Deve pagare i danni la banca che divulga i dati personali di un giudice al fine di screditare una sentenza da lui emessa contro l’istituto di credito (Cass. n. 19790/2013)

Redazione 28/08/13
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Svolgimento del processo

.1 – R.C. chiese al Tribunale di Lecce di condannare la Banca Monte dei Paschi di Siena S.p.A., previo accertamento della violazione dei diritto alla privacy e alla reputazione, al risarcimento dei danni conseguenti all’illecito trattamento di dati personali e al blocco dei dati trattati in violazione di legge.
Premetteva di avere deciso in qualità di Giudice di Pace una causa in cui la convenuta era risultata soccombente e che nel conseguente atto di appello la Banca aveva del tutto arbitrariamente riferito dell’esistenza tra essa e il R. di pregressi rapporti riguardanti lo stesso prodotto finanziario all’origine della sentenza oggetto di impugnazione.
.2 – Con sentenza in data 25 gennaio – 13 febbraio 2007 il Tribunale di Lecce condannò il Monte dei Paschi di Siena al blocco dei dati trattati in violazione di legge e al risarcimento dei danni liquidati in Euro 30.000,00. Il Tribunale osservò per quanto interessa: la Banca aveva riferito i termini della controversia avuta con il R. e il percorso che aveva condotto alla sua definizione, rivelando circostante inerenti la sua vita privata, conosciute dall’appellante per ragioni professionali, senza il consenso dell’interessato, in tal modo violando il D. Lgs. 196/2003; le informazioni suddette erano state strumentalmente utilizzate allo scopo deliberato di censurare al sentenza impugnata non attraverso argomentazioni tecnico – giuridiche, ma screditando il Giudice che l’aveva pronunciata.
.3 – Avverso la suddetta sentenza la Banca Monte dei Paschi di Siena ha proposto ricorso per cassazione affidato a sette motivi.
Il R. ha resistito con controricorso.
La ricorrente ha presentato memoria.

Motivi della decisione

.1.1 – Il primo motivo lamenta omessa motivazione in relazione all’avvenuta “diffusione” dei dati personali del R. .
La ricorrente assume che costui non aveva provato che vi fosse stata diffusione dei dati, che l’atto di appello non era destinato ad essere portato a conoscenza di soggetti indeterminati e che non era possibile che la diffusione fosse avvenuta in sede di prima udienza.
.1.2 – Indipendentemente da qualsiasi altra considerazione e dal rilievo che la ricorrente non ha riferito in quali precisi termini avesse sottoposto la questione al giudice di merito, la censura risulta infondata alla stregua dell’orientamento di questa Corte, in base al quale (Cass. Sez. Un. 3033 del 2011; Cass. Sez. 3, n. 3358 del 2009 e n. 12285 del 2008) costituisce la diffusione l’utilizzazione di dati personali in sede giudiziaria, diffusione che è lecita anche senza il consenso dell’interessato purché i dati siano utilizzati esclusivamente per difendere propri diritti in sede giudiziaria e per il periodo strettamente necessario al loro perseguimento, trattandosi di tutela di un diritto costituzionalmente garantito.
.2.1 – Il secondo motivo adduce carente motivazione in relazione all’esimente di cui all’art. 24, comma 1 lett. f) d. lgs. 196/2003.
La Banca rileva che il Tribunale non ha considerato che le informazioni in contestazione erano state inserite nell’atto di appello al fine di fornire al Giudice ogni elemento necessario per la propria decisione.
.2.2 – La censura è inammissibile perché sostanzialmente volta a censurare il contenuto decisorio della sentenza impugnata.
Il Tribunale, con accertamento di fatto logicamente motivato ha posto in evidenza che la diffusione dei dati nell’atto di appello non era funzionale alla difesa tecnico – giuridica della Banca, ma era volta unicamente a screditare, agli occhi dei giudici d’appello, il giudice che aveva pronunciato la sentenza impugnata.
.3.1 – Il terzo motivo adduce violazione e falsa applicazione dell’art. 24, comma 1 lett. f) d.lgs. 196/2003.
Si assume che il Tribunale ha errato nel non riconoscere i presupposti dell’esimente in quanto la Costituzione annovera il diritto di ogni parte processuale di essere giudicato in condizioni di parità davanti ad un giudice terzo e imparziale.
.3.2 – Il giudice terzo e imparziale cui era rivolto l’atto era, ovviamente, il giudice d’appello. È indubbio che, ove la Banca avesse avuto motivo di dubitare dell’imparzialità del giudice di primo grado, ben avrebbe potuto utilizzare lo strumento della ricusazione.
È opportuno ribadire che è certamente consentito utilizzare in sede giudiziaria dati personali senza il consenso dell’interessato al fine di difendere un proprio diritto, ma tutte le sentenze che si sono pronunciate nel senso indicato hanno preso in considerazione la diffusione di dati personali della controparte dell’utilizzatore, mentre nella specie i dati personali diffusi riguardavano il giudice che aveva pronunciato la sentenza impugnata e miravano non a far valere un proprio diritto, ma unicamente a screditare il suddetto e, quindi, la sua sentenza.
Infine, la censura in esame rende necessari apprezzamenti di merito e il quesito di diritto (ricorrono i presupposti dell’art. 24, comma 1 lett. f) d.lgs. 196/2003 allorché una parte processuale inserisca in un atto processuale, senza provvedere alla sua diffusione, dati personali di terzi necessari per far valere o difendere il proprio diritto costituzionale, ex art. 111, comma 2, Costituzione, ad un equo processo), necessario ai sensi dell’art. 366-bis c.p.c, applicabile ratione temporis, è valutativo e astratto, poiché prescinde totalmente dai necessari riferimenti al caso concreto e, in particolare, alla motivazione della sentenza impugnata.
.4.1- Il quarto motivo ipotizza ancora omessa motivazione in merito alla condanna risarcitoria della Banca”.
Essa assume che manca la motivazione in ordine alla condotta dannosa da cui sarebbe scaturito il danno, al nesso di causalità tra condotta dannosa e asserito danno e al danno morale asseritamente patito dal R.
.4.2- La censura, priva del momento di sintesi prescritto dall’art. 366-bis c.p.c., è comunque manifestamente infondata, poiché il Tribunale ha spiegato che la Banca, con la sua condotta ingiustificata, ha violato il diritto alla riservatezza e alla reputazione del ricorrente. La violazione di un diritto costituzionalmente garantito comporta l’obbligo di risarcire il conseguente danno morale. La quantificazione del medesimo deve necessariamente essere effettuata ricorrendo al criterio equitativo.
.5.1 – Il quinto motivo denuncia violazione e falsa applicazione degli artt. 2697, 2043, 2030, 2059 c.c. e 15 d.lgs. 196/2003.
Secondo la ricorrente la sentenza ha palesemente violato le norme in materia di oneri probatori.
.5.2 – La censura trova anticipata risposta nelle argomentazioni addotte con riferimento al motivo precedente.
Il quesito finale recita: “la parte che agisce in via aquiliana ai fini del risarcimento del danno non patrimoniale (nella fattispecie danno morale) non è esentata dal fornire la dimostrazione del’evento dannoso, del nesso di causalità e del danno patito e, a tale ultimo riguardo, deve fornire perlomeno gli elementi necessari per una valutazione in via equitativa”.
Un quesito siffatto si rivela del tutto inidoneo a garantire le finalità perseguite dall’art. 366-bis c.p.c. in quanto assolutamente generico e astratto.
.6.1 – Il sesto motivo rappresenta omessa motivazione in relazione ai criteri di determinazione equitativa del risarcimento.
.6.2 – Il danno morale non può che essere liquidato equitativamente secondo il prudente apprezzamento del giudice di merito.
La censura risulta carente con riferimento all’adempimento dell’onere processuale posto dall’art. 366-bis c.p.c..
.7.1 – Il settimo motivo denuncia violazione e falsa applicazione degli artt. 1226, 2056 e 2059 c.c..
Il tema è ancora la valutazione equitativa e la quantificazione del danno.
.7.2 – La censura è sostanzialmente ripetitiva della precedente e risulta infondata per le medesime ragioni.
Il quesito di diritto (nella determinazione del danno morale in via equitativa il giudice di merito deve tenere conto tutte le circostanze oggettive e soggettive idonee ad adeguare l’indennizzo al caso concreto e in particolare, nel caso di trattamento dei dati personali non autorizzato, deve considerare l’eventuale diffusione dei medesimi e il dato di diffusione) non postula l’enunciazione di un principio fondato sulle norme indicate che sia, nel contempo, decisivo per il giudizio e di applicabilità generalizzata e, per contro, risulta assolutamente astratto.
.8 – Pertanto il ricorso è rigettato. Le spese del giudizio di cassazione seguono il criterio della soccombenza. La liquidazione avviene come in dispositivo alla stregua dei parametri di cui al D.M. 140/2012, sopravvenuto a disciplinare i compensi professionali.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso. Condanna la ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di cassazione, liquidate in complessivi Euro 4.700,000, di cui Euro 4.500,00 per compensi, oltre accessori di legge. 

Redazione