Decreto ingiuntivo (Cass. n. 2502/2013)

Redazione 04/02/13
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Svolgimento del processo – Motivi della decisione

Ritenuto che ai sensi dell’art. 380 bis c.p.c. il relatore nominato per l’esame del ricorso ha depositato la seguente relazione:

“Osserva in fatto.

Con ricorso 20/1/2003 la soc. D.M. ****** di ************* & C., premesso di avere eseguito per la ditta *********** di **************** lavori di ristrutturazione e ampliamento di un negozio e di un fabbricato e di essere rimasta creditrice della somma, residua di Euro 40.888,12, come rappresentato nelle fatture n. (omissis) per Euro 1.560,00 e n. (omissis) per Euro 163.277,79, chiedeva decreto ingiuntivo per il residuo credito come sopra quantificato.

Il Presidente del Tribunale di Bassano del Grappa emetteva decreto ingiuntivo nell’importo richiesto.

G.B. in proprio e quale titolare della ditta *********** di **************** proponeva opposizione eccependo di avere già corrisposto, relativamente al credito complessivo di Euro 164.837,79, azionato con le due menzionate iatture, acconti documentati per Euro 154.932,91, rimanendo così debitore della minor somma di Euro 9.904,65.

Dopo l’espletamento di CTU il Tribunale di Bassano del Grappa con sentenza del 9/8/2006 revocava il decreto ingiuntivo, condannava l’ingiunto a pagare la minor somma di Euro 9.481,65, oltre interessi, oltre alle spese di lite, ponendo le spese di CTU a carico di entrambe le parti per metà ciascuna.

Il Tribunale rilevava che dalle quietanze prodotte risultavano acconti per l’importo di Euro 154.932,91, maggiore rispetto all’importo di Euro 123.349,67 che risultava sulla base della documentazione posta a fondamento della richiesta di decreto ingiuntivo (essendo implicitamente riconosciuti acconti per Euro 123.349,67); in particolare, il Tribunale rilevava che non v’era prova che i pagamenti indicati come acconti ricevuti nella fattura n. 1 fossero gli stessi di quelli indicati nelle quietanze e che pertanto andavano sommati ai primi.

La soc. D.M. ****** di ************* & C proponeva appello rilevando che gli acconti contabilizzati con le fatture n. (omissis) ammontavano esattamente a Euro 154.934,52 e che pertanto gli acconti quietanzati non andavano aggiunti a quelli dichiarati nelle fatture perchè ciò avrebbe comportato una illegittima duplicazione degli acconti.

G.B. in proprio e quale titolare della ditta *********** di **************** si costituiva per resistere all’appello e proponeva appello incidentale anche per ottenere la compensazione delle spese processuali che invece il primo giudice aveva posto a suo carico.

La Corte di Appello di Venezia con sentenza del 7/12/2010 rigettava l’appello principale e accoglieva parzialmente l’appello incidentale limitatamente alla statuizione delle spese del primo grado che compensava, rilevando che gli acconti dichiarati come già percepiti nelle fatture vanno aggiunti a quelli quietanzati non essendo ad essi sovrapponigli in quanto la sovrapponibilità era smentita dalla diversità di data, e importi e dalla circostanza che tre delle quattro fatture di acconto recavano la dicitura manoscritta pagato che non sarebbe stata necessaria se fossero state emesse per la mera regolarizzazione contabile di acconti già quietanzati in calce al contratto.

La soc. D.M. ****** di ************** & C propone ricorso affidato a 4 motivi.

G.B. in proprio e quale titolare della ditta *********** di **************** resiste con controricorso.

Osserva in diritto.

1. Con il primo motivo la ricorrente deduce l’omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione e la violazione e falsa applicazione degli artt. 61, 115 e 116 c.p.c. e sostiene che la Corte territoriale avrebbe errato nel ritenere che gli acconti esposti nelle fatture n. (omissis) già pagati non ricomprendevano gli acconti già quietanzati in calce al contratto di appalto.

In particolare, secondo la società ricorrente è immotivata l’affermazione secondo la quale i pagamenti indicati come già pagati nelle fatture siano diversi da quelli quietanzati in calce al contratto e sostiene che l’esclusione (per diversità di date e di importi) della sovrapponibilità tra acconti quietanzati e fatture con indicazione di acconti scaturisce da travisamento dei tatti sussistendo invece assoluta coincidenza temporale desumibile dalla documentazione in atti (fatture e prospetto di computo allegato alla relazione peritale); i documenti prodotti non erano contestati e pertanto ai sensi dell’art. 115 c.p.c., il giudice di appello avrebbe dovuto attenersi ai documenti e non concludere diversamente da quanto risultava dagli stessi e, inoltre, in applicazione dell’art. 61 c.p.c., avrebbe dovuto ammettere la consulenza tecnica contabile richiesta sin dal primo grado da essa ricorrente o quanto meno motivare sulla mancata ammissione; infine non avrebbe valutato le prove secondo la regola del prudente apprezzamento stabilita dall’art. 116 c.p.c..

1.1 Il motivo è manifestamente infondato in quanto la Corte di Appello non ha violato il dovere di motivazione, nè il dovere di giudicare sulla base dei documenti prodotti, nè quello di ritenere provati 1 fatti non contestati, nè l’obbligo di giudicare secondo il suo prudente apprezzamento perchè:

– ha reso una decisione fondata sin documenti prodotti in causa, ossia le fatture e il contratto dal quale risultavano quietanzati pagamenti ulteriori rispetto a quelli riconosciuti nelle fatture;

– ha congruamente motivato nel rigettare l’assunto attorco della sovrapposizione tra acconti quietanzati in contratto e acconti riportati nelle fatture osservando che la coincidenza doveva essere esclusa per svariate ragioni (la diversità di data e di importi, la dicitura pagato che compare su tre fatture e che non sarebbe stata necessaria se le fatture, come sostenuto fossero state emesse solo per la regolarizzazione contabile degli acconti già quietanzati in calce al contratto);

– la contestazione della motivazione della Corte di Appello in ordine alla non coincidenza temporale tra gli acconti quietanzati e le fatture relative agli acconti è inammissibile in quanto si limita alla generica affermazione secondo la quale la documentazione m atti (fatture e il prospetto di computo allegato alla relazione peritale) proverebbe il contrario senza indicare specificamente gli clementi documentali che proverebbero le specifiche datazioni di acconti contrastanti con suddetta conclusione del giudice di appello;

– la violazione del principio di non contestazione di cui all’art. 115 c.p.c. non sussiste in quanto dagli atti risulta che l’ingiunto ha tempestivamente contestato l’importo richiesto con il decreto ingiuntivo sostenendo di avere corrisposto acconti in importo maggiore rispetto a quello esposto nella richiesta;

– risultando documentalmente l’importo dovuto e l’importo degli acconti e, quindi, per differenza il residuo dovuto, non sorgeva alcuna necessità di disporre consulenza contabile, nè alcun obbligo di motivare il rigetto della relativa istanza, in quanto la ragione del rigetto era implicita nella stessa motivazione della sentenza.

2. Con il secondo motivo la società ricorrete deduce la “omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione circa la valutazione dell’ampiezza della domanda giudiziale” censurando l’affermazione per la quale sarebbero state prospettate in appello ragioni creditorie diverse da quelle prospettate in primo grado e sostenendo che sin dal primo grado il CTU aveva accertato che l’importo complessivo dovuto dalla committente era pari a Euro 195.825,23.

2.1 il motivo è inammissibile per difetto di rilevanza in quanto il giudice di appello, pur dando atto della modifica della prospettazione creditoria, l’ha egualmente esaminata nel merito, pure riconoscendo che l’importo complessivamente dovuto era di Euro 175.557, 21 oltre *** e pertanto pari a Euro 195.825,23, è giunta alla conclusione della infondatezza della pretesa di non detrarre gli acconti già quietanzati in contratto (escludendone la sovrapposizione con quelli di cui alle fatture), conclusione che, per le ragioni già esposte sub 1.1 resta immune dalle formulate censure.

3. Con il terzo motivo la società ricorrente deduce la “violazione delle norme sull’indebito arricchimento (2041 c.c.) e omessa insufficiente e contraddittoria motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio (computo acconti)” e sostiene che la Corte territoriale avrebbe violato l’art. 2041 c.c. affermando che gli acconti dichiarati nelle fatture vanno aggiunti a quelli quietanzati.

3.1 il motivo è assorbito dal rigetto del primo motivo: essendosi accertato che la decisione di ritenere non sovrapponigli acconti fatturati e quietanze in calce al contratto non è censurabile, viene meno lo stesso presupposto dell’indebito arricchimento.

4. Con il quarto motivo la società ricorrente deduce la “violazione della norma relativa alla condanna totale o parziale alle spese del giudizio in base al principio della soccombenza”, “omessa contraddittoria e insufficiente motivazione” e “violazione e mancata applicazione delle norme di diritto”.

La società ricorrente sostiene che per il solo fatto che l’ingiunto era risultato debitore, seppure per un minore importo doveva essere ritenuto soccombente e condannato alla spese, almeno in parte, dei due gradi.

4.1 Il motivo è manifestamente infondato.

La violazione delle norme relative all’onere delle spese processuali è configurabile e denunciabile in sede di legittimità solo quando queste vengano poste, in tutto o in parte, a carico di chi sia risultato vittorioso, mentre, al di fuori di questa ipotesi, la compensazione totale o parziale delle spese rientra nei poteri discrezionali del giudice del merito.

Questa Corte ha già affermato che il procedimento per decreto ingiuntivo, la fase che si apre con la presentazione del ricorso e si chiude con la notifica del decreto non costituisce un processo autonomo rispetto a quello che si apre con l’opposizione, ma da luogo ad un unico giudizio, nel quale il regolamento delle spese processuali, che deve accompagnare la sentenza con cui è definito, va effettuato in base all’esito della lite: ne consegue che, ove la somma chiesta con il ricorso sia riconosciuta solo parzialmente dovuta, non contrasta con gli artt. 91 e 92 cod. proc. civ., la pronuncia di compensazione delle spese processuali, in quanto l’iniziativa processuale dell’opponente, pur rivelandosi necessaria alla sua difesa, non ha avuto un esito totalmente vittorioso, così come quella dell’opposto, che ha dovuto ricorrere al giudice per ottenere il pagamento della parte che. gli è riconosciuta (cfr. Cass. 3/9/2009 n. 19120 Ord.).

Ne discende la manifesta infondatezza della censura che, muovendo dal corretto presupposto per il quale l’ingiungente non poteva dirsi soccombente pretende di escludere la possibilità della compensazione integrale nel processo all’esito del quale la pretesa dell’ingiungente è stata ridotta a circa 1/4 dell’importo originariamente richiesto. 3. In conclusione, il ricorso può essere trattato in camera di consiglio, in applicazione degli artt. 376, 380 bis e 375 c.p.c. per la declaratoria di rigetto per manifesta infondatezza”.

Considerato che il ricorso è stato fissato per l’esame in camera di consiglio, che sono state effettuate le comunicazioni alle parti costituite e la comunicazione al P.G..

Considerato che la memoria della società ricorrente non apporta elementi atti a inficiare le valutazioni e le conclusioni della relazione perchè nella memoria:

– ribadisce che il giudice di prime cure e, poi, anche la Corte territoriale, mal motivando, avrebbero conteggiato due volte alcuni pagamenti, ma, come esposto in relazione, la motivazione sussiste ed è immune da vizi che la possano rendere censurabile;

– sostiene che i documenti prodotti non erano contestati, ma la censura non coglie nel segno in quanto le fatture e le quietanze non sono state contestate, ma si è ritenuta la non coincidenza di alcune di essere con le somme quietanzate in contratto, così concludendosi per un residuo credito inferiore rispetto a quello azionato;

Considerato, in conclusione:

– che il collegio condivide e fa proprie, anche con riferimento alle ulteriori censure, le argomentazioni e la proposta del relatore;

– che, di conseguenza, il ricorso, nel quale si sottopone all’esame di questa Corte di legittimità una questione di puro merito sull’importo degli acconti già pagati (sulla quale i giudici di merito si sono motivatamente espressi con due sentenze conformi), deve essere rigettato;

– che le spese di questo giudizio di Cassazione, liquidate come in dispositivo, seguono la soccombenza della società ricorrente.

P.Q.M.

La Corte di cassazione rigetta il ricorso e condanna la società D.M. ****** di ************* & C. s.n.c. a pagare a G.B. le spese di questo giudizio di cassazione che liquida in Euro 2.700,00 di cui Euro 200,00 per esborsi.

Redazione