Il divieto di rilascio del passaporto non costituisce una sanzione penale (Cons. Stato, n. 3348/2012)

Redazione 06/06/12
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Svolgimento del processo – Motivi della decisione

1. L’appellante, già ricorrente in primo grado, per effetto di condanne penali passate in giudicato si trova a dover scontare complessivamente la pena della reclusione per due anni, dieci mesi e 17 giorni. Poiché ricorrono le condizioni previste dall’art. 656, comma 5, c.p.p., la pena è stata sospesa dall’autorità giudiziaria e l’interessato ha fatto istanza per essere ammesso ad espiarla mediante la misura alternativa dell’affidamento in prova al servizio sociale.

In questa situazione, l’autorità di pubblica sicurezza ritiene che sia applicabile il disposto della L. n. 1185 del 1967, art. 3, lettera (d) a norma del quale “non possono ottenere il passaporto (….) coloro che debbano espiare una pena restrittiva della libertà personale o soddisfare una multa o ammenda (…)”.

Donde il provvedimento con il quale il Questore di Milano ha disposto il ritiro del passaporto nonché l’apposizione sulla carta d’identità e documenti equipollenti dell’annotazione “non valido per l’espatrio”.

2. L’interessato ha proposto ricorso al T.A.R. Lombardia, deducendo che l’affidamento in prova al servizio sociale non è una “pena” bensì una “misura alternativa”, tale essendo denominata dall’art. 656 c.p.p.; di conseguenza, l’art. 3 della L. n. 1185 del 1967 non sarebbe applicabile anche perché tutte le disposizioni in esame sono di stretta interpretazione siccome limitative dei diritti fondamentali della persona.

Il T.A.R. ********* ha respinto il ricorso, osservando argomentatamente che l’affidamento in prova al servizio sociale, come configurato dall’art. 47 dell’ordinamento penitenziario, non solo è alternativo alla pena detentiva – e dunque il suo presupposto è che il soggetto debba scontare tale pena – ma è esso stesso restrittivo della libertà personale per effetto degli oneri che comporta.

3. L’interessato propone ora appello davanti a questo Consiglio, riproponendo e sviluppando gli argomenti già dedotti in primo grado.

Resiste all’appello l’Amministrazione dell’Interno.

In occasione della trattazione della domanda cautelare in camera di consiglio il Collegio, sentite le parti, ritiene di poter procedere alla definizione immediata del giudizio.

4. Il Collegio ritiene che la sentenza del T.A.R. debba essere confermata.

Va premesso che, a quanto è dato sapere, il procedimento di ammissione dell’interessato al beneficio dell’affidamento al servizio sociale è avviato ma non ancora concluso con la necessaria pronuncia del Tribunale di Sorveglianza. Peraltro, anche se tale pronuncia fosse intervenuta, la pena detentiva sarebbe solo sospesa, non estinta, sino a che non risultassero pienamente adempiuti tutti gli oneri inerenti all’affidamento al servizio sociale . In tale situazione l’interessato, benché ammesso al beneficio, dovrebbe considerarsi tuttora virtualmente assoggettato ad una pena detentiva da espiare.

La tesi dell’appellante, che, proprio perché la pena detentiva è sospesa e le modalità restrittive inerenti all’affidamento al servizio sociale non sono ancora operanti, egli sarebbe attualmente libero da ogni debito con la Giustizia, appare un mero sofisma e va respinta senza bisogno di ulteriori spiegazioni o commenti. Se è vero che è ancora sub iudice la decisione se egli debba assolvere il suo debito in una forma o nell’altra, è comunque certo il suo assoggettamento ad un regime restrittivo della libertà personale in applicazione di condanne penali passate in giudicato; del resto, la magistratura penale potrebbe sciogliere la sua riserva al riguardo da un un giorno all’altro.

5. A parte ciò, va notato che l’appellante non nega che gli oneri annessi all’affidamento al servizio sociale costituiscano una certa restrizione della libertà personale, e che sotto questo profilo sarebbero assimilabili alla pena detentiva quale presupposto del divieto di espatrio.

L’appellante sostiene però che tale assimilazione sarebbe da escludere con l’argomento (puramente nominalistico) che l’art. 3 della L. n. 1185 del 1967 si riferisce alla “pena”, mentre l’art. 656 c.p.p. usa per l’affidamento al servizio sociale l’espressione “misura”. Tale differenza lessicale sarebbe sufficiente, secondo l’appellante, per escludere l’applicabilità dell’art. 3, cit., nel caso di affidamento al servizio sociale.

Questo Collegio ritiene di non condividere questa tesi, come si mostrerà appresso.

6. Il divieto di rilascio del passaporto, stabilito dall’art. 3 della L. n. 1185 del 1967, è correlato ad una condanna penale, ma non costituisce una sanzione penale, neppure accessoria. Lo stesso art. 3 non può dunque essere inteso come una norma di carattere penale, o processual-penale, e quindi la sua interpretazione deve rispondere a criteri teleologici (lo scopo della norma secondo l’intenzione del legislatore) anziché letterali e garantistici (favor rei, favor libertatis, etc.).

Si tratta, invero, di una norma di carattere essenzialmente amministrativo, correlata alla giustizia penale ma solo nel senso che il suo scopo è quello di assicurare l’effettività della sanzione penale e di evitare che il condannato si sottragga agli obblighi derivanti dalla sentenza.

In questa prospettiva, l’art. 3 deve essere interpretato nel senso che per la sua applicazione è indifferente che il condannato a pena detentiva sia ammesso ad espiare la pena stessa sottoponendosi ad una “misura alternativa” che comunque comporta restrizioni alla libertà personale; tanto più in quanto l’ammissione alla “misura alternativa” non esclude che il condannato, qualora non soddisfi tutti gli oneri connessi, venga chiamato a scontare effettivamente la pena detentiva propriamente detta.

7. Riguardo agli argomenti dedotti dall’appellante per dimostrare che il divieto di espatrio, sancito dall’art. 3, sarebbe incongruo, sproporzionato, ingiustamente afflittivo, contrario ai diritti fondamentali della persona umana, etc., anche in questo caso non sembrano necessarie confutazioni analitiche.

Basti ricordare che una fonte certamente non sospetta, quale la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo (sez. II, decisione 21 aprile 2011 n. 41199), ha escluso che costituisca violazione dei diritti umani fondamentali il diniego del passaporto finalizzato a garantire l’effettività delle condanne penali. La Corte ha affermato, fra l’altro, che il diniego del passaporto costituisce misura meno afflittiva rispetto alle conseguenze derivanti da un mandato di cattura internazionale (misura cui altrimenti dovrebbe ricorrere lo Stato per mettere in esecuzione la pena) e che pertanto quel diniego e la conseguente interferenza nella vita privata sono proporzionate rispetto al fine legittimamente perseguito (nella fattispecie, l’allora ricorrente lamentava di avere subìto gravissimi danni alla propria vita privata essendosi venuto a trovare nella condizione di immigrato sans papier nel paese che ospitava la sua latitanza, dal momento che il paese di origine gli aveva negato il rinnovo del passaporto scaduto nel frattempo).

8. Va respinta, ancora, la tesi che l’Amministrazione dell’Interno disporrebbe, in questa materia, di margini di discrezionalità che in questo caso non risulta siano stati esercitati e che, ove lo fossero, comporterebbero l’obbligo di una motivazione adeguata.

Ed invero, il testo della norma (“non possono ottenere il passaporto (….) coloro che debbano espiare una pena restrittiva della libertà personale o soddisfare una multa o ammenda (…)”) chiaramente esclude ogni apprezzamento discrezionale, riferito vuoi alla gravità dei reati, vuoi alla personalità del condannato, o altro.

9. Per tutte queste ragioni, vuoi per le ulteriori considerazioni svolte dal T.A.R. e che qui s’intendono confermate, l’appello va respinto.

Taluni argomenti secondari e residui dell’appellante, non presi qui partitamente in esame, sono comunque rigettati in quanto logicamente incompatibili con l’interpretazione delle norme, come sopra sviluppata.

Le spese del grado d’appello faranno carico all’appellante, ma saranno liquidate in misura ridotta, tenuto conto del limitato impegno difensivo dell’amministrazione.

 

P.Q.M.

 

Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Terza)

definitivamente pronunciando sull’appello, come in epigrafe proposto, lo rigetta e conferma la sentenza appellata. Condanna l’appellante al pagamento delle spese legali del grado in favore dell’Amministrazione costituita, liquidandole in Euro 1.000 oltre agli accessori di legge.

Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa.

Redazione