Ilva: consapevoli del disastro ambientale (Cass. pen. n. 15667/2013)

Redazione 04/04/13
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Svolgimento del processo

1. Il 7.8.2012 il Tribunale di Taranto, decidendo sull’istanza di riesame – per quanto qui interessa – di R.E., R.N. e C.L., confermava l’ordinanza con la quale il Gip della stessa sede, in data 25.7.2012, aveva applicato ai predetti la misura cautelare degli arresti domiciliari in relazione ai reati di cui all’art. 434 c.p., commi 1 e 2, art. 437 c.p., commi 1 e 2 e art. 439 c.p., fatti commessi dal (omissis) con permanenza.

Nell’ordinanza impugnata si rappresenta che le risultanze del procedimento evidenziano l’esistenza nella zona del tarantino di una grave situazione di emergenza ambientale e sanitaria imputabile alle emissioni inquinanti dello stabilimento ILVA s.p.a. e, quindi, di quegli impianti ed aree del siderurgico che presentano le accertate e persistenti criticità ambientali. Sulla base del materiale probatorio acquisito ed all’esito degli accertamenti effettuati dai periti in contraddittorio – attraverso l’incidente probatorio cui gli indagati hanno partecipato con propri consulenti – il tribunale riteneva sussistenti gli indizi a carico degli indagati, nelle rispettive qualità, in ordine ai reati contestati.

Confermava, altresì, la valutazione del giudice della cautela con riferimento ai predetti indagati avuto riguardo alle esigenze cautelari di cui all’art. 274 c.p.p., lett. a) e c), escludendo il pericolo di fuga.

2. Avverso tale provvedimento hanno proposto ricorso per cassazione i suddetti indagati con separati atti, a mezzo dei rispettivi difensori di fiducia.

2.1. E. e R.N. deducono – con distinti ricorsi – in primo luogo, la violazione di legge ed il vizio della motivazione dell’ordinanza impugnata con riferimento al ritenuto pericolo di inquinamento probatorio. Rilevano in specie: a) la mancanza di attualità di tale asserito pericolo, atteso che, concluso l’incidente probatorio, non è ipotizzarle una residua possibilità di alterazione della genuinità della prova; b) che i ricorrenti risultano totalmente estranei all’episodio, ormai risalente al 26.3.2010, posto a fondamento della valutazione del tribunale ai fini della dimostrata attitudine dell’azienda ad inquinare le prove attraverso i suoi dipendenti; infatti, il tribunale sul punto ha operato una inammissibile traslazione sulla persona degli indagati di fatti genericamente attribuiti all’ILVA. R.N., in particolare, deduce la propria estraneità rispetto a tutti gli elementi indizianti, costituiti dalla sintesi delle conversazioni intercettate, riferibili all’episodio in oggetto che avvalorerebbe il pericolo di inquinamento probatorio: non può, infatti, assumere alcuna rilevanza in tal senso la circostanza che il predetto sia stato per due anni circa presidente del consiglio di amministrazione, peraltro, a far data da epoca successiva all’episodio, non avendo in precedenza alcun ruolo nella società; nè può inferirsi il suo coinvolgimento nelle condotte volte ad inquinare le indagini dalla generica affermazione che le pressioni dell’ A. sulle autorità amministrative per risolvere le questioni nell’interesse della società siano proseguite dopo la sua nomina, non essendovi alcun elemento in ordine alla conoscenza da parte del ricorrente di tali condotte altrui. Pertanto, il tribunale sul punto contraddice il principio, che pure ha affermato, che l’esigenza cautelare di prevenzione dell’inquinamento probatorio deve riferirsi alla condotta propria dell’indagato.

Quanto ad R.E., si rileva che soltanto una conversazione – quella del 28.6.2010 con il figlio F. che comunica al padre di avere visionato in anteprima la bozza della perizia del prof. L. – è riferibile indirettamente all’indagato e non può assumere alcuna valenza in ordine alla pretesa attitudine all’inquinamento probatorio, nè alla volontà o la consapevolezza del ricorrente del presunto contatto illecito tra l’ A. ed il consulente del pubblico ministero.

I ricorrenti contestano, altresì, che il presunto pericolo di inquinamento probatorio è fondato sulle condotte finalizzate in tesi ad alterare l’esito del lavoro dei consulenti del pubblico ministero che, tuttavia, è stato ampiamente utilizzato come patrimonio conoscitivo nell’ordinanza di custodia cautelare e nell’ordinanza impugnata ed è stato ritenuto coerente con quanto affermato dai periti nell’incidente probatorio; nè il pericolo potrebbe ritenersi a fronte di una condotta rimasta inefficace, atteso che il professore L. è indagato per il reato di corruzione in atti giudiziari.

Inoltre, l’ipotizzato pericolo di inquinamento probatorio è contraddetto dalla intenzione manifestata dalla ILVA, il cui dominus incontrastato resterebbe il ricorrente R.E., di affidare la presidenza della società al prefetto dott. F..

Anche con riferimento al ritenuto pericolo di reiterazione dei reati E. e R.N. denunciano la violazione di legge ed il vizio di motivazione rilevando: a) che R.E., ormai ottantaseienne ha cessato ogni carica nell’ILVA s.p.a. dal maggio 2010; b) che R.N. è incensurato (posto che l’unico precedente è relativo ad un decreto penale di condanna revocato nel 1998 e, comunque, si tratta della inosservanza di un provvedimento dell’autorità) ed è stato del tutto sottovalutato che ha ricoperto la carica per soli due anni, periodo in cui l’ILVA ha ottenuto l’autorizzazione integrata ambientale (AIA), e che si è dimesso dalla carica con la sostituzione del dott. F. prima della misura cautelare; c) la prospettazione del pericolo di reiterazione con riferimento ad altre realtà industriali ed alla possibile interferenza di fatto nella gestione dello stabilimento è meramente assertiva atteso che “l’area a caldo” dello stabilimento di (omissis) in sequestro costituisce l’unica della specie non solo nella ILVA s.p.a. e nel gruppo RIVA FIRE, ma in Italia e ogni intervento sulla gestione è escluso dalla presenza del nuovo presidente del consiglio di amministrazione, dott. F., soggetto del tutto estraneo, individuato dalla stessa ILVA e, quindi, dai ricorrenti; d) i pericoli di reiterazione del tipo di quelli ipotizzati, in ogni caso, non sarebbero scongiurati attraverso la materiale limitazione della libertà personale dei ricorrenti che non è idonea a far venire meno eventuali cariche.

2.2. Anche C.L., a mezzo dei difensori di fiducia, limita il ricorso alle statuizioni dell’impugnata ordinanza in ordine alle esigenze cautelari.

Deduce la violazione di legge ed il vizio di motivazione con riferimento alla ritenuta sussistenza dei presupposti di cui all’art. 247 c.p.p., comma 1, lett. a) e c), rilevando, in primo luogo, che il 3.7.2012 ha rassegnato le dimissioni dalla carica di direttore dello stabilimento ILVA che, a far data dal 27.8.2012, è ricoperta dall’ing. B.; peraltro, pur restando formalmente alle dipendenze della società, non è stato riassegnato ad alcuna funzione. Lamenta che tale rilevante circostanza, evidenziata nei motivi di riesame, non è stata in alcun modo valutata nell’ordinanza impugnata e, in ogni caso, contesta la irrilevanza di detta circostanza, atteso che il ricorrente con le dimissioni ha rinunciato a tutti gli incarichi e poteri inerenti alla gestione, alla produzione e organizzazione dello stabilimento. Pertanto, tenuto conto, altresì, del vincolo cautelare reale posto con il sequestro dello stabilimento e la nomina di custodi ed amministratori, non resta alcuno spazio per qualsivoglia influenza sulle strategie imprenditoriali della proprietà, apoditticamente attribuitagli in virtù della lunga esperienza gestionale maturata alle dipendenze dei R..

Quanto specificamente al pericolo di inquinamento probatorio, il ricorrente ritiene: a) immotivato il rischio che da parte della società **** possano essere poste in essere iniziative volte a subornare le persone a vario titolo informate sui fatti, attesa la indubbia estrema complessità del materiale probatorio acquisito di cui la stessa ordinanza da atto; b) la assoluta mancanza di attualità del pericolo, attesa la posizione dell’indagato di cui si è detto; c) la mancanza della necessaria concretezza del pericolo di inquinamento probatorio, laddove i giudici della cautela sono venuti meno all’onere di indicare quali siano gli elementi specifici da acquisire e, in relazione a questi, quali siano i pericoli per la genuinità di tali acquisizioni; d) la irrilevanza, ai fini della dimostrazione del concreto pericolo di inquinamento probatorio, del richiamo alle condotte spregiudicate dell’ILVA finalizzate alla manipolazione dei fatti, peraltro, senza alcuna indicazione della specifiche condotte degli indagati. In particolare, quanto all’incontro tra l’ A. ed il professore L., contesta che, nonostante il contenuto della busta non sia mai stato accertato, è stato affermato che la stessa conteneva una somma di danaro destinata ad un tentativo di condizionamento, mentre gli elementi accertati possono al più costituire un quadro indiziario tutto da verificare, comunque, non riferibile agli indagati e, in realtà, contraddetto anche dal contenuto della relazione del consulente L. che, certamente, non può considerarsi favorevole alla società ****. Del resto, è evidente la rilevanza marginale che le dichiarazioni testimoniali sono destinate ad assumere nel procedimento in oggetto in cui l’accusa è fondata su prove di altra natura.

Anche il pericolo di reiterazione dei reati contestati, ad avviso del ricorrente, è fondato su argomenti privi del carattere della concretezza: a) ribadisce l’attuale mancanza di qualsivoglia collegamento del ricorrente con l’attività della società e con gli impianti in conseguenza delle dimissioni; b) di pura astrazione è l’ipotesi di interferenza con la gestione aziendale, pertanto, non possono evidentemente assumere alcuna rilevanza i richiamati precedenti che risultano a carico del ricorrente che, oltre ad non avere alcuna univoca valenza quali indici di pericolosità, sono oggettivamente controvertibili e, comunque, attengono ad una fase della gestione della società molto risalente, quindi, privi di significato ai fini delle esigenze cautelari. A ciò va aggiunto che, come è noto, la c.d. “area a caldo” dello stabilimento ILVA di (omissis), interamente sequestrata, costituisce una realtà industriale unica in Italia e in Europa con la conseguenza che i reati contestati non possono essere reiterati in altri contesti industriali.

Motivi della decisione

1. E’ opportuno muovere dal principio secondo il quale il ricorso per cassazione avverso i provvedimenti relativi all’applicazione di misure cautelari personali è ammissibile soltanto se denuncia la violazione di specifiche norme di legge, ovvero la manifesta illogicità della motivazione del provvedimento, secondo i canoni della logica ed i principi di diritto, ma non anche quando propone censure che riguardino la ricostruzione dei fatti, ovvero si risolvano in una diversa valutazione delle circostanze esaminate dal giudice di merito (Sez. 6, n. 11194 del 08/03/2012 – dep. 22/03/2012, ****, rv. 252178).

Ciò vale certamente per l’individuazione dei limiti del sindacato di legittimità in ordine alla sussistenza delle esigenze cautelari che è censurabile in questa sede soltanto se si traduce nella violazione di specifiche norme o nella mancanza o manifesta illogicità della motivazione, rilevabili dal testo del provvedimento impugnato (Sez. 1, n. 795, 06/02/1996, Di ****** rv. 204014). Rigorosamente entro tale perimetro, pertanto, possono essere esaminate le doglianze dei ricorrenti, come innanzi indicate, alla luce del contenuto dell’ordinanza impugnata con la quale il tribunale del riesame, per quel che attiene alla valutazione delle esigenze cautelari, ha escluso il pericolo di fuga, che pure era stato posto a fondamento dell’ordinanza genetica, ed ha ritenuto attuali le esigenze cautelari di cui all’art. 274 c.p.p., lett. a) e c).

Altro limite che deve essere in premessa precisato riguarda gli elementi sopravvenuti alla decisione impugnata, non esaminati dal tribunale, che devono restare esclusi dalla valutazione del giudice di legittimità.

E’, infatti, opportuno ribadire che non possono essere dedotte in questa sede circostanze sopravvenute non valutate dal tribunale del riesame – come, per quel che riguarda le questioni in esame, l’intervento del cd. “decreto ILVA”, D.L. n. 207 del 2012, conv. con modifiche nella L. n. 231 del 2012 – che devono, invece, formare oggetto di valutazione del giudice di merito attraverso istanza di revoca o modifica della misura cautelare.

Secondo l’orientamento consolidato di questa Corte l’ambito conoscitivo del giudice del riesame è circoscritto alla valutazione delle acquisizioni coeve all’emissione dell’ordinanza coercitiva, delle sopravvenienze favorevoli all’indagato e degli ulteriori elementi addotti dalle parti nel corso dell’udienza, anche se non presentati al giudice che emise la misura: eventuali acquisizioni successive rispetto al momento della chiusura della discussione dinanzi al collegio non assumono alcun rilievo nell’ambito del successivo giudizio di legittimità e possono essere fatte valere soltanto con la richiesta di revoca o modifica della misura al giudice competente (Sez. 1, n. 34616 del 13/07/2007 – dep. 12/09/2007, ********, rv. 237764).

2. La valutazione della sussistenza delle esigenze cautelari cui i ricorrenti espressamente hanno limitato l’impugnazione dell’ordinanza del tribunale del riesame, all’evidenza, non può prescindere dalle indicazioni contenute nel provvedimento impugnato in ordine al ruolo rivestito dagli indagati all’interno dell’azienda.

Il tribunale, in specie, ha sottolineato come R.E. abbia formalmente diretto l’intera attività aziendale dell’ILVA fino al 19.5.2010 e, sostanzialmente, sino all’attualità; come sia il dominus del gruppo Riva e sin dal 1995, epoca in cui il gruppo è subentrato nella gestione del siderurgico di (omissis), è stato a capo della struttura tecnica amministrativa. Pertanto, l’indagato era perfettamente al corrente di tutte le gravi disfunzioni che caratterizzano lo stabilimento a livello di prestazioni ambientali, come si desume, peraltro, dal suo coinvolgimento in diversi procedimenti penali relativi a fatti attinenti alla gestione dell’impianto. Del resto, molti sono stati negli anni gli interventi e gli atti amministrativi nei quali sono stati chiaramente evidenziati tali problemi ed, in specie, le comunicazioni e relazioni dell’Arpa Puglia che da anni ha segnalato gli aspetti più critici dello stabilimento.

Ha, quindi, evidenziato il tribunale che l’imputazione dei gravi reati oggetto di contestazione (disastro doloso, omissione dolosa di cautele contro infortuni sul lavoro, avvelenamento di acque) in capo all’indagato, lungi dal derivare da una responsabilità di posizione, conseguente alla legale rappresentanza della società, è direttamente ascrivibile alla condotta tenuta negli anni dall’indagato, essendo emerso come, nell’ambito dell’organizzazione aziendale dallo stesso diretta, non si sia dato corso a precise e motivate istruzioni tese ad impedire le immissioni e, in sostanza, l’inquinamento dell’ambiente circostante.

Quanto a R.N., figlio di E. che ha assunto la carica di presidente del consiglio di amministrazione il 19.5.2010, nell’ordinanza è stato messo in evidenza come tale nomina non abbia determinato alcuna soluzione di continuità nelle scelte aziendali precedentemente operate, non potendosi desumere da alcun elemento che l’indagato abbia adottato iniziative o impartito disposizioni tese a scongiurare la reiterazione dei gravi illeciti.

Analogamente il ruolo di C.L., direttore dello stabilimento da molti anni presente nella gestione tecnica dell’ILVA, è stato individuato dal tribunale come colui che ha condiviso totalmente le scelte gestionali benchè le cognizioni tecniche di cui disponeva avrebbero dovuto suggerire opzioni decisamente diverse.

3. Tanto premesso, ad avviso del Collegio, non sono fondati i rilievi mossi dai tre ricorrenti in relazione al pericolo di reiterazione di reati della stessa specie.

Come è noto, il giudizio prognostico relativo al pericolo di recidiva deve avere riguardo alle specifiche modalità e circostanze del fatto, indicative dell’inclinazione del soggetto a commettere reati della stessa specie, alla personalità dell’indagato, da valutare alla stregua dei suoi precedenti penali e giudiziari, all’ambiente in cui il delitto è maturato, nonchè alla vita anteatta dell’indagato, come pure di ogni altro elemento compreso fra quelli enunciati nell’art. 133 cod. pen.. A detti elementi, all’evidenza, il giudice può fare riferimento congiuntamente o alternativamente, potendo, quindi, inferire il concreto pericolo di recidivanza anche soltanto dalle specifiche modalità e circostanze del fatto-reato.

Così che, la negativa valutazione della personalità dell’indagato ben può fondarsi sugli specifici criteri oggettivi indicati dall’art. 133 cod. pen. tra i quali rientrano, appunto, la gravità del reato e le modalità della sua commissione, senza che il giudice sia tenuto a motivare singolarmente sulla ricorrenza di tutti gli elementi valutativi previsti dal predetto articolo (Sez. 5, n. 2416 del 19/05/1999 – dep. 04/08/1999, Marchigiani, rv. 214230).

D’altra parte, il parametro della concretezza, cui si richiama l’art. 274 c.p.p., lett. c), non si identifica con quello di “attualità” del pericolo derivante dalla riconosciuta esistenza di occasioni prossime favorevoli alla commissione di nuovi reati, dovendo, al contrario, il predetto requisito essere riconosciuto alla sola condizione necessaria e sufficiente che esistano elementi “concreti” (cioè non meramente congetturali) sulla base dei quali possa affermarsi che l’indagato possa, verificandosene l’occasione, commettere reati della stessa specie di quello per cui si procede, ossia che offendono lo stesso bene giuridico (Sez. 1, n. 25214, 03/06/2009, ***********, rv. 244829; Sez. 1, n. 10347, 20/01/2004, Catanzaro, rv. 227227).

Riguardata alla luce di tali criteri la valutazione operata dal giudice del riesame risulta conforme ai principi richiamati ed immune dai vizi denunciati avuto riguardo alla logicità ed interna coerenza della motivazione.

In punto di gravità dei fatti oggetto di contestazione, nell’ordinanza impugnata viene dato atto che gli indagati, nelle rispettive qualità, hanno realizzato e, comunque, non impedito volontariamente imponenti quantità di emissioni “convogliate, diffuse e fuggitive” provenienti dagli impianti e dalle diverse aree dello stabilimento dell’ILVA di (omissis) di polveri ed inquinanti contenenti sostanze nocive per la salute umana, animale e vegetale, tra cui diossina, benzopirene e metalli. Inquinanti che si disperdono non solo all’interno dello stabilimento con gravi danni alla salute dei lavoratori, ma anche nei terreni esterni allo stabilimento cagionando il consistente inquinamento di un’area molto vasta del territorio.

E’ stato evidenziato, altresì, che il disastro ambientale era certamente riconducibile anche alla gestione successiva al 1995, quando è subentrato il gruppo Riva nella proprietà e nella gestione dello stabilimento siderurgico e che gli accertamenti effettuati hanno chiarito che l’inquinamento è attuale. E’ risultato che le concrete modalità di gestione dello stabilimento siderurgico dell’ILVA hanno determinato la contaminazione di terreni ed acque e di animali destinati all’alimentazione umana in un’area vastissima che comprende l’abitato di (omissis) e di paesi vicini, nonchè, un’ampia zona rurale tra i territori di (omissis), tali da integrare, ad avviso del tribunale, i contestati reati di disastro doloso, omissione dolosa di cautele contro infortuni sul lavoro, avvelenamento di acque, posti in essere con condotta sia commissiva che omissiva, con coscienza e volontà per deliberata scelta della proprietà e dei gruppi dirigenti che si sono avvicendati alla guida dell’ILVA i quali hanno continuato a produrre massicciamente nella inosservanza delle norme di sicurezza con effetti destinati ad aggravarsi negli anni.

Rilevanti ai fini della valutazione in esame sono stati ritenuti, quindi, l’entità del danno e del pericolo cagionati all’ambiente e alla salute dei cittadini, nonchè, la continuità nel tempo dei fatti illeciti e la natura essenzialmente dolosa delle condotte, oltre ai notevoli profitti conseguiti omettendo quegli investimenti che dovevano essere realizzati per ridurre le emissioni inquinanti.

Quanto alla concretezza del pericolo di recidiva i giudici di merito hanno, invero, messo in luce i comportamenti posti in essere dai ricorrenti che palesano la reiterazione delle condotte illecite già da tempo accertate.

Si afferma nell’ordinanza impugnata che le emissioni che scaturivano dagli impianti, risultate immediatamente evidenti sin dall’insediamento nel 1995 del gruppo dirigente dello stabilimento ILVA, sono proseguite successivamente, come emerso in più occasioni, e l’azienda, pur avendo assunto di volta in volta l’impegno di provvedere alla riduzione delle emissioni nocive, ha dimostrato poi di non avere ottemperato.

Alla luce di ciò, il tribunale ha, quindi, sottolineato la pervicacia e la spregiudicatezza dimostrata da R.E. e dal C., ma anche da R.N., succeduto alla presidenza del consiglio di amministrazione in continuità con il padre, che hanno dato prova, nei rispettivi ruoli, di perseverare nelle condotte delittuose, nonostante la consapevolezza della gravissima offensività per la comunità e per i lavoratori delle condotte stesse e delle loro conseguenze penali e ad onta del susseguirsi di pronunzie amministrative e giudiziali che avevano già evidenziato il grave problema ambientale creato dalle immissioni dell’industria.

Tale pericolosità correttamente è stata ritenuta ulteriormente confermata, per quel che riguarda gli indagati R.E. e C.L., dai precedenti penali e dalle pendenze giudiziarie. Invero, a carico del C. risultano sette condanne definitive per violazione delle direttive CEE in materia di tutela della salute dei lavoratori ed in materia di inquinamento dell’aria, danneggiamento aggravato, violenza privata tentata e continuata, frode processuale in concorso, omissione colposa delle difese contro gli infortuni sul lavoro, omicidio colposo ed altrettante pendenze giudiziarie per analoghe imputazioni. A carico di R.E., oltre la pendenza di sei procedimenti per i reati di omicidio colposo, estorsione, turbata libertà dell’industria, deturpamento e imbrattamento, getto pericoloso di cose, risultano due condanne irrevocabili per i reati di cui agli artt. 674 e 610 cod. pen.. Si tratta, all’evidenza, diversamente da quanto dedotto dai ricorrenti, di elementi tutt’altro che neutri ai fini della complessiva valutazione in esame.

Risulta, poi, coerente con i principi richiamati in premessa, l’affermazione del tribunale che ha ritenuto il pericolo di reiterazione non contraddetto nè dalla circostanza che gli impianti sono stati sottoposti a sequestro preventivo, nè dal venir meno delle cariche degli indagati nella azienda.

La dismissione delle cariche – circostanza sulla quale fondano per molta parte i ricorsi in esame – non è, infatti, in se stessa dirimente ai fini della esclusione delle esigenze cautelari ed, in specie, del pericolo di recidiva.

Tanto, come è noto, è stato affermato da questa Corte in più occasioni, laddove si è esplicitato che il giudizio di prognosi sfavorevole sulla pericolosità sociale dell’incolpato non è di per sè impedito dalla circostanza che l’indagato abbia dismesso la carica o esaurito l’ufficio nell’esercizio del quale aveva realizzato la condotta addebitata, purchè il giudice fornisca adeguata e logica motivazione sulle circostanze di fatto che rendono probabile che l’agente, pur in una diversa posizione soggettiva, possa continuare a porre in essere condotte antigiuridiche aventi lo stesso rilievo ed offensive della stessa categoria di beni e valori di appartenenza del reato commesso (Sez. 6, n. 9117 del 16/12/2011 – dep. 07/03/2012, Tedesco, rv. 252389; Sez. 6, n. 6566 del 13/12/2011 – dep. 17/02/2012, *********, rv. 252037).

Risulta evidente, altresì, come tale affermazione vada messa in stretta relazione con l’interpretazione del significato e della ratio della norma, art. 274 c.p.p., lett. c), laddove richiede il pericolo della commissione di delitti della stessa specie di quello per il quale si procede che – come la stessa decisione appena richiamata indica – non può essere inteso nel senso di pericolo di commissione di delitti della stessa natura, bensì, di delitti che offendono la stessa categoria di beni giuridici.

“Le esigenze di tutela della collettività, di cui all’art. 274 c.p.p., lett. c), devono concretarsi nel pericolo specifico di commissione di delitti collegati sul piano dell’interesse protetto, intendendosi per delitti della stessa specie i delitti che offendono lo stesso bene giuridico. Giova anche ricordare, ed anche in questo caso il principio ha valore generale, che la prognosi sfavorevole circa la commissione di reati della stessa specie di quelli per cui si procede non è impedita dalla circostanza che l’incolpato abbia dismesso l’ufficio o la carica nell’esercizio dei quali, abusando della sua qualità o dei suoi poteri o altrimenti illecitamente determinandosi, realizzò la condotta criminosa. L’art. 274 c.p.p., lett. c), infatti, fa riferimento alla probabile commissione di reati della stessa specie, cioè di reati che offendono lo stesso bene giuridico e non già di fattispecie omologhe a quella per cui si procede. Occorre, poi, ribadire che la valutazione da compiere è pur sempre prognostica e di carattere presuntivo, e rispetto ad essa il giudice è tenuto a dare concreta e specifica ragione dei criteri logici adottati, esprimendo, sulla base delle specifiche modalità e circostanze del fatto e della personalità dell’indagato menzionate dalla norma, un giudizio di pericolosità dell’indagato in funzione di salvaguardia della collettività; tale giudizio si traduce nella dichiarazione di una concreta probabilità che egli commetta alcuno dei delitti indicati nel suddetto art. 274 c.p.p., comma 1, lett. c)” (Sez. 4, n. 18851 del 10/04/2012 – dep. 16/05/2012, *********, rv. 253865).

Nella specie, con argomenti logici ed immuni da interne contraddizioni e richiamando le valutazioni del gip, il tribunale ha affermato plausibilmente la sussistenza dell’elevato pericolo concreto dell’intervento di fatto a tutela degli interessi della proprietà e, quindi, per finalità opposte a quelle perseguite con il provvedimento di sequestro preventivo; inoltre, ha rilevato la possibilità della reiterazione presso altri contesti, in particolare, attraverso le altre società controllate dal gruppo RIVA FIRE. I R., pur non avendo più cariche, hanno tuttora la proprietà dell’azienda con quel che ne consegue in termini di interesse in ordine alle sorti dello stabilimento; inoltre, sono titolari del gruppo RIVA. E tanto vale anche per il C., tuttora dipendente dell’ILVA, e del quale – come si è detto – il tribunale ha compiutamente evidenziato la gravità e la reiterazione delle condotte e la piena condivisione delle scelte aziendali consolidate negli anni attraverso le quali si è pervenuti alle allarmanti conseguenze accertate che riguardano tutte le aree dello stabilimento (parchi, cokerie, agglomerato, altoforno, acciaieria, area GRF).

Per quanto si è sin qui detto in ordine ai criteri di valutazione del pericolo di reiterazione di reati della stessa specie, risulta palese come ben limitato rilievo possa assumere la circostanza che gli impianti della ILVA di (omissis) abbiano caratteristiche uniche ed esclusive rispetto ad altri stabilimenti dello stesso tipo.

Nè può ritenersi determinante ai fini della valutazione di dette esigenze cautelari la circostanza che gli impianti siano sottoposti a sequestro preventivo, misura che segue, come è evidente, vicende diverse ed autonome – potendo essere revocato in ogni momento – che certamente non possono soffrire condizionamenti in ragione della valutata pericolosità dei soggetti titolari della proprietà degli impianti. Del resto, nel sistema processuale le misure cautelari personali e quelle reali rispondono a requisiti di diritto e di fatto diversi tra loro, così che la sottoposizione al vincolo cautelare delle aree dello stabilimento non vale in sè a scongiurare il rischio di recidiva individuato in capo agli indagati.

Risulta, quindi, conforme ai criteri di valutazione indicati la motivazione del provvedimento impugnato avuto riguardo alla verifica, secondo gli standards del giudizio cautelare, della sussistenza del pericolo concreto, anche se non di certezza, di reiterazione di delitti particolarmente gravi e correlati alla incolumità delle persone come quelli addebitati agli indagati e di condotte poste in essere per un lungo periodo.

Devono, quindi, ritenersi infondati i rilievi formulati dai ricorrenti che risultano volti ad una non consentita rivalutazione da parte del giudice di legittimità degli elementi compiutamente esaminati e complessivamente valutati dal tribunale.

4. Anche la valutazione operata dal giudice del riesame in ordine alla sussistenza del pericolo per l’acquisizione e la genuinità della prova risulta conforme ai principi affermati da questa Corte ed immune da vizi avuto riguardo alla logicità ed interna coerenza della motivazione.

Il tribunale, ribadito che il pericolo di inquinamento probatorio non si esaurisce con la chiusura delle indagini preliminari, ha dato atto che dal contenuto di una informativa della guardia di finanza e da alcune conversazioni intercettate sono emerse univocamente condotte poste in essere dai vertici aziendali, con la fattiva collaborazione del C. e la consapevolezza di R.E., finalizzate ad incidere sui procedimenti amministrativi e giudiziari in corso che interessano l’ILVA. In specie, è stato fatto riferimento ad un incontro, documentato da videoregistrazione, avvenuto il 26.3.2010 presso l’area di servizio dell’autostrada in occasione del quale un dirigente dell’ILVA s.p.a., A.G., aveva consegnato al professore L. L., consulente del pubblico ministero nel procedimento, una busta bianca. Risultava, altresì, che poche ore prima l’ A. aveva ricevuto in una busta bianca la somma in contanti di Euro 10.000 e che aveva avuto contatti telefonici con un collaboratore del L.; era stata, inoltre, registrata contestualmente una telefonata nella quale l’ A. aveva comunicato al C. di essere in compagnia del professore L., sia pure senza indicarne il nome. Infine, dalla contabilità della società era risultata la registrazione della stessa somma con la causale “erogazioni liberali, omaggi e regalie”.

Dagli accertamenti risultava che l’episodio si era verificato pochi mesi prima del deposito di una relazione di consulenza al pubblico ministero ed il L., del tutto inverosimilmente, aveva dichiarato di non ricordare i fatti, ipotizzando la consegna di non meglio identificata documentazione. Peraltro, anche successivamente vi erano stati ulteriori incontri tra il L. e l’ A..

Deve, in primo luogo, rilevarsi la infondatezza delle censure dei ricorrenti in ordine alla configurabilità di residui ed attuali rischi per l’acquisizione e per la genuinità della prova una volta che è stato effettuato l’incidente probatorio/dovendosi ribadire che la valutazione del pericolo di inquinamento probatorio va effettuata con riferimento sia alle prove da acquisire, sia alle fonti di prova già individuate, a nulla rilevando il fatto che le indagini siano in stato avanzato ovvero risultino già concluse, atteso che l’esigenza di salvaguardare la genuinità della prova non si esaurisce all’atto della chiusura delle indagini preliminari. (Sez. 6, n. 13896 del 11/02/2010 – dep. 12/04/2010, ********, rv. 246684).

Pertanto, ai fini della necessità di prevenire, con la misura della custodia in carcere, il persistente e concreto pericolo di inquinamento probatorio, a nulla rileva la circostanza che le indagini preliminari si siano concluse (Sez. U, n. 19 del 25/10/1994 – dep. 12/12/1994, **********, rv. 199396).

D’altro canto, il pericolo per la genuinità della prova non può dirsi scongiurato per il solo fatto che è stato effettuato l’incidente probatorio, tenuto conto che – come è stato evidenziato nel ricorso del C. – non si può dubitare nella specie della estrema complessità del materiale probatorio acquisito di cui l’ordinanza impugnata da atto e che, certamente, non si esaurisce nelle prove raccolte con l’incidente probatorio.

Nè, all’evidenza, l’attualità di tale pericolo può essere contraddetta dalla dismissione delle cariche degli indagati, di cui si è detto innanzi, circostanza che sotto tale profilo si palesa indifferente.

Inoltre, contrariamente a ciò che è stato contestato dal C., in punto di specificità dei pericoli per l’acquisizione delle prove, il pericolo di cui all’art. 274 c.p.p., comma 1, lett. a), postula soltanto che vi siano specifiche ed inderogabili esigenze attinenti alle indagini, laddove il requisito della specificità è riferito alle esigenze e non alle indagini dal che consegue che non è indispensabile che il giudice indichi con precisione gli atti da compiere. Ciò anche per evitare che il pubblico ministero debba rivelare alla parte gli accertamenti che si appresti ad espletare; del resto, lo stesso giudice non deve necessariamente essere posto a conoscenza delle future investigazioni (Sez. 6, n. 3424 del 11/09/1997 – dep. 14/10/1997, *******, rv. 210298).

Quanto alle censure mosse dai ricorrenti in ordine alla valenza degli elementi di fatto posti a fondamento della prognosi del giudice della cautela ed alla riferibilità del ritenuto pericolo di inquinamento probatorio agli indagati, nell’ordinanza impugnata è stato compiutamente argomentato come dai suddetti elementi di fatto e dal contenuto di alcune conversazioni intercettate – tra l’ A. e R.F. e tra questi ed il padre E., nonchè, tra l’ A. ed il C. – si desumesse univocamente che l’iniziativa dell’ A. non era frutto di estemporanea decisione, che i vertici aziendali erano pienamente consapevoli delle azioni del proprio dirigente e vi era stato il coinvolgimento del C..

Naturalmente, non si tratta di configurare attraverso gli elementi di fatto acquisiti nè la prova, nè la gravità indiziaria in ordine ad eventuali reati, bensì, di verificare la possibilità di trarre dalle circostanze indicate la concretezza del pericolo di inquinamento probatorio, valutazione affatto diversa rispetto a quella cui si pretende far riferimento da parte dei ricorrenti, che il tribunale ha operato in maniera complessivamente logica e coerente.

Resta, quindi, irrilevante in detta verifica la circostanza che sia stata o meno effettivamente realizzata un’alterazione dell’esito del lavoro dei consulenti del pubblico ministero, atteso che ciò, evidentemente, non significa che non sia stata posta in essere la condotta volta a tale risultato dalla quale può logicamente trarsi il pericolo di inquinamento probatorio e l’attitudine in tal senso degli indagati.

Il tribunale, invero, ha ritenuto che l’accertato incontro, avvenuto in circostanze oggettivamente sospette, con la consegna di una busta che coincide con la consegna della somma all’ A. e la annotazione nella contabilità, non può che essere riferibile ai responsabili dell’azienda.

Sul punto i ricorrenti hanno formulato doglianze in fatto con pretesa di una diversa valutazione del significato delle conversazioni captate che in questa sede resta preclusa, operando, peraltro, una lettura parcellizzata delle circostanze di fatto sulle quali il tribunale ha fondato il proprio convincimento in maniera logica e non contraddittoria affermando che si risolvono, comunque, in un concreto pericolo per l’acquisizione o la genuinità della prova, essendo manifesta la volontà degli indagati di intervenire per aggirare le gravi accuse mosse nei loro confronti.

5. In conclusione, risultando infondati, i ricorsi devono essere rigettati ed i ricorrenti devono essere condannati al pagamento delle spese processuali.

P.Q.M.

Rigetta i ricorsi e condanna i ricorrenti al pagamento delle spese processuali.

Così deciso in Roma, il 16 gennaio 2013.

Redazione