in conformità al principio enunciato, e più volte ribadito, da questa Corte, secondo cui “la necessità della sottoscrizione, a pena di inammissibilità, del ricorso per cassazione da parte di difensore iscritto nell’apposito albo speciale opera anche nel caso di qualificazione in ricorso di un atto di appello” (in termini, Sez. 3, n. 16703 del 12/01/2011 Ud. – dep. 29/04/2011 – Rv. 249985; conf., “ex plurimis”, Sez. 1, n. 45393 del 16/11/2011 Ud. – dep. 06/12/2011 – Rv. 251464). Mette conto sottolineare che in tal senso ebbero già modo di esprimersi anche le Sezioni Unite, con specifico riferimento ai provvedimenti cautelari: “E’ inammissibile il ricorso per cassazione avverso provvedimento relativo a misure cautelari previste ai fini dell’estradizione per l’estero, allorchè esso sia stato proposto come appello ai sensi dell’art. 310 c.p.p., esclusivamente da difensore non iscritto nell’albo speciale della Corte di cassazione e il giudice adito l’abbia correttamente qualificato, disponendo la trasmissione degli atti al giudice di legittimità, in quanto il principio di conservazione del mezzo di impugnazione di cui all’art. 568, comma 5, stesso codice, non può in nessun caso consentire di derogare alle norme che formalmente e sostanzialmente regolano i diversi tipi di impugnazione” (Sez. U. n. 31297 del 28/04/2004 CC – dep. 16/07/2004 – Rv. 228119).

Nè avrebbe potuto assumere rilievo l’eventuale nomina da parte dell’imputato, successivamente alla proposizione dell’impugnazione, di difensore iscritto nello speciale albo degli avvocati cassazionisti: “è inammissibile il ricorso per cassazione allorchè, proposta come appello l’impugnazione esclusivamente da difensore non iscritto nell’albo speciale della Corte di cassazione, il giudice adito l’abbia correttamente qualificata, disponendo la trasmissione degli atti al giudice di legittimità, in quanto il principio di conservazione del mezzo di impugnazione di cui all’art. 568 c.p.p., comma 5, non può in nessun caso consentire deroghe alle norme che formalmente e sostanzialmente regolano i diversi tipi di impugnazione e l’eventuale successiva investitura di difensore iscritto nell’albo speciale della Corte di cassazione non vale a sanare il vizio originario dell’atto” (in termini, “ex plurimis”, Sez. 3, n. 26905/04 del 16/06/2004, ud. 22/04/2004, RV. 228729). Così come deve ritenersi parimenti inammissibile un ricorso per cassazione – oppure un appello poi qualificato come ricorso (stante la “eadem ratio”) – proposto da avvocato non cassazionista, ancorchè risultante iscritto nell’albo speciale della corte di cassazione al momento della sua discussione (cfr. Sez. 6, n. 9785 del 19/06/1992 Ud. – dep. 13/10/1992 – Rv. 191998).

Per mera completezza argomentativa, valgano altresì, “ad abundantiam”, le seguenti, ulteriori considerazioni.

La sentenza con la quale il giudice – in primo grado o in appello – ritenuto ingiustificato il dissenso del P.M., applica all’imputato la pena da lui richiesta, presenta identità di caratteristiche con quella ex art. 444 c.p.p., e art. 448 c.p.p., prima parte, e ciò con riguardo non solo alla formula del dispositivo ed alle limitazioni decisionali, di cui all’art. 444 cit., ma anche alle limitazioni delle impugnazioni dipendenti dalla rinuncia alla prova ed alla presunzione di non colpevolezza, insite implicitamente nelle richieste dell’imputato: di eventuali nullità (eccezion fatta per quelle attinenti alla richiesta di patteggiamento ed al consenso ad essa prestato”: in termini, “ex plurimis”, Sez. 5, n. 21287 del 25/03/2010 Cc. – dep. 04/06/2010 – Rv. 247539), carenze nella istruzione probatoria o difetti di motivazione in ordine alle valutazioni dei presupposti della responsabilità non può dolersi l’imputato, che in cambio delle rinunce su ricordate ottiene una riduzione di pena.

Tenuto conto del “dictum” delle Sezioni Unite di cui si è già innanzi detto (Sez. Un., n. 36084 del 24/06/2005 Ud. – dep. 06/10/2005 – imp. Fragomeli, Rv. 231806), l’impugnante avrebbe dovuto essere a conoscenza dell’inappellabilità della sentenza di primo grado, e della conseguente necessità di limitare le censure esclusivamente ai vizi deducibili nel giudizio di legittimità con riferimento alla sentenza di patteggiamento.

Quanto all’eccezione di incompetenza per territorio, questa Corte ha condivisibilmente avuto modo di precisare che “la richiesta di patteggiamento implica rinuncia all’eccezione d’incompetenza per territorio, la quale, a differenza del difetto di giurisdizione e dell’incompetenza per materia, nei limiti della prima parte del primo comma dell’art. 21 cod. proc. pen., non ha natura inderogabile e non può pertanto essere rilevata “ex officio” (in termini: Sez. 3, n. 44132 del 07/10/2008 Cc – dep. 26/11/2008 – Rv. 241668); principio, questo, che si ricollega al consolidato indirizzo interpretativo delineatosi nella giurisprudenza di questa Corte secondo cui “è inammissibile il ricorso per cassazione proposto nei confronti della sentenza di patteggiamento e diretto a far valere asseriti vizi afferenti a questioni incompatibili con la richiesta di patteggiamento formulata per il fatto contestato e per la relativa qualificazione giuridica risultante dalla contestazione, poichè l’accusa, come giuridicamente formulata, non può essere rimessa in discussione, in quanto l’applicazione concordata della pena presuppone la rinuncia a far valere qualunque eccezione di nullità, anche assoluta, diversa da quelle attinenti alla richiesta di patteggiamento ed al consenso ad essa prestato” (in termini, “ex plurimis”, Sez. 5, n. 21287 del 25/03/2010 Cc. (dep. 04/06/2010 ) Rv. 247539).

Parimenti prive di qualsiasi fondamento sono le doglianze concernenti l’asserita erronea valutazione probatoria in ordine ai singoli reati, posto che il ricorrente ha inteso sottoporre a questa Corte censure non deducibili in sede di legittimità, in relazione alla sentenza di patteggiamento (sia pure pronunciata ai sensi dell’art. 448 c.p.p., comma 1, per quanto sopra argomentato), in quanto attinenti allo svolgimento dei fatti ed alle risultanze acquisite. Discorso analogo vale per l’entità della pena applicata, avendo questa Corte più volte affermato che in tema di patteggiamento, non è consentito alle parti prospettare questioni e sollevare censure con riferimento alla entità della pena, che non sia illegale (cfr., “ex plurimis”, Sez. 5, n. 5210 del 28/10/1999 Cc. – dep. 04/02/2000 – Rv. 215467).

Anche in ordine alla pericolosità ai fini dell’espulsione nell’impugnata sentenza vi è motivazione sia pure sintetica, in relazione alla quale le dedotte doglianze risultano generiche e non si confrontano con quanto argomentato dal primo giudice.

Alla declaratoria di inammissibilità segue, per legge, la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali, nonchè (trattandosi di causa di inammissibilità riconducibile alla volontà, e quindi a colpa, del ricorrente: cfr. Corte Costituzionale, sent. N. 186 del 7-13 giugno 2000) al versamento a favore della cassa delle ammende di una somma che si ritiene equo e congruo determinare in Euro 1.500,00 (millecinquecento).

P.Q.M.

Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro 1.500,00 in favore della cassa delle ammende.

Redazione