Falso in bilancio e bancarotta (Cass. pen. n. 42116/2013)

Redazione 11/10/13
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Rilevato in fatto

Con ordinanza in data 19.4.2012 la Corte d’appello di Torino rigettava l’istanza con la quale G.G. aveva chiesto la revoca – per intervenuta abrogazione del reato addebitatogli di bancarotta fraudolenta – della sentenza del Tribunale di Cuneo in data 11.11.1992, confermata dalla Corte d’appello di Torino (con riguardo al G.) con sentenza in data 30.10.1995.
Il G. era stato condannato, in concorso con altri, per il delitto di bancarotta di cui all’art.223 Legge fallimentare, in relazione all’art. 2621 c.c., perché in qualità di presidente del collegio sindacale della FINVEST FINANZIARIA INVESTIMENTI spa (dichiarata fallita con sentenza del Tribunale di Cuneo 9-14 giugno 1988) esponeva nei bilanci relativi agli anni 1984, 1985 e 1986 fatti non rispondenti al vero sulle reali condizioni economiche della società, in particolare indicando falsamente nell’attivo patrimoniale crediti certamente irrealizzabili, con il risultato che alla conclusione dell’esercizio 1986 la situazione effettiva denunciava – in contrasto con i bilanci approvati – una perdita di oltre dieci miliardi di lire, e ciò per effetto di un sistematico occultamento dei sintomi di progressiva irreversibile decozione che, costantemente involvendo, aggravava il dissesto in misura tale da cagionare ai creditori un danno patrimoniale di rilevante entità, posto che al momento della dichiarazione di fallimento il deficit ammontava ad oltre quaranta miliardi di lire.
La Corte d’appello esaminava la suddetta sentenza di condanna al fine di accertare se dalla stessa risultasse che il G. , nel commettere le false comunicazioni sociali addebitategli, avesse anche cagionato o concorso a cagionare il dissesto della società, poiché solo in questo caso, tenuto conto della riformulazione del delitto di bancarotta impropria ad opera del D.L.vo 61/2002, non doveva essere revocata ex art. 673 c.p.p. la suddetta sentenza di condanna. Riteneva, innanzi tutto, che dall’esame della suddetta sentenza risultava che fossero stati in allora puntualmente accertati tutti gli elementi costitutivi del reato di cui all’art. 2621 c.c. nella formulazione attualmente vigente, e in particolare l’intenzione comune ad amministratori e sindaci della società poi fallita di ingannare soci e pubblico, avendo il Tribunale di Cuneo tra l’altro affermato che era evidente l’intenzione di mascherare, sia agli occhi dei risparmiatori che investivano i propri denari, sia agli occhi delle banche che seguitavano a profondere liquidità, la profonda voragine che si era venuta pian piano creando, così come era evidente dall’esame della predetta sentenza del Tribunale il fine di ingiusto profitto perseguito dal G. e dai correi, consistito nel consentire alla FINVEST sommersa dalle insolvenze di poter continuare a ricorrere a piene mani al credito bancario e dei privati e di evitare il fallimento. Concludeva, quindi, che dalla lettura della sentenza del Tribunale di Cuneo risultava accertato – seppur nell’ambito dell’accertamento di un fatto delittuoso descritto in conformità alla norma incriminatrice all’epoca vigente – un rapporto di causalità fra il fatto, qualificabile ex art. 2621 c.c. nella formulazione ora vigente, e il dissesto della società, stante la macroscopicità delle falsità e il conseguente accumularsi delle perdite determinato dalla continuazione dell’attività d’impresa in una situazione di risalente e palese insolvenza.
Avverso la sentenza ha proposto ricorso per cassazione il difensore, chiedendone l’annullamento per erronea applicazione della legge penale.
Il ricorrente ha sostenuto, a sostegno della richiesta di revoca della suddetta sentenza del Tribunale di Cuneo, confermata dalla Corte d’appello di Torino, che la mancata svalutazione di componenti attivi iscritti a bilancio non avrebbe mai potuto considerarsi in astratto condotta idonea a cagionare o provocare il dissesto della società, come oggi richiesto dalla nuova formulazione dell’art. 223 della Legge Fallimentare.
Tale condotta, al più, avrebbe potuto comportare un ulteriore aggravamento del dissesto, la cui origine però andava individuata nella concessione di finanziamenti a società non più affidabili.
Nella ordinanza impugnata si era confuso il concetto di aggravamento del dissesto con quello di aver cagionato il dissesto commettendo illeciti societari, invece richiesto dall’art. 223 Legge Fallimentare per l’integrazione del reato.
Né erano stati indicati gli elementi di prova valutati nel procedimento di merito dai quali si sarebbe dovuto dedurre che il nuovo elemento della fattispecie era stato oggetto di accertamento anche da parte del Tribunale di Cuneo.
Lo stesso capo di imputazione a suo tempo contestato aveva chiaramente specificato che trattavasi di violazioni che si inserivano in una situazione di progressiva ed irreversibile decozione che, costantemente involvendo, aveva aggravato il dissesto.
Secondo il ricorrente, quindi, le condotte che avevano portato al dissesto dovevano essere individuate unicamente nella scelta da parte degli amministratori di diritto – e non dei componenti del collegio sindacale – di concedere o mantenere aperture di credito a clienti che già manifestavano dei primi segni d’insolvenza.
La Corte d’appello aveva ritenuto integrato il rapporto di causalità anche dalla mera continuazione dell’attività d’impresa in presenza di una situazione di risalente e palese insolvenza, ma tale elemento non era stato accertato nel contraddittorio del giudice di merito di allora, e quindi non poteva essere ricavato da un’autonoma interpretazione del giudice dell’esecuzione.

Considerato in diritto

Il ricorsoè infondato.
La giurisprudenza di questa Corte, dopo l’intervento delle Sezioni Unite del 2003, è costante nel ritenere che la nuova formulazione delle norme che prevedono i delitti di false comunicazioni sociali (artt. 2621 e 2622 cod. civ.) e di bancarotta fraudolenta impropria “da reato societario” (art. 223, comma 2, n. 1, R. D. 16 marzo 1942 n. 267), ad opera rispettivamente degli articoli 1 e 4 del decreto legislativo 11 aprile 2002 n.61, non ha comportato l’abolizione totale dei reati precedentemente contemplati, ma ha determinato una successione di leggi con effetto parzialmente abrogativo in relazione a quei fatti, commessi prima dell’entrata in vigore del citato decreto legislativo, che non siano riconducibili alle nuove fattispecie criminose (V. Sez. U. sentenza n.25887 del 26.3.2003, Rv. 224605). Ha inoltre precisato sia che il giudice dell’esecuzione, al quale sia chiesta a seguito delle modificazioni introdotte in tema di reati societari e fallimentari dalla legge 28 dicembre 2005 n. 262 (disposizioni per la tutela del risparmio e la disciplina dei mercati finanziari) la revoca della sentenza di condanna per false comunicazioni sociali e bancarotta fraudolenta impropria, ha il compito di accertare la sussistenza, con riferimento al “tempus commissi delicti”, degli elementi costitutivi della sopravvenuta tipologia di reato, a nulla rilevando la non intervenuta “abolitio criminis” per effetto delle citate modificazioni (V. Sez. 1 sentenza n. 17285 del 16.4.2008, Rv. 239629), sia che in tema di false comunicazioni sociali, al fine di verificare se i fatti commessi prima dell’entrata in vigore del D.lgs. 11 aprile 2002 n. 61 siano sussumibili nell’attuale fattispecie criminosa di cui all’art. 2622 cod. civ. occorre che tutti gli elementi richiesti dalla nuova disciplina siano stati contestati e abbiano formato oggetto di accertamento in contraddittorio. Ne consegue che nel giudizio di cassazione, nel quale la Corte è chiamata a decidere sulla base di un accertamento già compiuto dal giudice di merito, se i nuovi elementi non hanno formato oggetto di valutazione nella decisione impugnata, il fatto-reato rientra nell’ambito dell’abolitio criminis (V. Sez. 5 sentenza n.45712 del 3.10.2003, Rv. 2269189). La Corte d’appello, esaminando la sentenza del Tribunale di Cuneo della quale è stata chiesta la revoca ai sensi dell’art. 673 c.p.p., ha ritenuto che fossero sussistenti e puntualmente accertati dal predetto Tribunale tutti gli elementi costitutivi del reato di cui all’art. 2621 c.c. nella formulazione attualmente vigente, e in particolare che fosse stato accertato sia il dolo del suddetto reato, vale a dire la consapevolezza di amministratori e sindaci di ingannare i risparmiatori che affidavano il proprio denaro alla suddetta società e le banche che seguitavano a profondere liquidità, mascherando con falsi bilanci e false comunicazioni sociali la profonda voragine che si era creata nei conti della società, sia il fine di ingiusto profitto perseguito dal G. e dai correi, consistito nel consentire alla FINVEST di proseguire nella sua attività con mezzi fraudolenti, sebbene non vi fossero le condizioni per richiedere ulteriore denaro ai risparmiatori e crediti alle banche.
Il giudice dell’esecuzione ha anche, con adeguata motivazione, dimostrato che dalla menzionata sentenza del Tribunale di Cuneo risultava che i fatti qualificabili ex art. 2621 c.c. nella formulazione ora vigente avevano concorso a cagionare il dissesto della società, stante la macroscopicità delle falsità e il conseguente accumularsi delle perdite determinato dalla continuazione dell’attività d’impresa in una situazione di risalente e palese insolvenza. Non è accettabile la tesi del ricorrente, sotto l’aspetto logico giuridico, che la condotta per la quale il G. era stato condannato aveva comportato solo un aggravamento del dissesto, mentre la causa dello stesso dovrebbe individuarsi unicamente nella scelta da parte degli amministratori di diritto di concedere o mantenere aperture di credito a clienti che già apparivano insolventi.
La causa di un evento dipende normalmente da più condizioni, ciascuna delle quali, se necessaria al prodursi dell’evento, deve essere considerata causa dello stesso, in quanto né la norma in questione né qualsiasi altra norma del nostro ordinamento giuridico per ogni altro genere di evento richiede che la condotta dell’imputato sia causa esclusiva dell’evento.
Nel caso in esame, secondo quanto risulta dalla motivazione dell’ordinanza impugnata, il fallimento si è verificato portando la società allo stato di insolvenza che è stato cagionato anche dalle false comunicazioni sociali in bilancio, poiché senza quelle false comunicazioni l’attività della società non sarebbe potuta continuare e quindi non si sarebbero potute compiere le operazioni che avevano portato al dissesto della società.
La Corte d’appello ha accertato nel contraddittorio delle parti la sussistenza del rapporto di causalità tra le suddette falsità e il dissesto, poiché detto rapporto è stato ricavato dalla stessa motivazione della sentenza della quale era stata chiesta la revoca, riportando interi brani della motivazione.
Alla stregua della verifica compiuta dal giudice dell’esecuzione, non poteva essere disposta la revoca della sentenza del Tribunale di Cuneo in data 11.11.1992, in quanto il G. risultava responsabile di false comunicazioni sociali che avevano contribuito a cagionare il fallimento della società.
Pertanto, il ricorso deve essere rigettato, con conseguente condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.

Redazione