Il compenso relativo allo svolgimento di lavoro straordinario è subordinato all’autorizzazione dell’Amministrazione (Cons. Stato n. 6605/2012)

Redazione 21/12/12
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FATTO

1. Con ricorso al Tribunale amministrativo della Campania, sede di Napoli, rubricato al n. 8957/00, il sig. *********** chiedeva l’accertamento del proprio diritto:

a) al compenso per il lavoro straordinario che afferma di aver prestato nel periodo 1 dicembre 1973-30 giugno 1998,

b) all’indennità per ferie non godute nel periodo 1995-1998;

c) al risarcimento per danno da usura,

e la conseguente condanna dell’Amministrazione al pagamento di quanto risulterà dovuto, con interessi e rivalutazione monetaria.

Sosteneva al riguardo di avere prestato servizio presso il Comune di Ceppaloni dal 1 dicembre 1973 al 30 giugno 1998 come custode cimiteriale, con compiti di addetto alla manutenzione e pulizia, all’inumazione e pulizia, all’inumazione ed esumazione dei cadaveri.

L’orario di lavoro era stabilito in sei ore giornaliere, di fatto prolungato quotidianamente per un minimo di dieci ore settimanali e senza mai godere di ferie dal 1995 alla cessazione del rapporto; il rapporto si è svolto, inoltre, in disagiate condizioni ambientali.

Sosteneva di avere diritto alle sopra elencate voci retributive ovvero, in subordine, all’indennizzo per illecito arricchimento ai sensi dell’art. 2041 c.c.

Con la sentenza in epigrafe, n. 4217/09, il Tribunale amministrativo della Campania, sede di Napoli, *********, respingeva il ricorso.

2. Avverso la predetta sentenza il sig. *********** propone il ricorso in appello in epigrafe, contestando gli argomenti che ne costituiscono il presupposto e chiedendo la sua riforma e l’accoglimento del ricorso di primo grado.

La causa è stata assunta in decisione alla pubblica udienza del 20 novembre 2012.

DIRITTO

1. La controversia riguarda il diritto dell’appellante, dipendente del Comune di Ceppaloni, ad alcune voci retributive, non corrisposte dall’Amministrazione di appartenenza.

2. L’appellante chiede in primo luogo il riconoscimento del suo diritto al compenso per il lavoro straordinario che afferma di aver prestato nel periodo 1 dicembre 1973 – 30 giugno 1998, sostenendo di essere stato implicitamente autorizzato al suo svolgimento.

Afferma anzi di essere stato obbligato a svolgere prestazioni di lavoro straordinario a causa di disfunzioni organizzative imputabili alla stessa Amministrazione, e di avere subito un richiamo scritto quando si è rifiutato di svolgere prestazioni straordinarie.

La tesi non è fondata.

L’orientamento giurisprudenziale pacificamente seguito, che il Collegio condivide, non sorregge la tesi proposta dall’appellante.

C. di S. IV, 31 marzo 2005, n. 1445, ha per esempio stabilito che (massima) “se è vero che nel rapporto di pubblico impiego non può essere liquidato legittimamente alcun compenso per lavoro straordinario quando manchi una preventiva e formale autorizzazione al relativo svolgimento da parte dell’amministrazione, perché solo in questo modo è possibile controllare, nel rispetto dell’art. 97 cost., la reale esistenza delle ragioni di pubblico interesse che rendono opportuno il ricorso a tali prestazioni; tuttavia, detta autorizzazione può intervenire anche in sanatoria, nel caso di prestazioni di lavoro straordinario espletate per improcrastinabili esigenze di servizio e l’ autorizzazione stessa è implicita nello svolgimento dell’attività cui il dipendente deve obbligatoriamente partecipare oltre il normale orario d’ufficio”.

Secondo tale orientamento, quindi, il compenso relativo allo svolgimento di lavoro straordinario è subordinato all’autorizzazione dell’Amministrazione.

Il lavoro straordinario, infatti, può essere svolto, e deve essere pagato, sul presupposto che i competenti organi dell’Amministrazione abbiano riconosciuto la sua utilità, ed abbiano accertato la necessità e sostenibilità della relativa spesa.

E’ chiaro che qualora manchi l’autorizzazione preventiva espressa, spetta a chi pretende il relativo pagamento dimostrare l’esistenza dei presupposti per il pagamento, consistenti nell’autorizzazione a sanatoria o nella dimostrazione del verificarsi di una situazione di fatto che ha reso imprescindibile lo svolgimento delle prestazioni straordinarie, in applicazione del principio di cui all’art. 2967 c.c..

E’ vero che nel giudizio amministrativo tale onere è attenuato, in quanto la documentazione necessaria è normalmente nella disponibilità dell’Amministrazione, ma solo nei limiti della necessaria introduzione, nel processo, di un principio di prova, che legittimi l’esperimento di incombenti istruttori.

Nel caso di specie peraltro l’appellante non ha assolto nemmeno tale onere attenuato.

In particolare, non costituisce indizio della continua costrizione allo svolgimento di prestazioni straordinarie l’unica occasione nella quale egli sarebbe stato sanzionato per essersi rifiutato di svolgerle.

La domanda deve pertanto essere respinta.

3. L’appellante chiede poi il riconoscimento del suo diritto a percepire l’indennità per ferie non godute nel periodo 1995-1998.

L’appellante implicitamente ammette di non avere chiesto di usufruire delle ferie, sostenendo peraltro l’irrilevanza del fatto.

Neanche questa domanda può essere accolta in quanto la tesi dell’appellante è in contrasto con l’orientamento sostanzialmente pacifico della giurisprudenza, che il Collegio condivide.

Ad esempio, secondo C. di S., IV, 10 dicembre 2003, n. 8118, “il diritto al compenso sostitutivo delle ferie non godute, indipendentemente da una normativa espressa che lo prevede, discende direttamente dal mancato godimento, allorché sia certo che detta mancanza non sia stata determinata dalla volontà unilaterale del lavoratore”.

Atteso che, come appena sottolineato, l’appellante ha sostanzialmente ammesso che la mancata fruizione delle ferie è a lui imputabile, la pretesa deve essere respinta.

4. L’appellante chiede poi il riconoscimento del suo diritto al risarcimento per danno da usura.

Anche questa pretesa deve essere respinta, in quanto contrastante con pacifico orientamento giurisprudenziale, condiviso dal Collegio.

C. di S., VI, 8 marzo 2012, n. 1317, ha affermato che “nel caso di istanza di risarcimento del danno non patrimoniale per usura psicofisica derivante da attività lavorativa prestata anche nel giorno destinato al riposo settimanale senza aver goduto di riposo compensativo, il lavoratore è tenuto ad allegare e provare in termini reali, sia nell’an che nel quantum, il pregiudizio del suo diritto fondamentale alla salute psico-fisica, nei suoi caratteri naturalistici e nella sua dipendenza causale dalla violazione dei diritti patrimoniali di cui all’art. 36 della costituzione”.

Allo stesso modo, C. di S., VI, 15 luglio 2010, n. 4553, ha affermato che “il lavoratore che assume di essere stato adibito ad attività lavorativa anche nel giorno destinato al riposo settimanale senza aver goduto di riposo compensativo, ove chieda il risarcimento del danno non patrimoniale per usura psicofisica ovvero per la lesione del diritto alla salute o alla libera esplicazione delle attività realizzatrici della persona umana, è tenuto a provare in termini reali il pregiudizio subito, sia nell’an sia nel quantum”.

E’ quindi pacifico in giurisprudenza il principio secondo il quale il lavoratore che vanti il suo diritto al risarcimento del danno da usura psicofisica derivante dal mancato godimento del giorno di riposo ha l’onere di provare l’effettivo verificarsi del danno e di quantificarlo.

Atteso che l’appellante non ha assolto tale onere la pretesa deve essere respinta.

5. In subordine, l’appellante chiede l’applicazione dell’art. 2041 c.c.

La pretesa non può essere condivisa nemmeno sotto questo profilo.

Anche l’azione di cui all’art. 2041 c.c. presuppone infatti la dimostrazione dell’arricchimento del datore di lavoro (C. di S., V, 6 settembre 2000, n. 4699), dimostrazione totalmente mancata nella presente controversia.

6. Il ricorrente chiede infine il riconoscimento del suo diritto all’indennità di cui all’art. 26, lett. g), che richiama l’allegato B, lett. c), del d.P.R. 25 giugno 1983, n. 347, spettante al lavoratore addetto a “prestazioni di lavoro che comportano esposizione diretta e continua a rischi derivanti dalla adibizione alla infermeria per animali e alla raccolta e smaltimento di materiale stallatico, di raccolta e smaltimento rifiuti solidi urbani, di rimozione e seppellimento salme”.

La pretesa, totalmente trascurata dal primo giudice, deve essere approfondita in punto di fatto.

Occorre infatti accertare se, e in che termini, l’appellante sia stato preposto alle suddette mansioni, in particolare chiarendo se queste lo abbiano impegnato per porzioni consistenti della sua attività lavorativa ovvero se si sia trattato di adempimenti svolti solo occasionalmente.

Occorre quindi che il Segretario generale del Comune di Ceppaloni depositi agli atti del presente giudizio, entro novanta giorni dalla comunicazione o dalla notificazione del presente atto, una documentata relazione dalla quale risulti il numero delle rimozioni e seppellimento di salme alle quali ha partecipato l’appellante dall’entrata in vigore del d.P.R. 25 giugno 1983, n. 347, fino alla data del suo collocamento in quiescenza.

7. In conclusione, i capi di domanda di cui ai punti 2, 3, 4, 5, devono essere respinti.

Sospesa ogni pronuncia in rito, nel merito e sulle spese in ordine al capo di domanda di cui al punto 6, devono essere ordinati gli incombenti di cui sopra.

Spese al definitivo.

P.Q.M.

il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Quinta)

definitivamente pronunciando sulle domande di cui ai punti 2, 3, 4 e 5 della motivazione, proposte con l’appello n. 4217/09, come in epigrafe proposto, le respinge; sospesa ogni pronuncia in rito, nel merito e sulle spese sulla domanda di cui al punto 6, ordina al Segretario generale del Comune di Ceppaloni di depositare in giudizio i documenti di cui in motivazione entro novanta giorni dalla comunicazione o dalla notificazione della presente sentenza parziale.

Fissa la data del 14 maggio 2013 per l’ulteriore trattazione della controversia.

Spese al definitivo.

Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa.

Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 20 novembre 2012 

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