Finanziamenti illeciti: condannata la società ai sensi del D.Lgs. 231/2001 (Cass. pen. n. 17451/2012)

Redazione 10/05/12
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Svolgimento del processo

1. Con sentenza emessa il 13/5/2010 ex art. 442 cod. proc. pen., il Giudice dell’udienza preliminare presso il Tribunale di Cosenza ha:

a) Condannato la sig.ra M. alla pena di un anno di reclusione in relazione ai reati, uniti dal vincolo della continuazione, previsti dall’art. 640-bis cod. pen. (capo A), dall’art. 483 cod. pen. (capo B), dall’art. 483 cod. pen. (capo C) e dal D.Lgs. 10 marzo 2000, n. 74, art. 2 (capo D), previo assorbimento del reato sub C nella contestazione di cui al capo D;

b) Ordinato la confisca “per equivalente” di quanto in sequestro fino all’ammontare di 291.510,90 Euro;

c) Dichiarato “Il Mastro Birraio di Calabria S.r.l.” responsabile dell’illecito amministrativo contestato al capo F D.Lgs. 8 giugno 2001, n. 231, ex art. 24, commi 1 e 2, e applicato le relative sanzioni, tra cui la sanzione pecuniaria di 20.000,00 Euro, la sanzione interdittiva prevista dal D.Lgs. 8 giugno 2001, n. 231, art. 9, lett. e) e la confisca “per equivalente” dei beni in sequestro fino all’ammontare di 291.510,90 Euro “senza duplicazione con la confisca disposta nei confronti di M.T.”. 2. Il Giudice ha ritenuto provate le accuse mosse alla sig.ra M., amministratore unico della società “Il Mastro Birraio di Calabria S.r.l.” mediante una contestazione molto articolata che ravvisava nella condotta dell’imputata una complessa attività di frode, posta in essere anche mediante le false fatturazioni contestate al capo d), in danno del Ministero delle attività produttive e della banca concessionaria dello stesso (M.P.S. Capital Service Banca per l’Impresa) nel contesto della procedura per l’acquisto da parte della società calabrese di un impianto per la produzione di birra fornito dall’industria slovacca “Potravinarske Strojarne Svidnik a.s.”; frode che ha comportato l’ingiusto profitto di 291.510,90 Euro erogati a titolo di contributo in conto impianti. Le modalità della frode sono state ravvisate dal Giudice dell’udienza preliminare nella utilizzazione di fatture per operazioni inesistenti, quali la fattura n. (omissis) del 26/5/2004 emessa dalla “*******************” relativa ad operazioni di intermediazione oggettivamente e soggettivamente false, e le fatture n. (omissis) del 2004 e n. (omissis) del 2005 emesse dalla “Emi S.r.l.”, fittiziamente interposta rispetto alla “Mep di ************”, che hanno consentito di esporre costi molto maggiori di quelli realmente sopportati per l’acquisto degli impianti; le fatture sopra indicate hanno costituito il fondamento della dichiarazione di contenuto falso indirizzata il 13/472007 dalla sig.ra M. alla banca concessionaria ai sensi del D.P.R. n. 445 del 2000, tra l’altro attestando l’acquisto di macchinari “nuovi di fabbrica” in contrasto con la previsione della L. n. 488 del 1992, nonchè della dichiarazione indirizzata alla banca concessionaria in data 11/6/2007 con cui falsamente garantiva la competitività del prezzo praticato dal fornitore estero e la correttezza dell’operato.

Il Giudice dell’udienza preliminare ha, inoltre, ritenuto sussistere gli estremi della responsabilità della società “Il Mastro Birraio di Calabria S.r.l.”, così come contestata ai sensi del D.Lgs. 8 giugno 2001, n. 231, art. 24, commi 1 e 2, in relazione alle erogazioni pubbliche indebitamente e fraudolentemente percepite grazie alle condotte dell’amministratrice.

3. Con la sentenza in data 30/6/2011 la Corte di appello di Catanzaro ha respinto i numerosi motivi di impugnazione proposti dall’imputata e dalla società citata, confermando la decisione del primo giudice.

La Corte di appello ha respinto, in primo luogo, le censure concernenti la utilizzabilità delle dichiarazioni spontaneamente rese agli inquirenti dai sigg. G., B. e P., persone che all’epoca non rivestivano ancora formalmente la qualità di persone soggette a indagine; ha, poi, ritenuto che anche nell’ipotesi che tali dichiarazioni dovessero essere espunte dal materiale probatorio, la sentenza di primo grado non avrebbe dovuto essere annullata, posto che il Giudice dell’udienza preliminare aveva solo marginalmente fatto uso del loro contenuto ai fini della decisione e risultando la penale responsabilità dell’imputata da plurimi e diversi elementi di prova, tra cui le dichiarazioni del teste A..

La corte territoriale ha respinto, poi, la richiesta di rinnovazione dell’istruttoria ai fini della produzione di atti di indagine difensiva, “essendo il giudizio definibile allo stato degli atti”.

Ha, quindi, respinto le censure degli appellanti (sintetizzate alle pagine 5 e ss. della sentenza) in ordine alla sussistenza della frode e della fittizietà delle fatture contestate.

I giudici di appello hanno ritenuto ampiamente provata (pagine 8 e ss.) l’esistenza dei fatti posti a fondamento della condanna; la inesistenza delle società “************” e “Emi” quali strutture operative, essendo le stesse risultate prive di sede effettiva, di personale e di struttura, e in parte di scritture contabili; la natura fittizia della interposizione della soc. “************”, come compreso dal sig. S., verificatore per conto della banca concessionaria; la natura fittizia della interposizione della società “Emi” (in particolare, pagg. 11-13); l’esistenza di un valore effettivo delle prestazioni assai inferiore a quello fatturato, come da consulenza T.; l’esistenza di apporti di capitale da parte dei soci di fatto che si caratterizzano per essere successivi al pervenimento della prima quota di finanziamento e per essere stati operati in larga parte in contanti (oltre 390.000 Euro su un totale di 577.250,00 per l’anno 2004 e oltre 100.000 Euro per l’anno 2005) con provenienza solo minima (attorno ai 20.000 Euro) dai conti o dai depositi dei soci.

I giudici di appello hanno escluso la riconducibilità dei fatti alla previsione dell’art. 316-ter cod. pen., posto che l’art. 640-bis cod. pen. risulta correttamente applicato in ragione dell’esistenza della induzione in errore dell’ente pubblico. Hanno, poi, escluso che l’imputata sia rimasta estranea al mancato versamento dell’*** all’Erario, evento tipico della cd. “frode carosello” posta in essere mediante la interposizione fittizia rispetto all’effettivo contraente comunitario. Così accertata la responsabilità della sig.ra M., i giudici di appello hanno ritenuto equa la pena inflitta e fondata la misura della confisca “per equivalente” disposta nei confronti dell’imputata e della società “Il Mastro Birraio di Calabria S.r.l.” con riferimento all’intero importo erogato, che va qualificato come profitto del reato, non essendo condivisibile la tesi che vorrebbe assoggettabile a confisca solo la quota di erogazione al netto delle spese sostenute.

4. Avverso la decisione della Corte di appello hanno proposto ricorso tramite i Difensori sia la sig.ra M. sia il sig. Mo., quale legale rappresentante della società “Il Mastro Birraio di Calabria S.r.l.”.

La sig.ra M. in sintesi lamenta:

a) Errata applicazione di legge ai sensi dell’art. 606 c.p.p., lett. b) in relazione agli artt. 420-ter e 599 c.p.p. e art. 178 c.p.p., lett. c) con riferimento all’ordinanza dibattimentale con cui la Corte di appello ha escluso l’esistenza di legittimo impedimento dell’imputata fondato sulla certificazione medica di gastroenterite acuta con stato febbrile;

b) Errata applicazione di legge ai sensi dell’art. 606 c.p.p., lett. b) in relazione agli artt. 63, 64 e 191 cod. proc. pen. con riferimento alla utilizzazione delle dichiarazioni dei sigg.

G., B. e P., amministratori delegati pro tempore delle società “************” ed “Emi”, versandosi in ipotesi di inutilizzabilità “patologica” e come tale operante anche in sede di rito abbreviato;

c) Errata applicazione di legge e vizio di motivazione ai sensi dell’art. 606 c.p.p., lett. b) ed e) in relazione agli artt. 125, 546 e 182 cod. proc. pen. e artt. 640, 640-bis, 483 cod. pen. e D.Lgs. 10 marzo 2000, n. 74, art. 2 con riferimento al giudizio di penale responsabilità che viene fondato in modo erronea su un inesistente fittizietà delle fatturazioni e sulla infondata convinzione della falsa interposizione delle società “************” (pag.5 e ss. ricorso) e “Emi” (pag.14);

d) Errata applicazione di legge ai sensi dell’art. 606 c.p.p., lett. b) in relazione agli artt. 483, 640 e 640-bis cod. pen., artt. 15, 84 e 316-ter cod. pen.: una volta ritenuta applicabile ai fatti in esame la fattispecie prevista dagli artt. 640 e 640-bis cod. pen., i giudici di appello avrebbero dovuto ritenere assorbiti in essa i reati ex art. 483 cod. pen. contestati ai capi B e C della rubrica.

La giurisprudenza pacificamente considera ricomprese le ipotesi di falso nella fattispecie prevista dall’art. 316-ter cod. pen. (Sez. Un. penali, sentenza n. 16568 del 2007), con la conseguenza che le medesime ipotesi debbono ritenersi ricomprese anche all’interno dell’ipotesi di frode ex art. 640-bis cod. pen., che si pone in rapporto di specialità e “assorbe” quella prevista dall’art. 316-ter cod. pen.. e) Errata applicazione di legge ai sensi dell’art. 606 c.p.p., lett. b) in relazione agli artt. 640, 640-bis, 316-ter, 84 e 15 cod. pen. per avere i giudici di appello erroneamente ritenuto applicabile l’ipotesi di frode ex art. 640 e 640-bis cod. pen. e non la meno grave ipotesi ex art. 316-ter cod. pen., difettando nella condotta della ricorrente, che si è limitata a presentare le fatture contestate, il “quid pluris” richiesto dalla ipotesi x art. 640-bis cod. pen.; l’accoglimento della censura comporterebbe l’annullamento della sentenza anche nel capo che dispone la confisca “per equivalente”, consentita esclusivamente per il reato previsto dall’art. 321 cod. pen. (Sez. Un. penali, sentenza Caruso del 25/6/2009);

f) Errata applicazione di legge ai sensi dell’art. 606 c.p.p., lett. b) in relazione agli artt. 240, 640-quater e 322-ter cod. pen. per avere i giudici di appello erroneamente: 1) omesso di motivare in ordine alla censura con cui si lamentava la duplicazione della misura ablatoria, che ha avuto ad oggetto sia gli impianti e lo stabilimento, sia la somma erogata dall’ente pubblico; 2) esteso la confisca all’intero ammontare delle erogazioni e non alla minor somma corrispondente al profitto indebitamente conseguito grazie alla esposizione di costi in parte fittizi.

Il Sig. M., quale legale rappresentante della società “Il Mastro Birraio di Calabria S.r.l.” in qualità di custode e amministratore giudiziario, con l’atto di ricorso in sintesi lamenta:

a) Errata applicazione di legge ai sensi dell’art. 606 c.p.p., lett. b) in relazione all’art. 63 cod. proc. pen. con riferimento alle dichiarazioni spontanee rese alla polizia giudiziaria dai sigg.

G. (legale rappresentante della soc. “************”), B. (legale rappresentante della soc. “Emi”) e P. (titolare della ditta “M.E.P. di ***********”), avendo erroneamente i giudici di appello ritenuto tali dichiarazioni utilizzabili, sebbene costoro avrebbero dovuto essere ascoltati fin dall’inizio con le garanzie difensive spettanti alla persona indagata, e avendone altrettanto erroneamente fatto uso in motivazione (dichiarazioni B. richiamate a pag.13);

b) Vizio motivazionale ai sensi dell’art. 606 c.p.p., lett. e) per avere la Corte di appello ritenuto marginali le dichiarazioni sopra ricordate e avere successivamente fatto uso delle stesse per motivare al propria decisione;

c) Errata applicazione di legge e vizio di motivazione ai sensi dell’art. 606 c.p.p., lett. b) ed e) con riferimento al D.Lgs. 8 giugno 2001, n. 231, art. 5, difettando qualsiasi vantaggio economico per la società quale conseguenza delle condotte dell’amministratrice, tanto che la stessa motivazione della sentenza impugnata parla (pagg. 10 e 11) di “grave svantaggio economico” a seguito del compenso di 100 mila Euro riconosciuto alla società “************”;

d) Vizio motivazionale ai sensi dell’art. 606 c.p.p., lett. e) e violazione di legge ai sensi dell’art. 606 c.p.p., lett. b) in relazione all’art. 192 c.p.p., comma 2, e travisamento del fatto con riferimento alla ritenuta interposizione fittizia di aziende per l’acquisto di macchinar e all’esistenza del “flusso di ritorno”. La motivazione esposta dai giudici di appello sarebbe manifestamente illogica nel momento in cui; ritenuta non rilevante la mancata dimostrazione dei flussi di denaro “di ritorno”, ha poi concentrato la propria attenzione sulle uscite di denaro contante dai conti della “************” e sui conferimenti che i soci apportarono in contanti ala società “Il Mastro Birraio di Calabria”; difettano, tuttavia, elementi concreti che attestino restituzioni non ufficiali di denaro e non è fornita alcuna spiegazione della ragione per cui nell’anno 2004 i soci della società calabrese hanno effettuato conferimenti per oltre 577.000 Euro, di cui oltre 390.000 Euro in contanti, a fronte di trasferimenti dalla banca concessionaria per soli 216.000 Euro. A fronte di queste incoerenze la motivazione elenca una serie di circostanze che dimostrerebbero la fittizietà della interposizione delle due società ricordate, circostanze che ad un più attento esame si rivelano illogiche e contraddittorie (pag. 35 e ss. del ricorso), a partire dalle conclusioni della consulenza disposta dal Pubblico ministero, puntualmente contestate dai consulenti incaricati dalla difesa. A ciò si aggiunga il vero e proprio travisamento delle dichiarazioni del teste A. in cui sono incorsi i giudici di merito (pag.47 e ss.); a tale proposito il ricorso evidenzia (pag.50) la contraddittorietà esistente tra la mancata acquisizione degli atti d’indagine difensiva e il richiamo, alle pagine 9 e 12, al contenuto delle dichiarazioni delle persone sentite dalla difesa. Osserva, poi, la ricorrente (pag.51 e ss.) che le caratteristiche sospette della società “************”, elencate dai giudici di appello, vengono poste impropriamente a carico della sig.ra M. e della società da lei amministrata che, invece, ha regolarmente onorato le fatture emesse; osserva altresì che i giudici di appello hanno omesso di considerare che il contratto tra “Il Mastro Birraio di Calabria” e la “************” esplicitava con chiarezza i rispettivi ruoli, circostanza incompatibile con un progetto fraudolento. Altrettanto errata è la lettura che i giudici di appello hanno effettuato del contratto e della documentazione che legano “Il Mastro Birraio di Calabria” alla soc. “Emi” (pag.61 e ss.) e quest’ultima alla ditta “MEP di ***********”, dal cui esame emerge l’effettività delle prestazioni effettuate dalla MEP e delle attività svolte dal Sig. B. e l’assenza di irregolarità contabili, così che deve parlarsi di travisamento delle prove e di inesistenza di costi fittizi. Del resto, la “Relazione sullo stato finale del programma di investimenti” redatta il 18/4/2008 dalla “MPS Capital Service banca per le Imprese S.p.A.” non ha ravvisato alcun aumento del costo. Va, poi, rilevato che costituisce un evidente vizio motivazionale il fatto che la Corte di appello abbia posto a fondamento della decisione gli esiti della consulenza T., omettendo del tutto di considerare le puntuali osservazioni critiche contenute nelle consulenze redatte da professionisti su incarico della difesa.

In sintesi, considerato anche il difetto di interesse di una società costituita nell’anno 2000 ad attendere tre anni per richiedere un finanziamento, la sentenza impugnata presenta un’evidente violazione delle regole fissate dall’art. 192 cod. proc. pen., avendo posto a fondamento della condanna una serie di indizi che difettano dei requisiti di precisione, di concordanza e di gravità;

e) Errata applicazione di legge ai sensi dell’art. 606 c.p.p., lett. b) in relazione all’art. 640-bis cod. pen. per avere i giudici di merito ignorato il contenuto del par.9.5 del contratto 28/12/2003 stipulato tra “Il Mastro Birraio di Calabria” e la “************”;

f) Vizio motivazionale ai sensi dell’art. 606 c.p.p., lett. e) con riferimento all’omesso versamento dell’Iva, posto che la società “Il Mastro Birraio di Calabria” ha integralmente versato importi ed *** alle società asseritamente interposte, così che non si vede come le condotte illecite di queste ultime possano essere addebitate alle ricorrenti;

g) Errata applicazione di legge ai sensi dell’art. 606 c.p.p., lett. b) con riferimento alla disciplina prevista dal D.Lgs. 8 giugno 2001, n. 231 e dall’art. 546 cod. proc. pen., nonchè con riferimento al D.Lgs. 8 giugno 2001, n. 231, art. 19. Infatti, i giudici avrebbero applicato una sanzione sproporzionata rispetto alla fattispecie storica: una volta ammesso che la società “Il Mastro Birraio di Calabria” non ha avuto specifici vantaggi dall’operazione contestata, i cui vantaggi sarebbero andati alle persone fisiche, l’irrogazione di una sanzione pesante alla società si sostanzia in una duplicazione dell’intervento punitivo, dovendosi considerare anche la confisca disposta sull’intera contribuzione pubblica, frutto dell’errata interpretazione e applicazione del citato art. 19.

Infine, errata risulta l’irrogazione delle misure interdittive, sia perchè sussiste una discrasia fra la motivazione e il dispositivo (v.pag.36 della sentenza di primo grado) non corretta dai giudici di appello nonostante lo specifico motivo di appello: in motivazione si prevedono le sanzioni previste dal D.Lgs. 8 giugno 2001, n. 231, art. 9, comma 2, lett. c), d) ed e), ma in dispositivo si irroga la sola sanzione ex lett. e), per di più senza indicarne la durata.

 

Motivi della decisione

1. I ricorsi proposti avverso la sentenza della Corte di appello di Catanzaro meritano parziale accoglimento e la sentenza deve essere annullata nei termini di seguito specificati.

2. Il contenuto dei ricorsi impone alla Corte alcune considerazioni preliminari all’esame del contenuto delle censure, a partire dalla constatazione che la sentenza di appello ha effettuato plurimi rinvii alla conforme decisione di primo grado, con la conseguenza che questo giudice è chiamato a valutare i motivi di ricorso avendo riguardo anche alla motivazione della sentenza del tribunale nella parte in cui la ricostruzione dei fatti ivi operata costituisce premessa indispensabile per comprendere le valutazioni operate con la sentenza qui impugnata.

3. Deve, poi, osservarsi che il contenuto dei motivi di ricorso ricalca in larga parte le censure mosse coi motivi di appello alla sentenza del tribunale; ciò comporta che si versa in molti casi in motivi di ricorso che attengono direttamente al merito della decisione assunta. Tale impostazione dei ricorsi impone alla Corte un’attenta verifica del rispetto delle previsioni contenute nell’art. 581 c.p.p., comma 1, lett. c) e art. 591 c.p.p., comma 1, lett. c), nella parte in cui rendono ravvisabile un vizio di genericità dell’impugnazione. In effetti, secondo il costante orientamento di questa Corte, si considerano generici – con riferimento al contenuto delle disposizioni ora citate -, i motivi che ripropongono davanti al giudice di legittimità le medesime doglianze presentate in sede di appello avverso la sentenza di primo grado e che nella sostanza non tengono conto delle ragioni che la Corte di appello ha posto a fondamento della decisione sui punti contestati. Si tratta di interpretazione costantemente applicata dalla giurisprudenza di questa Corte ed espressa, da ultimo, con la sentenza della Sesta Sezione Penale, n. 22445 del 2009, P.M. in proc.Candita e altri, rv 244181, ove si afferma che “è inammissibile per genericità il ricorso per cassazione, i cui motivi si limitino a enunciare ragioni ed argomenti già illustrati in atti o memorie presentate ai giudice a quo, in modo disancorato dalia motivazione dei provvedimento impugnato”. 4. La ricordata impostazione dei motivi di ricorso impone alla Corte un’ulteriore considerazione, il giudizio di legittimità rappresenta lo strumento di controllo della corretta applicazione della legge sostanziale e processuale e non può costituire un terzo grado volto alla ricostruzione dei fatti oggetto di contestazione. Si tratta di principio affermato in modo condivisibile dalla sentenza delle Sezioni Unite Penali, n. 2120, del 23 novembre 1995-23 febbraio 1996, ******* (rv 203767) e quindi dalla decisione con cui le Sezioni Unite hanno definito i concetti di contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione (n.47289 del 2003, ********, rv 226074).

Una dimostrazione della sostanziale differenza esistente tra i due giudizi può essere ricavata, tra l’altro, dalla motivazione della sentenza n. 26 del 2007 della Corte costituzionale, che (punto 6.1), argomentando in ordine alla modifica introdotta dalla L. n. 46 del 2006 al potere di impugnazione del pubblico ministero, afferma che la esclusione della possibilità di ricorso in sede di appello costituisce una limitazione effettiva degli spazi di controllo sulle decisioni giudiziali in quanto il giudizio avanti la Corte di cassazione è “rimedio (che) non attinge comunque alla pienezza dei riesame di merito, consentito (invece) dall’appello”.

Se, dunque, il controllo demandato alla Corte di cassazione non ha “la pienezza del riesame di merito” che è propria del controllo operato dalle corti di appello, ben si comprende come il nuovo testo dell’art. 606 c.p.p., lett. e) non autorizzi affatto il ricorso a fondare la richiesta di annullamento della sentenza di merito chiedendo al giudice di legittimità di ripercorrere l’intera ricostruzione della vicenda oggetto di giudizio.

Ancora successivamente alla modifica dell’art. 606 c.p.p., lett. e) apportata dalla L. 20 febbraio 2006, n. 46, art. 8, comma 1, lett. b), l’impostazione qui ricordata è stata ribadita da plurime decisioni di legittimità, a partire dalle sentenze della Seconda Sezione Penale, n.23419 del 23 maggio-14 giugno 2007, PG in proc.Vignaroli (rv 236893) e della Prima Sezione Penale, n. 24667 del 15-21 giugno 2007, ******** (rv 237207). Appare, dunque, del tutto convincente la costante affermazione giurisprudenziale secondo cui è “preclusa al giudice di legittimità la rilettura degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione o l’autonoma adozione di nuovi e diversi parametri di ricostruzione e valutazione dei fatti” (fra tutte: Sezione Sesta Penale, sentenza n. 22256 del 26 aprile-23 giugno 2006, Bosco, rv 234148).

Ciò non significa, ovviamente, che la presenza di manifesta illogicità della motivazione, rilevante ai sensi della citata lett. e), art. 606 c.p.p., non debba essere riconosciuta allorquando a fronte di plurime ipotesi ricostruttive dei fatti i giudici di merito non abbiano dato conto in modo coerente e corretto sul piano logico delle ragioni per cui l’ipotesi accolta abbia forza sufficiente da escludere la solidità delle ipotesi alternative sottoposte al loro giudizio.

5. Fatte queste premesse di ordine generale, la Corte ritiene di muovere all’esame dei motivi di ricorso affrontando per prime le due censure che attengono al rispetto delle disposizioni procedimentali.

5.1- Viene in luce innanzitutto il motivo di ricorso con cui ci si duole della decisione della Corte di appello di non ritenere sussistente il legittimo impedimento a comparire prospettato dalla sig.ra M. in apertura di udienza. Rileva la Corte che la giurisprudenza ha in più occasioni formulato principi interpretativi della disposizione contenuta nell’art. 420-ter cod. proc. pen. Muovendo dalla considerazione che l’imputato ha facoltà e non obbligo di presenziare alla fase dibattimentale e che il suo diritto di esercitare la propria difesa mediante la presenza in aula deve trovare un contemperamento con le esigenze di celere trattazione del processo, anch’esse tutelate da disposizione di rango costituzionale, la Corte condivide la posizione rigorosa assunta dalla giurisprudenza in ordine all’accertamento della natura “assoluta” dell’impedimento, nel senso che è onere della parte istante documentare tale presupposto senza che sia necessario per il giudicante attivarsi per porre rimedio a una certificazione incompleta (Sez. 2, sentenza n.47622 del 29/10/2008, rv 242295) e senza che sussista un obbligo per il giudicante di richiedere una visita fiscale allorchè ritiene di poter escludere l’esistenza dell’assoluta impossibilità a comparire (Sez.5, sentenza n.5540/2008 del 14/12/2007, rv 239100). In questa prospettiva la giurisprudenza di legittimità ha più volte affermato che illegittimo impedimento non può essere riconosciuto in presenza di una certificazione medica che attesti un momentaneo deficit fisico ma sia priva di indicazioni espresse circa il livello dello stato febbrile e circa l’impossibilità di spostamento della persona (Sez.6, sentenza n.24398 del 26/2/2008, rv 240353, in tema di colica renale; Se.6, sentenza n,20811 del 12/5/2010, rv 247348, in tema di faringo-tracheite).

Venendo al caso in esame, la Corte rileva che l’ordinanza censurata dalla ricorrente ha fatto buon uso dei principi ricordati. Il certificato medico in atti difetta dell’indicazione del grado di stato febbrile, evidenzia una forma gastroenterica esistente il giorno precedente l’udienza e si limita a consigliare alcuni giorni di riposo. Questa situazione di fatto sottoposta all’esame della Corte di appello non illogicamente è stata valutata non integrare un’ipotesi di accertata impossibilità assoluta a comparire e va, dunque, escluso che si versi in ipotesi di violazione della legge e del diritto dell’imputata: il primo motivo di ricorso della sig.ra M. deve conclusivamente essere dichiarato inammissibile perchè manifestamente infondato alla luce dell’interpretazione delle norme processuali adottata dalla giurisprudenza citata.

5.2 – Con il secondo motivo di ricorso la sig.ra M. prospetta la violazione degli artt. 63, 64 e 191 cod. proc. pen.. Evidenzia la ricorrente che con riferimento alle fonti di prova G., B. e P. non si è in presenza di dichiarazioni spontanee, come erroneamente ritenuto in sentenza, ma di s.i.t. rese alla polizia giudiziaria in assenza del difensore e delle garanzie di legge sebbene costoro dovessero già qualificarsi come persone soggette a indagine.

Dall’esame degli atti presenti nel fascicolo la Corte ha potuto rilevare che:

a) In data 18/4/2007 la procura della Repubblica procedente dispose la separazione di atti dal procedimento n.1551/2006 RGPM, avente come persone Indagate i Sigg. G., Z., M. e Ma., e provvide ad iscrivere un nuovo procedimento recante il n.2209/2007 RGPM; tale ultimo procedimento aveva ad oggetto l’ipotesi di fatturazioni per operazioni inesistenti poste in essere dalla soc. “************” con riferimento a plurime attività di finanziamento da parte dell’ente pubblico a imprese italiane;

b) Nell’ambito del proc.2209/07 in data 31/10/2008 la polizia giudiziaria che provvide a recarsi presso le sedi delle imprese per accertamenti assunse, ai sensi dell’art. 351 cod. proc. pen., le dichiarazioni del sig. B. e quindi in data 4/11/2008 le dichiarazioni del sig. P.; in particolare il sig. P. fu sentito in ordine al contenuto della documentazione contabile che riguardava i rapporti tra la ditta “MEP” e la soc. “EMI” e in ordine ai rapporti tra la stessa “EMI” e la soc. “Il Mastro Birraio di Calabria”;

c) Successivamente a tale attività d’indagine la procura della Repubblica in data 23/12/2008 dispose la separazione di atti dal proc. n.2209/2007 e la formazione di nuovo procedimento, che prese il numero 6627/2008 RGPM, nel quale risultavano soggetti a indagini la sig.ra M. per i reati ex art. 640-bis cod. pen. e D.Lgs. 10 marzo 2000, n. 74, art. 2 e il ******* per il reato D.Lgs. 10 marzo 2000, n. 74, ex art. 8.

Sulla base di quanto sopra si può concludere che per il solo sig. G., già iscritto nel registro indagati a seguito dello stralcio che dette vita al procedimento n.2209/2007, sussistevano elementi ostativi all’assunzione di dichiarazioni con forme diverse dall’esame di persona indagata. Quanto al sig. B., le dichiarazioni rese il 31 ottobre 2008 non risultano assunte in violazione delle grazie di legge, posto che elementi indizianti appaiono essere emersi solo successivamente agli atti d’indagine compiuti presso la “MEP” in data 4/11/2008, atti cui fece seguito lo stralcio disposto in data 23/12/2008 con iscrizione dello stesso B. nel registro degli indagati per il reato previsto dal D.Lgs. 10 marzo 2000, n. 74, art. 8. Quanto, infine, al sig. P., deve concludersi che le dichiarazioni da lui rese il 4/11/2008 furono assunte legittimamente dalla polizia giudiziaria, non emergendo elementi di reato come dimostra la circostanza che ancora nel provvedimento di stralcio, per quanto è dato rilevare, lo stesso P. non risulta indicato come persona soggetta a indagine.

Fatte queste premesse, la Corte rileva che i fatti oggetto delle dichiarazioni rese dal sig. B. alla polizia giudiziaria non risultano accertati esclusivamente mediante tale fonte; emerge, infatti, dalla motivazione delle sentenze di merito che l’assenza di partecipazione delle società italiane ai trasporti dei macchinar emerge dalla documentazione commerciale, che attribuisce il trasporto alla responsabilità dell’impresa venditrice straniera, con la conseguenza che le dichiarazioni B. rappresentano soltanto un elemento che rafforza e chiarisce quanto già emerge dal dato documentale.

In conclusione, anche il secondo motivo di ricorso della sig.ra M. risulta manifestamente infondato e deve essere dichiarato inammissibile.

6. Debbono adesso essere affrontati i motivi di ricorso coi quali la sig.ra M. e “Il Mastro Birraio di Calabria S.r.l.” hanno contestato la sussistenza degli illeciti e la correttezza della qualificazione giuridica dei fatti. Attesa la sostanziale coincidenza delle posizioni e atteso il contenuto dei motivi di ricorso della società, che non assume rivendicazioni nei confronti della legale rappresentante (tale non è, certamente, la prospettiva del terzo motivo della società), la Corte ritiene di poter esaminare congiuntamente il terzo motivo M. e i motivi quarto, quinto e sesto della società.

Osserva la Corte che la stessa articolazione del terzo motivo M. e del quarto motivo della società caratterizzano le critiche alla sentenza come vere e proprie censure di merito che, aggredendo uno a uno i singoli argomenti posti a fondamento della decisione, riproducono davanti al giudice di legittimità il meccanismo di critica che i ricorrenti avevano proposto ai giudici di appello. Tale impostazione, dettagliatamente e puntigliosamente perseguita, muove dal presupposto, errato, che la critica al fondamento dei singoli elementi indiziari rappresenti lo strumento col quale denunziare la illogicità del percorso argomentativo seguito dal giudicante nel contesto del denunciato vizio di motivazione integrato dal mancato rispetto del criterio fissato dall’art. 192 c.p.p., comma 2,. Se questo fosse vero, e nel corso del punto 4 che precede la Corte ha illustrato le ragioni del diverso convincimento, non vi sarebbero ragioni per distinguere il giudizio di legittimità da quello di appello, conclusione che, anche dopo la modifica della lett. e), art. 606 cod. proc. pen. non è, come si è detto, condivisibile. In realtà, qualora la Corte dovesse approfondire ognuno degli specifici profili prospettati con l’ampio e dettagliato motivo quarto proposto dalla società, il giudice di legittimità finirebbe per operare come giudice del merito chiamato a valutare la correttezza dei conteggi, la consistenza dei risultati degli accertamenti contabili e fiscali, e così via.

Il compito che, invece, per quanto si è detto in via generale spetta alla Corte è quello di verificare se il giudice del merito sia incorso in uno di quei vizi di travisamento radicale della prova, oppure di manifesta illogicità e incoerenza del percorso motivazionale che sono previsti dall’art. 606 c.p.p., lett. e) come elementi che giustificano la proposizione del ricorso avanti il giudice di legittimità.

Ritiene la Corte che la sentenza impugnata sia immune da tali vizi e non meriti di essere annullata nella parte in cui espone le ragioni della sussistenza degli estremi del meccanismo fraudolento.

In primo luogo deve osservarsi che entrambe le decisioni di merito hanno esaminato in dettaglio gli elementi di prova e la situazione di fatto posta a fondamento della contestazione. In particolare, hanno ritenuto fondata l’ipotesi che la società “************” costituì uno strumento, ma sul piano logico sarebbe forse più corretto dire un fattore, di lievitazione dei costi di acquisto e installazione degli impianti. Sul punto i giudici di merito hanno attribuito un valore univoco alla pluralità di elementi specificamente elencati in sentenza; si tratta di elementi cui i ricorrenti attribuiscono un significato diverso secondo una lettura dei fatti che i giudici hanno motivatamente ritenuto non convincente o, addirittura smentita.

7. A questo proposito la Corte deve rilevare che una parte centrale delle critiche dei ricorrenti non può essere condivisa sul piano logico e ciò comporta un giudizio di sostanziale debolezza delle censure avanzate. Sostengono, infatti, i ricorrenti che l’ipotesi accusatoria viene smentita da due circostanza fondamentali: la regolare registrazione delle operazioni nella contabilità della società calabrese, e l’effettività dei relativi pagamenti; la mancata dimostrazione dell’esistenza del “flusso di ritorno” rispetto alle spese sostenute dalla società. 7.1 – Quanto alla regolarità di registrazione e pagamenti, si tratta di elemento che può dirsi connaturato all’ipotesi criminosa prospettata, posto che i soggetti chiamati a verificare l’operazione e a erogare i contributi avrebbero dato corso alla contribuzione pubblica solo in presenza di pagamenti corrispondenti ai documenti contabili e solo in presenza di spese documentate e giustificate. Del resto, lo stesso reato di utilizzazione di fatture irregolari ha come elemento caratterizzante la formale regolarità della documentazione che la società utilizzatrice porta in contabilità a giustificazione delle spese sostenute per operazioni che in realtà sono in tutto o in parte inesistenti. In altri termini, la correttezza dei dati contabili e bancari de “Il Mastro Birraio di Calabria” non rappresenta affatto una realtà incompatibile con l’ipotesi di accusa.

7.2 – Analoga valutazione deve essere compiuta con riferimento al profilo (quarto motivo del ricorso della società) che concerne le clausole contrattuali, e in particolare il par.9.5, dell’accordo fra “************” e “Il Mastro Birraio di Calabria”; si tratta di clausola che si inserisce nella inevitabile e programmata prospettazione di una realtà commerciale e contabile regolare e conforme al diritto, al pari di quanto è avvenuto per la restante documentazione destinata ad essere ostensibile a terzi e portata a supporto della procedura di finanziamento. Anche in questo caso, non sussiste alcuna inconciliabilità logica fra l’esistenza di “forme” regolari e di una “sostanza” sottostante diversa e irregolare.

7.3 – Venendo al tema del ritorno delle somme uscite dai conti de “Il Mastro Birraio di Calabria”, non illogicamente i giudici di merito (pag.9 della sentenza di primo grado e 15 della sentenza di appello) hanno messo in evidenza come esista in atti la prova che per la società ritenuta fittiziamente interposta si registrano cospicue uscite di denaro contante e nello stesso tempo si registrano consistenti finanziamenti soci da parte della sig.ra M. e del marito operati per contante a partire, essenzialmente, dalla ricezione della prima parte del finanziamento pubblico; fu, infatti, solo dopo tale ricezione (pag.16 sentenza di appello) che la società “Il Mastro Birraio di Calabria” iniziò ad effettuare i pagamenti delle fatture emesse da “************” e “EMI” e fu sempre dopo tale ricezione che ebbero luogo gli apporti soci al capitale sociale.

Ebbene, la Corte considera che non solo tale ragionamento della corte territoriale appare fondato su dati contabili non contestati nella loro materialità, ma esso risulta coerente sul piano logico:

Tingente misura dei conferimenti in contanti è certamente superiore all’importo delle fatture per operazioni inesistenti ipotizzate dall’accusa, ma quei conferimenti si collocano temporalmente in corrispondenza delle operazioni ritenute irregolari e non trovano nè spiegazione logica nè indicazione della fonte.

A questo proposito la Corte evidenzia come a fronte dell’argomentazione dei giudici di merito i ricorrenti abbiano prospettato un difetto di concludenza probatoria (fondata essenzialmente sulla circostanza che l’apporto soci a mezzo contante è stato molto superiore alle somme frutto dell’eventuale illecito), ma non risulta, nè dalla sentenza di appello nè dai motivi di ricorso, che la difesa sia stata esercitata provando una provenienza del denaro contante diversa da quella che i giudici di merito hanno ritenuto come la logica conseguenza della ricostruzione dei fatti.

Sul punto si osserva che la movimentazione di somme in contante per centinaia di migliaia di Euro su base annua si pone in sostanziale contrasto con l’esigenza di tracciabilità delle operazioni e ha impedito agli inquirenti e ai giudici di accertare la provenienza dei fondi; il che avrebbe imposto agli imputati, ove intenzionati a contrastare l’ipotesi ricostruttiva logicamente motivata dagli stessi giudici sulla base di dati contabili e temporali non contestati in sè, di sostenere una diversa ricostruzione mediante un adeguato apporto probatorio che, invece, non è stato introdotto in violazione dei principi fissati dalla giurisprudenza di legittimità (punto 4 che precede).

8. Una volta escluso che i giudici di merito siano incorsi nel vizio di manifesta illogicità in relazione a due pilastri essenziali del percorso che ha condotto all’affermazione di responsabilità dei ricorrenti, occorre affrontare una diversa censura prospettata con riferimento alla sola responsabilità della società calabrese ma, in realtà, potenzialmente rilevante per l’intera impostazione della decisione impugnata. Osserva la società ricorrente con il terzo motivo di ricorso che la sentenza impugnata riconosce l’esistenza di un “grave svantaggio economico” per i bilanci societari (pagine 10 e 11 della motivazione) e che tale affermazione è incompatibile con l’articolazione di un meccanismo fraudolento come quello ritenuto in sentenza. Va considerato, sul punto, che l’esistenza di un (apparente) danno patrimoniale per la società è utilizzato dai giudici di merito come argomento per sostenere il convincimento che le fatture e la contabilità ufficiale non sono attendibili e che l’interposizione fittizia di intermediari, coi relativi costi non necessari, ha avuto lo scopo di accrescere i finanziamenti pubblici e di formare una riserva di denaro non ufficiale, con la conseguenza che per i giudici di merito al termine del percorso illecito la società non ha in realtà riportato alcuna conseguenza negativa a fronte delle uscite che avrebbe potuto evitare senza le intermediazioni fittizie, a fronte della erogazione di somme pubbliche maggiori di quelle corrisposte effettivamente al partner estero, a fronte di una ingente movimentazione di denaro contante che ha accresciuto il capitale sociale mediante gli apporti dei soci.

Va, dunque, escluso che la sentenza impugnata presenti il profilo di contraddittorietà lamentato, così come va escluso che, sotto un diverso profilo, difettino i presupposti di responsabilità amministrativa dell’ente in applicazione del D.Lgs. 8 giugno 2001, n. 231, art. 5, commi 1 e 2, attese la composizione nella sostanza personale della società e la ricostruzione dei fatti operata dai giudici di merito.

9. Ad analoga conclusione deve giungersi per quanto concerne la censura mossa alla sentenza impugnata con riferimento al debito ***.

E’ evidente, infatti, che in un situazione di fisiologici rapporti commerciali i responsabili della società “Il Mastro Birraio di Calabria” non sarebbero stati tenuti a verificare la correttezza dell’operato della società intermediaria nè avrebbero potuto essere chiamati a rispondere dell’eventuale violazione da questa commessa.

Tuttavia, tale conclusione, invocata dai ricorrenti, è stata in modo del tutto logico superata dai giudici di merito (pag.18 motivazione di appello) che hanno ritenuto esistente un accordo tra i responsabili delle due società per dare corpo a una “frode carosello” il che annovera tra gli scopi essenziali proprio il vantaggio costituito dal programmato mancato versamento dell’*** da parte della società intermediaria, cui corrisponde la creazione di un credito *** in favore della società operativa.

Quanto detto fin qui impone alla Corte di respingere i motivi di ricorso che censurano la ricostruzione della vicenda e il giudizio di responsabilità dei ricorrenti rispetto alle ipotesi contestate.

10. A tale proposito la Corte osserva che i motivi di ricorso che concernono la qualificazione giuridica dei fatti (motivi quarto e quinto M.) debbono essere considerati manifestamente infondati per le ragioni che seguono.

10.1 – Va in primo luogo escluso che la condotta illecita sia riconducibile alla meno grave ipotesi prevista dall’art. 316-ter cod. pen. (quinto motivo M.). Sul punto appare sufficiente richiamare, a conferma della conclusione cui sono giunti i giudici di merito, le plurime e conformi decisioni assunte dalla giurisprudenza di legittimità con le quali si riconosce all’ipotesi ex art. 316-ter cod. pen. un valore “sussidiario” rispetto al reato di truffa aggravata ex artt. 640 e 640-bis cod. pen. e le si attribuisce una connotazione specifica che prescinde da forme libere di artificiosità e dall’esistenza della “induzione in errore”; si vedano in particolare: Sez. 2, sent. n. 8613 del 12/2/2009, ******* e altri, rv 243313; Sez. 2, sent. n. 46198 del 28/10/2005, ******** e altro, rv 232785; Sez. 6, sent. n. 28665 del 31/572007, PM in proc. ****, rv 237114. Senza dimenticare che con l’ordinanza n. 95 del 2004 la Corte costituzionale ha affermato che l’art. 316-ter cod. pen. costituisce un’ipotesi “residuale”, che assicura una tutela “complementare”, con la conseguenza che spetta al giudice la “valutazione in concreto” dell’applicabilità della disposizione in parola qualora non risulti applicabile la disposizione prevista dall’art. 640-bis cod. pen.. Si è in presenza di un compendio interpretativo di cui la sentenza impugnata ha fatto buon uso, ravvisando motivatamente nelle modalità della condotta gli estremi del più grave reato di truffa aggravata.

10.2 – Con diversa censura (quarto motivo) la ********* lamenta il mancato assorbimento delle ipotesi di falso ex art. 483 cod. pen. in quella di truffa aggravata, chiamando a sostegno la circostanza che detto assorbimento è riconosciuto rispetto al reato previsto dall’art. 316-ter cod. pen.. La Corte ritiene che proprio la specificità della motivazione delle decisioni che ritengono tale ultima disposizione legata da rapporto di specialità e assorbente rispetto all’ipotesi di falso ex art. 483 cod. pen. (per tutte: Sez.Un., sent. n.7537/2011 del 16/12/2010, *******) dimostri come a diversa conclusione debba giungersi con riguardo al reato previsto dagli artt. 640 e 640-bis cod. pen.; sul punto si rinvia anche a Sez. 2, sent. n. 32578 del 24/4/2010, Di ********, che, sollecitata con riferimento all’applicabilità dell’art. 316-ter cod. pen., ha dichiarato inammissibile il ricorso avverso una decisione di condanna per i reati previsti dall’art. 640 c.p., comma 2 e art. 483 cod. pen.. Del resto, nessuno dubita della circostanza che la ritenuta sussistenza del reato di truffa aggravata in danno dell’ente erogatore commessa con artifici costituiti da fatture per operazioni inesistenti comporti l’assorbimento della condotta D.Lgs. 10 marzo 2000, n. 74, ex art. 2 nel reato previsto dagli artt. 640 e 640-bis cod. pen. (si veda: Sez. 2, sent. n. 46198 del 2005, citata), così come nel reato di illecita percezione di pubbliche erogazioni restano assorbiti solo i reati di falso ex artt. 483 e 489 cod. pen., ma non le altre falsità eventualmente commesse, che concorrono con il reato previsto dall’art. 316-ter cod. pen. (si veda: Sez. Un. sent. n. 16568 del 19/4/2007, Carvichi).

11. Quanto alla critica mossa dalla società “Il Mastro Birraio di Calabria” con riferimento all’entità della sanzione (prima parte del settimo motivo), la Corte non ravvisa profili di illegittimità della quantificazione nè di manifesta illogicità della motivazione, così che debbono essere ritenute manifestamente infondate le censure prospettate in termini di inopportunità o di eccessività che attegono a valutazioni di merito precluse in questa sede.

12. Venendo alle censure che concernono la confisca disposta dai giudici di merito sia nei confronti dell’imputata sia nel confronti della società (sesto motivo M. e settimo motivo della società), i ricorrenti lamentano l’esistenza di una duplicazione dell’intervento sanzionatorio e l’errata determinazione dell’importo nella misura di 291.510,90 Euro, corrispondente all’intero importo della somma proveniente dall’ente erogante.

Il D.Lgs. 8 giugno 2001, n. 231, art. 9, lett. c), e l’art. 19 prevedono tra le sanzioni la confisca del “prezzo o del profitto del reato” oppure la confisca di denaro o beni di valore equivalente.

I ricorrenti affermano che nel caso in esame i giudici di merito hanno fatto coincidere il profitto con l’intero ammontare della somma erogata in modo erroneo, posto che l’eventuale vantaggio ottenuto dai ricorrenti consisterebbe nella parte della somma ricevuta che eccede le spese sostenute.

La Corte di appello ha esaminato la questione alle pagine 20 e 21, giungendo alla conclusione che il concetto di profitto va legato a quello di “beneficio aggiunto di tipo patrimoniale”, cioè con “tutti i vantaggi ricavati dalla commissione dei reati”, senza che si possa distinguere il profitto lordo da quello netto, così che il profitto per l’imputata e per l’impresa consiste nell’intero importo della somma erogata dall’ente pubblico.

Il tema sottoposto al giudizio di questa Corte dai ricorrenti è, dunque, se il profitto del reato coincida con l’intero importo erogato alla società oppure con la minor somma corrispondente alla maggiorazione dei costi documentati attraverso supporti ideologicamente falsi.

Come esposto nelle considerazioni iniziali, il finanziamento ottenuto dalla società “Il Mastro Birraio di Calabria” è stato erogato dal Ministero delle Attività produttive tramite la banca concessionaria ai sensi della L. n. 488 del 1992 previa approvazione del progetto presentato dalla società (n.77228/12). Con le relazioni indicate nel capo di imputazione la sig.ra M. ha portato a supporto della richiesta di liquidazione delle somme erogande sia documentazione ideologicamente falsa (fatture per operazioni inesistenti) sia l’infedele attestazione della competitività del prezzo pagato al fornitore estero per impianti dichiarati come nuovi di fabbrica pur in assenza dei requisiti richiesti per tale qualifica. E’ certo, peraltro, che gli impianti di produzione furono effettivamente consegnati alla società ed effettivamente installati. Non si versa, dunque, nell’ipotesi di radicale simulazione di operazioni destinate ad ottenere finanziamenti integralmente non dovuti, già oggetto di esame da parte di questa Corte con decisioni che hanno fatto coincidere il profitto per il privato con l’intera erogazione (Sez. 2, sent. n. 35355 del 12/5/2011, Meraglia, rv 251178).

La giurisprudenza ha, tuttavia, enucleato anche in tale contesto principi che costituiscono un riferimento per la decisione dei motivi di ricorso proposti dalla sig.ra M. e dalla società. Nel motivare in ordine alla individuazione dei beni da sottoporre a sequestro per equivalente in ipotesi di frode in pubbliche erogazioni, la Corte (Sez. 6, sent. n. 45504 del 23/11/2010, ******) ha annullato con rinvio l’ordinanza con cui il tribunale, decidendo in sede di rinvio su precedente annullamento, aveva omesso di quantificare il profitto derivante dal reato e affermato che “lo stesso andasse ravvisato, in difetto di elementi certi da cui desumere che lo stesso si fosse limitato ad un certo importo, nell’intero ammontare dei finanziamenti erogati sulla scorta delle condotte illecite contestate”. La Corte censurava tale motivazione in quanto il tribunale, non dando attuazione ai principi fissati con la sentenza di annullamento, ha deciso senza fornire “risposta alcuna alle precise obiezioni difensive che avevano contestato la quantificazione dell’illecito”. Rilevava a tale proposito la Corte che la sentenza di annullamento aveva invitato il tribunale a “delimitare l’ambito dell’illecito arricchimento effettivamente conseguito”.

Può, dunque, osservarsi che con riferimento alle pubbliche erogazioni la giurisprudenza ha individuato il profitto del reato di truffa aggravata nel “finanziamento indebitamente ottenuto” (sentenza n.35355 del 2011, citata) oppure nell’ “illecito arricchimento effettivamente conseguito” (sentenza n.45504 del 2010, citata).

Muovendo da tale base interpretativa del disposto dell’art. 19, citato, assume indubbio rilievo quanto le Sezioni Unite hanno avuto modo di affermare con la sentenza n.26654 del 27/3/2008, Fisia Impianti S.p.A. e altro, allorchè ha precisato che: “il profitto del reato, in definitiva, va inteso come il complesso dei vantaggi economici tratti dall’illecito e a questo strettamente pertinenti”.

A parere della Corte quanto detto fin qui impone di ritenere che non tutte le somme ricevute dalla società beneficiata possono considerarsi in quanto tali profitto del reato, ma solo quelle che siano state “indebitamente” percepite e che costituiscano “vantaggio tratto dall’illecito e a questo strettamente pertinente”.

Così fissato il concetto di profitto applicabile al reato in esame, risulta evidente che non può trovare condivisione la conclusione cui sono giunti i giudici di merito nel ritenere che dall’illecita esecuzione del contratto stipulato fra la società “Il Mastro Birraio di Calabria” e il Ministero delle Attività Produttive debba risultare automaticamente travolto l’intero ammontare dell’erogazione perchè, ritiene la Corte di appello, solo in tal modo si impedirebbe agli autori dell’illecito di beneficiare dei proventi del reato.

Se è vero che nel caso in esame non si è in presenza di operazioni integralmente simulate, ma di operazioni sovrafatturate, occorre verificare in concreto quale sia la sfera dell’illecito che ha prodotto vantaggi patrimoniali “indebiti” per la società. Occorre, in altri termini, verificare in primo luogo se il progetto di finanziamento presentato dalla società non sarebbe stato approvato e non avrebbe avuto esecuzione in assenza delle caratteristiche falsamente prospettate e attestate; in tal caso, appare evidente, il profitto per il privato e il danno per l’ente erogante coinciderebbero con l’intero ammontare del finanziamento erogato, posto che in assenza delle attività di frode il rapporto contrattuale non si sarebbe perfezionato. A diversa conclusione deve giungersi ove si accerti che il progetto, per la parte di operazioni effettivamente poste in essere, risulta conforme al dettato della legge e ai criteri di approvazione dell’ente erogante; in tal caso la condotta illecita avrebbe dato causa a erogazioni “indebite” esclusivamente per la quota di operazioni o di costi supportati dalle fatture per operazioni inesistenti e dalle relazioni ideologicamente false presentate dalla sig.ra M. in corso di esecuzione del contratto al fine di ottenere l’erogazione dei fondi in parte non dovuti. Con la conseguenza che il profitto del reato coinciderebbe con la sola parte dei fondi non dovuti, restando lecitamente percepiti da parte della società quelli corrispondenti alle prestazioni effettive che la società stessa ha retribuito ai fornitori.

In conclusione, ai motivi di ricorso in tema di confisca deve rispondersi affermando principio che l’identificazione del profitto cui ancorare il giudizio circa l’entità del profitto e della confisca, diretta o per equivalente, muta a seconda che mediante la condotta fraudolenta sia stata prospettata all’ente erogante una realtà difforme dal vero che ha consentito il perfezionamento del contratto e le successive erogazioni, oppure sia stata prospettata una realtà che ha permesso alla società di ottenere in modo indebito erogazioni maggiori di quelle cui avrebbe avuto diritto.

Sia la sentenza di primo grado sia quella della Corte di appello, interpretando diversamente il dato normativo, hanno ritenuto di quantificare il profitto in misura corrispondente all’intero importo erogato e hanno, così, omesso di effettuare le valutazioni che sono state adesso ricordate e dovranno essere oggetto di un nuovo esame.

La sentenza impugnata viene pertanto annullata sul punto con rinvio al giudice di appello, ai sensi degli artt. 623 e 624 cod. proc. pen..

In sede di rinvio i giudici di merito provvederanno anche a verificare se sussista la “duplicazione” dell’intervento ablativo lamenta dai ricorrenti, posto che dalla motivazione delle decisioni di merito non è dato comprendere con chiarezza se la confisca abbia ad oggetto anche l’impianto e i macchinari e quale sia il contenuto effettivo della formula “senza duplicazione con la confisca disposta nei confronti di M.T.” presente nel dispositivo della sentenza di primo grado.

13. Per quanto concerne, infine, il settimo motivo di ricorso della società, nella parte relativa all’applicazione delle misure interdittive, la Corte osserva quanto segue:

13.1 – la censura sulla mancata irrogazione delle sanzioni interdittive ex lett. c) e d), art. 9, comma 2, da parte del tribunale non è sostenuta da alcun interesse della persona condannata; si tratta, infatti, di discrasia fra la parte motiva e il più favorevole dispositivo che non è stata oggetto di impugnazione da parte del pubblico ministero; il motivo di ricorso deve essere dichiarato inammissibile;

13.2 – al contrario, risulta fondata la censura in ordine alla mancata definizione della durata dell’unica misura irrogata in dispositivo: l’art. 13, al comma 2 prevede in via generale una durata delle sanzioni interdittive da tre mesi a due anni e i giudici di merito hanno omesso di provvedere alla necessaria quantificazione: il motivo merita accoglimento e la sentenza deve sul punto essere annullata con rinvio ai sensi degli artt. 623 e 624 cod. proc. pen..

 

P.Q.M.

 

Annulla la sentenza impugnata limitatamente al capo sulla confisca e a quello sulla misura interdittiva, con rinvio ad altra Sezione della Corte di appello di Catanzaro per nuovo esame. Rigetta i ricorsi nel resto.

Redazione