Fatture irregolari – Possono essere ritenute false (Cass. n. 3259/2012) (inviata da R. Staiano)

Redazione 02/03/12
Scarica PDF Stampa

In fatto e in diritto

I. Il Ministero dell’Economia e delle Finanze e l’Agenzia delle Entrate propongono ricorso per cassazione nei confronti della S. s.p.a. (che resiste con controricorso) e avverso la sentenza con la quale, in controversia concernente impugnazione di avviso di rettifica *** relativo all’anno di imposta 1998, la CT.R. Emilia Romagna, in riforma della sentenza di primo grado, accoglieva il ricorso introduttivo proposto dalla società.
In particolare, per quel che in questa sede ancora rileva, i giudici d’appello affermano che le fatture utilizzate dalla società erano state emesse per coprire costi effettivamente sostenuti ma non documentabili e, pur rilevando che in dette fatture non era stata correttamente indicata la natura, qualità e quantità dei beni o dei servizi venduti o prestati, avevano ritenuto che i corrispettivi in esse indicati fossero relativi all’ attività di impresa c che l’*** su di essi applicata fosse stata correttamente liquidata, non risultando prove che le fatture utilizzate non erano state pagate ed avendo l’appellante affermato (in assenza di contestazioni da parte dell’Ufficio) che le ditte
emittenti le fatture avevano regolarmente versato l’*** addebitata in via di rivalsa, con conseguente mancanza di danno per l’erario. I giudici d’appello aggiungevano che l’art. 6 d.lgs. 218/97 prevede che il contribuente nei cui confronti sono stati effettuati accessi, ispezioni o veri fiche può chiedere con apposita istanza la formulazione della proposta di accertamento ai fini dell’eventuale definizione; che una tale istanza era stata fatta dal contribuente; che non risultava che l’Ufficio vi avesse dato seguito e, in particolare, che avesse, entro 15 giorni dal ricevimento dell’istanza suddetta, convocato il contribuente.
2. Preliminarmente deve essere accolta l’eccezione della controricorrente di
inammissibilità del ricorso del Ministero, essendo stato l’appello depositato il 27. 07. 2004 ed avendo partecipato al giudizio d’appello solo l’Agenzia delle Entrate.
E’ invece infondata l’eccezione di tardività della notifica del ricorso (per essere stata la copia da notificare affidata alla posta solo il 16.03.2006, ossia il giorno dopo la cadenza del relativo termine) posto che, secondo la univoca giurisprudenza di questo giudice di legittimità, la notifica per mezzo del servizio postale si perfeziona per il notificante con la consegna dell’atto all’ufficiale giudiziario (non con l’affido alle poste, da parte dell’Ufficiale giudiziario, dell’atto da notificare), salvo nell’ipotesi (non ricorrente nella specie) in cui la notifica a mezzo posta venga eseguita, anziché dall’ufficiale giudiziario, dal difensore della parte ai sensi dell’art. 1 della legge n. 53 del 1994, dovendo in tal caso sostituirsi alla data di consegna dell’atto all’ufficiale giudiziario la data di spedizione del piego l’accomandato ( v. Cass. n. 17748 del 2009).
E’ peraltro da aggiungere che, secondo la giurisprudenza di questo giudice di legittimità, ove non venga esibita la ricevuta di cui all’art. 109 DPR 15 dicembre 1959, n. 129, la prova deIla tempestiva consegna all’ufficiale giudiziario dell’atto da notificare può essere ricavata dal timbro apposto su tale atto recante il numero cronologico e la data e che solo in caso di contestazione della conformità al vero di quanto da esso indirettamente risulta, l’interessato deve farsi carico di esibire idonea certificazione proveniente dall’ufficiale giudiziario, la quale. essendo diretta a provare l’ammissibilità del ricorso, potrà essere esibita secondo le previsioni dell’art.
372 c.p.c. (v. SU n. 14294 del 2007).
E infine da precisare che nella specie a margine della prima pagina del ricorso risulta un timbro con numero cronologico recante la data del 15.03.2006 -identificata dalla stessa controricorrente come ultimo giorno utile per la notifica – e che non risulta alcuna contestazione della conformità
al vero di quanto direttamente o indirettamente emergente dal suddetto timbro.
E’ infine altresì infondata l’eccezione di inammissibilità del ricorso per mancata indicazione della sede dell’ Agenzia ricorrente, posto che per i giudizi di cassazione, nei quali la legittimazione era riconosciuta esclusivamente al Ministero delle finanze (ossia all’organo centrale, non a quello periferico) ai sensi dell’art. 11 del r.d. 30 ottobre 1933, n. 1611, la giurisprudenza di questo giudice di legittimità ha ritenuto che la nuova realtà ordinarnentale, caratterizzata dal conferimento della capacità di stare in giudizio agli uffici periferici dell’Agenzia in via concorrente ed alternativa rispetto al direttore, consente di ritenere che possano agire sia (come nella specie) l’Agenzia in persona del suo direttore pro ternpore, sia (ma non necessariamente) l’Ufficio periferico di essa che ha partecipato al giudizio di appello, in tal senso orientando sia l’interpretazione sia il principio di effettività della tutela giurisdizionale, che impone di ridurre al massimo le ipotesi d’inammissibilità (v. S.U. nn. 31 6 e 3118 del 2006).
Col primo motivo, deducendo violazione e falsa applicazione dell’art. 21 d.p.r. 633/72. l’Agenzia ricorrente censura la sentenza impugnata nella parte in cui i giudici d’appello hanno affermato che le fatture utilizzate dalla società erano state emesse per coprire costi all’epoca non documentabiIi e, pur rilevando che in dette fatture non era stata indicata la natura, qualità e quantità dei beni o dei servizi venduti o prestati, hanno ritenuto che i corrispettivi in esse indicati fossero relativi all’attività di impresa e che l’*** su di essi applicata fosse stata correttamente liquidata, non risultando prove che le fatture utilizzate non erano state pagate ed avendo affermato l’appellante che le ditte emittenti le fatture avevano regolarmente versato l’*** addebitata in via di rivalsa, pertanto senza alcun danno per l’erario.
In particolare, la ricorrente, premesso che l’asserito pagamento dell’IVA addebitata in via di rivalsa ed il fatto che i corrispettivi indicati nelle fatture de qui bus riguardavano comunque attività di impresa erano circostanze desunte in maniera acritica dalle deduzioni della società, evidenzia che si tratta di dati irrilevanti, posto che anche” l’eventuale pagamento dell’*** era parte del cedente non incide sul rapporto tra fisco e cessionario quando il primo contesti al secondo l’inesistenza delle fatture emesse. In ogni caso secondo la ricorrente quanto affermato dai giudici d’appello è in contrasto con la corretta lettura dell’art. 21 citato, dal quale emerge che un’operazione deve ritenersi giuridicamente inesistente quando manchi degli elementi oggettivi e soggettivi che la individuano in quanto la ratio della stessa che regola l’obbligo di fatturazione è quella di rendere conoscibili in modo certo le operazioni commerciali, posto che il legislatore al citato art. 21 ha accolto una formulazione ampia tale da comprendere nel concetto di operazione
inesistente ogni discrepanza tra il dato contabilizzato e il dato reale, avendo inteso colpire ogni divergenza tra la realtà commerciale e l’espressione documentale di essa.
La censura è fondata.
Sono gli stessi giudici d appello ad affermare che nelle fatture non era stata correttamente indicata la natura. qualità e quantità dei beni o dei servizi venduti o prestati.
La giurisprudenza di questo giudice di legittimità è concorde nel ritenere che l’omessa indicazione nelle fatture di dati prescritti dall’art. 21 del d.P.R. 26 ottobre 1972. n. 633 integra quelle gravi irregolarità che, ai sensi dell’art. 39 del d.P.R. 9 settembre 1973. n. 600, legittimano l’Amministrazione finanziaria a ricorrere all’accertamento induttivo del reddito imponibile (v. tra le altre Cass. n. 5748 del 2010).
In ogni caso una fattura nella quale manchino i dati prescritti per legge non è idonea a fornire la prova dell’esistenza delle operazioni in esse riportate. Pertanto se, in ipotesi di fatture ritenute relative ad operazioni inesistenti, grava sull’ Amministrazione l’onere di provare che le operazioni. oggetto delle fatture, in realtà non sono state mai poste in essere, a fronte di fatture che invece non possono considerarsi tali perché mancanti dei requisiti normativi, grava sul contribuente l’onere di dimostrare l’effettiva esistenza delle operazioni contestate (non potendo essa ritenersi fornita con l’esibizione di fatture carenti di elementi indispensabili ai fini della identificazione dell’operazione posta in essere), cosi come accade nelle ipotesi in cui l’amministrazione fornisca validi elementi per affermare che alcune fatture sono state emesse per operazioni (anche solo parzialmente) fittizie.
Col secondo motivo, deducendo violazione e falsa applicazione degli artt. 6 d.lgs. 218/97, 112 115 e 116 c.p.c., nonché omesso esame di un punto decisivo della controversia, la ricorrente censura che l’Ufficio non aveva convocato il contribuente nei termini, rilevando sia che l’Ufficio aveva invitato la società al contraddittorio, tanto che era stato redatto un verbale in cui si dava atto del mancato accordo, sia che il citato n. 6 prevede che l’istanza per l’attivazione della procedura concordataria deve essere presentata prima dell’ impugnazione dell’avviso di rettifica
e che l’impugnazione di tale atto comporta rinuncia all’istanza di accertamento con adesione.
La censura è fondata nei termini che seguono.
Prescindendo infatti da ogni considerazione circa l’intervento o meno di una tempestiva convocazione, è sufficiente rilevare che, secondo la giurisprudenza di questo giudice di legittimità, la presentazione di istanza di definizione da parte del contribuente, ai sensi dell’art. 6 del d.lgs. 19 giugno 1997, 218, non comporta l’inefficacia dell’avviso di accertamento, ma solo la sospensione del termine di impugnazione per un periodo di 90 giorni, decorsi i quali senza che sia stata perfezionata la definizione consensuale, l’accertamento diviene comunque definitivo, in assenza di impugnazione, anche e sia mancata la convocazione del contribuente, che costituisce per l’Ufficio non un obbligo ma una facoltà, da esercitare in relazione ad una valutazione discrezionale del carattere di decisività degli elementi posti a base dell’accertamento e dell’opportunità di evitare
contestazione giudiziaria. (v. Cass. Il. 28051 del 2009) ed inoltre che la mancata convocazione del contribuente, a seguito della presentazione dell’istanza ex art. 6 del d.lgs, 16 giugno 1997, n. 218 non comporta la nullità del procedimento di accertamento adottato dagli Uffici, non essendo
tale sanzione prevista dalla Iegge (v. SU 11. 3676 del 2010) .
3. Alla luce di quanto sopra esposto. il ricorso del Ministero deve essere dichiarato inammissibile e, in assenza di attività difensiva, nessuna decisione deve essere assunta con riguardo alle relative spese. Il ricorso dell’ Agenzia deve essere accolto e la sentenza impugnata deve essere
cassata con rinvio ad altro giudice che provvederà anche in ordine alle pese
del presente giudizio di legittimità.

 

P.Q.M.

 

Dichiara inammissibile il ricorso del Ministero e accoglie il ricorso dell’Agenzia, cassa la sentenza impugnata e rinvia anche per le spese a diversa sezione della C.T.R. Emilia Romagna.

Redazione