Giornalista denuncia pubblicamente una professoressa universitaria come raccomandata: è diritto di cronaca (Cass. n. 22600/2013)

Redazione 03/10/13
Scarica PDF Stampa

Svolgimento del processo

Con sentenza del 27/9/2006 la Corte d’Appello di Milano ha respinto il gravame interposto dalla sig. Z.M. nei confronti della pronunzia Trib. Milano 5/5/2003, di rigetto della domanda proposta nei confronti della società Rcs Editori s.p.a. e dei sigg. M.P. – direttore responsabile del quotidiano “(omissis) ” – e F.G. , di riparazione pecuniaria ex art. 12 L. stampa e di risarcimento dei danni asseritamente subiti all’esito di diffamazione e lesione della sua identità personale a mezzo stampa, per essere stata nell’articolo redatto dal F. dal titolo “A.R. ? Un tradimento anche politico”, pubblicato sull’edizione del … del suindicato quotidiano, presentata come beneficiarla di una manovra di potere volta a conferirle la cattedra universitaria.

Avverso la suindicata pronunzia della corte di merito la Z. propone ora ricorso per cassazione, affidato a 3 motivi, illustrati da memoria.

Resistono con controricorso la società Rcs Editori s.p.a. e il M. , che hanno presentato anche memoria; nonché, con separato controricorso, il F. .

Motivi della decisione

Con il 1 motivo la ricorrente denunzia violazione e/o falsa applicazione degli artt. 112, 116, 132 c.p.c., 51, 595 c.p., e “difetto” di motivazione su punti decisivi della controversia, in riferimento all’art. 360, 1 co. nn. 3, 4 e 5, c.p.c..
Si duole che la corte di merito non abbia valutato “i riferimenti dell’articolista a tristi esibizioni baronali, a episodi più gravi e laceranti, al paragone fra l’intervento in favore della prof. Z. e quello a sostegno di un candidato ignorante”.
Lamenta che la corte di merito “ha affermato apoditticamente la veridicità del contenuto dell’articolo”, erroneamente valutando le risultanze istruttorie e in particolare la prova testimoniale.
Il motivo è infondato.
Giusta principio consolidato nella giurisprudenza di legittimità, nell’azione di risarcimento dei danni da diffamazione a mezzo stampa la ricostruzione storica dei fatti, la valutazione del contenuto degli scritti, l’apprezzamento in concreto delle espressioni usate come lesive dell’altrui reputazione e la configurabilità o l’esclusione dell’esimente del diritto di cronaca o di critica, costituiscono accertamenti di fatto riservati al giudice di merito ed incensurabili in sede di legittimità se sorretti da motivazione congrua ed esente da vizi logico-giuridici (v. Cass., 10/1/2012, n. 80; Cass., 8/8/2007, n. 17395; Cass., 1/8/2002, n. 11420).
Si è al riguardo in particolare precisato che la lesione dell’onore e della reputazione altrui non si verifica quando la diffusione a mezzo stampa delle notizie costituisce legittimo esercizio del diritto di cronaca, condizionato all’esistenza dei seguenti presupposti: la verità oggettiva o anche solo putativa dei fatti riferiti, purché frutto di un serio e diligente lavoro di ricerca, tenuto conto della gravità della notizia pubblicata; l’interesse pubblico alla conoscenza del fatto (c.d. pertinenza); la correttezza formale dell’esposizione (c.d. continenza) (v. Cass., 20/10/2009, n. 22190).
Il limite della continenza connota anche il diritto di critica, il cui legittimo esercizio presuppone la rilevanza sociale dell’argomento trattato e la correttezza formale delle espressioni adoperate (v. Cass., 22/3/2012, n. 4545; Cass., 16/5/2008, n. 12420; Cass., 20/10/2006, n. 22527; Cass., 13/6/2006, n. 13646).
Il diritto di critica non si concreta, come quello di cronaca, nella narrazione di fatti, ma si esprime in un giudizio, o, più genericamente, in una opinione, come tale fondata su un’interpretazione dei fatti e dei comportamenti dal punto di vista di chi la manifesta.
È pertanto di carattere imprescindibilmente soggettivo, fermo restando che il fatto o il comportamento oggetto della critica deve corrispondere a verità, sia pure non assoluta bensì “ragionevolmente” putativa, per le fonti da cui proviene o per altre circostanze oggettive (v. Cass., 6/4/2011, n. 7847; Cass., 19/12/2006, n. 27141; Cass., 11/1/2005, n. 379).
Il diritto di critica giornalistica, come questa Corte ha già avuto occasione di porre in rilievo, può essere invero esercitato anche in modo “graffiante”, purché vi sia peraltro proporzione tra l’importanza del fatto e la necessità della sua esposizione anche in chiave critica rispetto ai contenuti espressivi con i quali la critica è esercitata, non dovendo questa pertanto trascendere in attacchi e aggressioni personali diretti a colpire, sul piano individuale, la figura morale del soggetto criticato (v. Cass., 6/8/2007, n. 17180; Cass., 20/10/2006, n. 22527).
In tale quadro, il giudizio di legittimità è limitato alla verifica del rispetto, oltre che del suindicato canone della continenza, della congruità e della logicità dell’argomentazione posta dal giudice a base della decisione, rimanendo per converso precluso un nuovo e diverso accertamento del merito della controversia, la valutazione del contenuto degli scritti e l’apprezzamento della loro attitudine offensiva, nonché l’esclusione della sussistenza dell’esercizio del diritto di critica, sostanziandosi in accertamenti di fatto, apprezzamenti e valutazioni riservati al giudice del merito (v. Cass., 6/4/2011, n. 7847; Cass., 19/1/2010, n. 690; Cass. 8/8/2007, n. 17395; Cass., 15/2/2006, n. 3284).
In ordine alla configurabilità del legittimo esercizio del diritto di cronaca e del diritto di critica (che rispetto al primo consente l’uso di un linguaggio più pungente ed incisivo) si è nella giurisprudenza di legittimità in realtà delineata una sostanziale equiparazione di base dei presupposti, precisandosi che presupposti per il legittimo esercizio di entrambi sono: a) l’interesse al racconto, ravvisabile quando anche non si tratti di interesse della generalità dei cittadini, ma di quello generale della categoria di soggetti ai quali, in particolare, si indirizza la pubblicazione di stampa; b) la correttezza formale e sostanziale dell’esposizione dei fatti, nel che propriamente si sostanzia la c.d. continenza, nel senso che l’informazione di stampa non deve trasmodare in argumenta ad hominem né assumere contenuto lesivo dell’immagine e del decoro; c) la corrispondenza tra la narrazione ed i fatti realmente accaduti, nel senso che deve essere assicurata l’oggettiva verità del racconto, la quale tollera, perciò, le inesattezze considerate irrilevanti se riferite a particolari di scarso rilievo e privi di valore informativo (v. Cass., 18/10/2005, n. 20140; e, conformemente, Cass., 22/3/2013, n. 7274).
Allorquando deve accertare la sussistenza del carattere diffamatorio di un fatto, il giudice è tenuto allora a rilevare tutte le circostanze allegate e provate, giacché l’eventuale configurabilità di un’esimente esclude il carattere diffamatorio del fatto (v. Cass., 30/1/2013, n. 2190).
Al fine di valutare se ricorrano eventuali cause di giustificazione, quali il diritto di cronaca, il diritto di critica e il diritto di satira, è allora necessaria la disamina dell’intero contesto in cui si inseriscono le espressioni censurate; solamente in tal modo può accertarsi se parole oggettivamente offensive conservino siffatto carattere una volta poste in connessione con quelle che le precedono e le seguono, considerato altresì il tono e lo spirito dell’intero scritto (come anche di valutare il caso opposto, se parole oggettivamente neutre non pervengano ad assumere valenza offensiva in ragione del contesto in cui sono inserite) (v. Cass., 10/1/2012, n. 80).
Orbene, dei suindicati principi la corte di merito ha nell’impugnata sentenza fatto in realtà piena e corretta applicazione.
In particolare là dove, dopo aver ribadito che “come già osservato dal Tribunale il punto focale della controversia è costituito dal passaggio dell’articolo nel quale il F. parla di azione del Rosa intrapresa da quest’ultimo per far chiamare alla cattedra di letteratura moderna e contemporanea della sapienza la sua compagna di vita Z.M. (ai danni di G.A. )”, e che “come osservato puntualmente dal tribunale, l’azione esercitata per il conseguimento della cattedra è addebitata ad A.R. ed investe pertanto le modalità comportamentali di un terzo e non della Z. e l’essere stata eventualmente beneficiarla di manovre e pressioni di per sé non intacca l’identità personale”, si è dal giudice del gravame di merito posto in rilievo come nello “scritto in questione, pure pungente, e per alcuni versi, polemico”, il diritto di critica risulti essere stato legittimamente esercitato, ricorrendo nella specie l’utilità sociale dell’informazione, la verità oggettiva o anche solo putativa, la forma civile dell’esposizione e della relativa valutazione.
Quanto alle doglianze circa l’operata valutazione delle acquisite emergenze probatorie, va ribadito che il vizio di motivazione ex artt. 360, 1 co. n. 5, c.p.c. si configura solamente quando dall’esame del ragionamento svolto dal giudice del merito, quale risulta dalla sentenza, sia riscontrabile il mancato o insufficiente esame di punti decisivi della controversia prospettati dalle parti o rilevabili d’ufficio, ovvero un insanabile contrasto tra le argomentazioni adottate, tale da non consentire l’identificazione del procedimento logico giuridico posto a base della decisione (in particolare cfr. Cass., 25/2/2004, n. 3803).
Tale vizio non consiste pertanto nella difformità dell’apprezzamento dei fatti e delle prove preteso dalla parte rispetto a quello operato dal giudice di merito (v. Cass., 14/3/2006, n. 5443; Cass., 20/10/2005, n. 20322).
La deduzione di un vizio di motivazione della sentenza impugnata con ricorso per cassazione conferisce infatti al giudice di legittimità non già il potere di riesaminare il merito dell’intera vicenda processuale sottoposta al suo vaglio, bensì la mera facoltà di controllo, sotto il profilo della correttezza giuridica e della coerenza logico-formale, delle argomentazioni svolte dal giudice del merito, cui in via esclusiva spetta il compito di individuare le fonti del proprio convincimento, di assumere e valutare le prove, di controllarne l’attendibilità e la concludenza, di scegliere, tra le complessive risultanze del processo, quelle ritenute maggiormente idonee a dimostrare la veridicità dei fatti ad esse sottesi, di dare (salvo i casi tassativamente previsti dalla legge) prevalenza all’uno o all’altro dei mezzi di prova acquisiti (v. Cass., 7/3/2006, n. 4842;. Cass., 27/4/2005, n. 8718).
Il vizio di motivazione, vale per altro verso osservare (anche) a completamento di quanto già più sopra indicato, non può nemmeno essere utilizzato per far valere la non rispondenza della ricostruzione dei fatti operata dal giudice del merito al diverso convincimento soggettivo della parte, non valendo esso a proporre in particolare un pretesamente migliore e più appagante coordinamento dei molteplici dati acquisiti, atteso che tali aspetti del giudizio, interni all’ambito della discrezionalità di valutazione degli elementi di prova e dell’apprezzamento dei fatti attengono al libero convincimento del giudice, e non ai possibili vizi del relativo iter formativo rilevanti ai sensi dell’art. 112 c.p.c. (v. Cass., 9/5/2003, n. 7058).
Il motivo di ricorso per cassazione viene altrimenti a risolversi in un’inammissibile istanza di revisione delle valutazioni e dei convincimenti del giudice del merito, id est di nuova pronunzia sul fatto, estranea alla natura ed alle finalità del giudizio di legittimità.
Né ricorre d’altro canto vizio di omessa pronuncia su punto decisivo qualora la soluzione negativa di una richiesta di parte sia implicita nella costruzione logico-giuridica della sentenza, incompatibile con la detta domanda (v. Cass., 18/5/1973, n. 1433; Cass., 28/6/1969, n. 2355). Quando cioè la decisione adottata in contrasto con la pretesa fatta valere dalla parte comporti necessariamente il rigetto di quest’ultima, anche se manchi una specifica argomentazione in proposito (v. Cass., 21/10/1972, n. 3190; Cass., 17/3/1971, n. 748; Cass., 23/6/1967, n. 1537).
Secondo risalente orientamento di questa Corte, al giudice di merito non può infatti imputarsi di avere omesso l’esplicita confutazione delle tesi non accolte o la particolareggiata disamina degli elementi di giudizio non ritenuti significativi, giacché né l’una né l’altra gli sono richieste, mentre soddisfa l’esigenza di adeguata motivazione che il raggiunto convincimento come nella specie risulti da un esame logico e coerente, non di tutte le prospettazioni delle parti e le emergenze istruttorie, bensì di quelle ritenute di per sé sole idonee e sufficienti a giustificarlo.
In altri termini, non si richiede al giudice del merito di dar conto dell’esito dell’avvenuto esame di tutte le prove prodotte o comunque acquisite e di tutte le tesi prospettategli, ma di fornire una motivazione logica ed adeguata dell’adottata decisione, evidenziando le prove ritenute idonee e sufficienti a suffragarla, ovvero la carenza di esse (v. Cass., 9/3/2011, n. 5586).
Orbene, tali principi risultano invero non osservati dall’odierna ricorrente che, lungi dal denunziare vizi della sentenza gravata rilevanti sotto i ricordati profili, formula deduzioni che si risolvono sostanzialmente nella mera doglianza circa l’asseritamente erronea attribuzione da parte del giudice del merito agli elementi valutati di un valore ed un significato difformi dalle sue aspettative (v. Cass., 20/10/2005, n. 20322), e nell’inammissibile pretesa di una lettura dell’asserto probatorio diversa da quella nel caso operata dai giudici di merito (cfr. Cass., 18/4/2006, n. 8932).
Per tale via la ricorrente in realtà sollecita, contra ius e cercando di superare i limiti istituzionali del giudizio di legittimità, un nuovo giudizio di merito, in contrasto con il fermo principio di questa Corte secondo cui il giudizio di legittimità non è un giudizio di merito di terzo grado nel quale possano sottoporsi alla attenzione dei giudici della Corte di Cassazione elementi di fatto già considerati dai giudici del merito, al fine di pervenire ad un diverso apprezzamento dei medesimi (cfr. Cass., 14/3/2006, n. 5443).
Con il 2 motivo la ricorrente denunzia violazione e/o falsa applicazione degli artt. 112 c.p.c., 2 Cost., e “difetto” di motivazione su punti decisivi della controversia, in riferimento all’art. 360, 1 co. nn. 3, 4 e 5, c.p.c..
Formula al riguardo i seguenti quesiti di diritto: “1) Se l’identità personale costituisca un bene distinto dalla reputazione, tutelato dall’art. 2 Cost. Rep.”; 2) Se in caso di allegazione della lesione sia della reputazione che dell’identità personale, il giudice debba motivare distintamente in ordine alle due lesioni dedotte.
Con il 3 motivo denunzia violazione e/o falsa applicazione degli artt. 112 c.p.c., 2043, 2059 c.c., e “difetto” di motivazione su punti decisivi della controversia, in riferimento all’art. 360, 1 co. nn. 3, 4 e 5, c.p.c.
Formula al riguardo il seguente quesito di diritto: “Se la domanda di risarcimento del danno da lesione della personalità debba formare oggetto di pronuncia distinta da quella in ordine all’accertamento dell’esistenza di detta lesione”.
I motivi, che possono congiuntamente esaminarsi in quanto connessi, sono inammissibili in applicazione degli artt. 366, 1 co. n. 4, 366-bis e 375, 1 co. n. 5, c.p.c..
Essi recano quesiti di diritto formulati in termini invero difformi dallo schema. al riguardo delineato da questa Corte, non recando la riassuntiva ma puntuale indicazione degli aspetti di fatto rilevanti, del modo in cui i giudici del merito li hanno rispettivamente decisi, delle diverse regole di diritto la cui applicazione avrebbe condotto a diversa decisione, a tale stregua appalesandosi astratti e generici, privi di riferibilità al caso concreto in esame e di decisività, tali cioè da non consentire, in base alla loro sola lettura (v. Cass., Sez. Un., 27/3/2009, n. 7433; Sez. Un., 14/2/2008, n. 3519; Cass. Sez. Un., 5/2/2008, n. 2658; Cass., 7/4/2009, n. 8463), di individuare la soluzione adottata dalla sentenza impugnata e di precisare i termini della contestazione (cfr. Cass., Sez. Un., 19/5/2008, n. 12645; Cass., Sez. Un., 12/5/2008, n. 11650; Cass., Sez. Un., 28/9/2007, n. 20360), nonché di poter circoscrivere la pronunzia nei limiti del relativo accoglimento o rigetto (cfr., Cass., Sez. Un., 26/03/2007, n. 7258), senza che essi debbano richiedere, per ottenere risposta, una scomposizione in più parti prive di connessione tra loro (cfr. Cass., 23/6/2008, n. 17064).
La norma di cui all’art. 366 bis c.p.c. è d’altro canto insuscettibile di essere interpretata nel senso che il quesito di diritto possa, e a fortiori debba, desumersi implicitamente dalla formulazione del motivo, giacché una siffatta interpretazione si risolverebbe nell’abrogazione tacita della norma in questione (v. Cass. Sez. Un., 5/2/2008, n. 2658; Cass., Sez. Un., 26/03/2007, n. 7258).
Tanto più che nel caso i motivi risultano formulati in violazione del requisito richiesto ex art. 366, 1 co. n. 6, c.p.c., atteso che la ricorrente fa richiamo ad atti e documenti del giudizio di merito [es., all’atto di citazione notificato in data 23.5.96”, alla sentenza del giudice di prime cure, all’atto di appello, al “terzo motivo dell’appello”, al “capo A delle conclusioni”] limitandosi a meramente richiamarli, senza invero debitamente – per la parte d’interesse in questa sede – riprodurli nel ricorso ovvero, laddove riprodotti, senza fornire puntuali indicazioni necessarie ai fini della relativa individuazione con riferimento alla sequenza dello svolgimento del processo inerente alla documentazione, come pervenuta presso la Corte di Cassazione, al fine di renderne possibile l’esame (v., da ultimo, Cass., 16/3/2012, n. 4220), con precisazione (anche) dell’esatta collocazione nel fascicolo d’ufficio o in quello di parte, rispettivamente acquisito o prodotto in sede di giudizio di legittimità (v. Cass., 23/3/2010, n. 6937; Cass., 12/6/2008, n. 15808; Cass., 25/5/2007, n. 12239, e, da ultimo, Cass., 6/11/2012, n. 19157), la mancanza anche di una sola di tali indicazioni rendendo il ricorso inammissibile (cfr. Cass., 19/9/2011, n. 19069; Cass., 23/9/2009, n. 20535; Cass., 3/7/2009, n. 15628; Cass., 12/12/2008, n. 29279. E da ultimo, Cass., 3/11/2011, n. 22726; Cass., 6/11/2012, n. 19157).
A tale stregua, non deduce le formulate censure in modo da renderle chiare ed intellegibili in base alla lettura del solo ricorso, non ponendo questa Corte nella condizione di adempiere al proprio compito istituzionale di verificare il relativo fondamento (v. Cass., 18/4/2006, n. 8932; Cass., 20/1/2006, n. 1108; Cass., 8/11/2005, n. 21659; Cass., 2/81/2005, n. 16132; Cass., 25/2/2004, n. 3803; Cass., 28/10/2002, n. 15177; Cass., 12/5/1998 n. 4777) sulla base delle sole deduzioni contenute nel ricorso.
Non sono infatti sufficienti affermazioni – come nel caso -apodittiche, non seguite da alcuna dimostrazione, dovendo essere questa Corte viceversa posta in grado di orientarsi fra le argomentazioni in base alle quali si ritiene di censurare la pronunzia impugnata (v. Cass., 21/8/1997, n. 7851), le stesse finendo invero per inammissibilmente sostanziarsi nella tesi difensiva dal medesimo prospettata.
Risponde d’altro canto a principio consolidato nella giurisprudenza di legittimità che il disposto di cui all’art. 366, 1 co. n. 6, c.p.c. va invero osservato anche in caso di denunzia di violazione ex art. 112 c.p.c., dovendo specificamente indicarsi l’atto difensivo o il verbale di udienza nei quali le domande o le eccezioni sono state proposte, onde consentire al giudice di verificarne, in primo luogo, la ritualità e la tempestività, e, in secondo luogo, la decisività (v. Cass., 31/1/2006, n. 2138; Cass., 27/1/2006, n. 1732; Cass., 4/4/2005, n. 6972; Cass., 23/1/2004, n. 1170; Cass., 16/4/2003, n. 6055).
È infatti al riguardo noto che, pur divenendo nell’ipotesi in cui vengano denunciati con il ricorso per cassazione – errores in procedendo giudice anche del fatto (processuale), con conseguente potere – dovere della Corte di legittimità di procedere direttamente all’esame e all’interpretazione degli atti processuali, preliminare ad ogni altra questione si prospetta in ogni caso la disamina dell’ammissibilità del motivo in relazione ai termini in cui è stato esposto, sicché solamente all’esito del relativo positivo accertamento diviene possibile valutarne la fondatezza nel merito, ed esclusivamente nell’ambito di quest’ultima valutazione questa Corte può e deve procedere direttamente all’esame ed all’interpretazione degli atti processuali (v. Cass., 23/1/2006, n. 1221).
In altri termini, va (anche) nel caso osservato il principio generale in base al quale il ricorrente che proponga in sede di legittimità una determinata questione giuridica implicante accertamenti di fatto ha l’onere non solo di allegarne l’avvenuta deduzione avanti al giudice di merito ma, in ossequio al disposto di cui all’art. 366, 1 co. n. 6, c.p.c., di indicare altresì in quale atto del giudizio precedente ciò sia avvenuto, al fine di consentire il controllo ex actis della veridicità di tale asserzione, prodromico alla disamina nel merito della questione medesima (cfr., con riferimento a diverse ipotesi, Cass., 19/6/2012, n. 10032; Cass. 20/10/2006, n. 22540; Cass., 27/5/2010, n. 12992; Cass. 27/9/2006, n. 21020).
Orbene, nel non osservare i suindicati principi, la ricorrente non pone questa Corte nella condizione di compiutamente apprezzare quale fosse l’oggetto della domanda originariamente rivolta al giudice del gravame di merito, la pronunzia del giudice di prime cure, l’atto di appello. E di verificare la sussistenza dei presupposti della violazione lamentata.
Quanto al pure denunziato vizio di motivazione, i motivi non recano invero la prescritta “chiara indicazione” -secondo lo schema e nei termini delineati da questa Corte- delle relative “ragioni”, non risultando riassuntivamente indicato il fatto controverso, gli elementi la cui valutazione avrebbe dovuto condurre a diversa decisione, gli argomenti logici per i quali tale diversa valutazione sarebbe stata necessaria, inammissibilmente rimettendosene l’individuazione all’attività esegetica della medesima, con interpretazione che si risolverebbe nell’abrogazione tacita della norma in questione (cfr. Cass. Sez. Un., 5/2/2008, n. 2658; Cass., Sez. Un., 26/03/2007, n. 7258), a fortiori non consentita in presenza di formulazione come detto nella specie altresì violativa dell’art. 366, 1 co. n. 6, c.p.c..
Il 2 e il 3 motivo del ricorso si palesano dunque privi dei requisiti a pena di inammissibilità richiesti dai sopra richiamati articoli, nella specie applicantisi nel testo modificato dal D. Lgs. 2 febbraio 2006, n. 40, essendo stata l’impugnata sentenza pubblicata successivamente alla data (2 marzo 2006) di entrata in vigore del medesimo.
All’inammissibilità e infondatezza dei motivi consegue il del ricorso.
Le spese, liquidate come in dispositivo, seguono la soccombenza.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso. Condanna la ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di cassazione, che liquida in complessivi Euro 10.200,00, di cui Euro 10.000,00 per onorari, oltre ad accessori come per legge, in favore del F. ; e in complessivi Euro 12.200,00, di cui Euro 12.000,00 per onorari, oltre ad accessori come per legge, in favore della società Rcs Editori s.p.a. e del M. .

Redazione