D.lgs. 7 settembre 2005, n. 209 (Codice Assicurazioni) – Art. 139, comma 1, 3, 6 – Questione di legittimità costituzionale – Violazione degli artt. 2, 3, 24, 32, 76, 117 della Costituzione – Non manifestamente infondata (Trib. Brindisi, sez. distacc. Ostuni, 3/4/2012)

Redazione 03/04/12
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Massima

1) Il sistema risarcitorio delineato dall’art. 139 con il duplice limite dei valori tabellari, da applicarsi in relazione alle diverse ipotesi di lesione dell’integrità psico-fisica, nonché dell’aumento nei limiti del quinto, appare non solo in contrasto con  le disposizioni costituzionali in tema di “giustiziabilità” delle posizioni giuridiche e di uguaglianza, ma anche incompatibile con la tutela effettiva delle nuove posizioni giuridiche di diritto comunitario ed,  in particolare, del “Diritto all’integrità della persona”, di cui all’articolo 3 della Carta di Nizza, così della “Dignità umana” di cui all’articolo 1.

 

2) Il suddetto microsistema risarcitorio, nel porre valori risarcitori (quelli relativi al singolo giorno di inabilità temporanea totale o parziale), così come  limiti quantitativi non equi (e considerati tali dalla stessa Corte di Cassazione) si pone  in contrasto “mediato” con l’art. 6 Cedu che riconosce il “Diritto ad un processo equo” e “diretto” con l’art. 117 Cost., primo comma.

 

3) La qualificazione in termini di equità deve essere riferita non soltanto alle regole processuali, ma anche al risultato dell’esito del giudizio e, quindi, alle regole di diritto sostanziale, sottese alla valutazione giudiziale e coincidenti, nel caso di specie, con le regole che presiedono al risarcimento del danno da micropermanenti da circolazione stradale.  D’altronde, predicare l’equità delle sole regole processuali avrebbe l’effetto di consentire, in astratto, un esito (in termini di tutela accordata), processualmente equo, ma quantitativamente o qualitativamente non equo perché conseguente all’applicazione di regole di diritto sostanziale, non “eque”, come quelle in materia di prescrizione dell’azione, di decadenza o, come nel caso di specie, relative alla concreta commisurazione del danno risarcibile. 

 

4) L’articolo 139 del Cod. Ass., introducendo un regime risarcitorio differenziato rispetto a quello individuato come equo e, quindi, doverosamente applicabile, in relazione non solo a tutte le micropermanenti che rinvengano la propria genesi in un ambito differente dalla circolazione stradale, ma anche alle c.d. macropermanenti,  non è  compatibile con l’art. 3 Cost.. perché inidoneo, a differenza delle Tabelle di Milano, ad assicurare un’uniformità pecuniaria di base, quale presupposto per l’attuazione del principio equitativo.

 

5) Le sperimentate letture costituzionalmente conformi ineriscono al solo profilo del risarcimento del danno non patrimoniale di tipo morale, per cui rimangono irrisolti gli evidenziati profili di compatibilità costituzionale con riguardo alla risarcibilità del pregiudizio di tipo biologico.

 

                                                         

 

                                            REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

Il Tribunale di Brindisi, Sezione distaccata di Ostuni, in persona del giudice *****  *******************, ha emesso la seguente                                                                                                                                   

ORDINANZA

nella causa civile iscritta al n. 170/2008 del Ruolo Generale promossa

                                                              DA

S.  A., rappresentata e difesa dall’avv. ……,            

                                                                                                                APPELLANTE

CONTRO

S. U. O. A. S.p.A., in persona del suo legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa dagli avv.ti………,                                                                                                     

APPELLATA                                                                                                                    

E

A.     D.,                                                                                                           

                                                                      

                                                                                  APPELLATO   CONTUMACE        

                                                                                                           

       

MOTIVAZIONE

Questo Giudice ritiene sussistenti i presupposti per sollevare questione di legittimità costituzionale dell’art. 139, comma 1, del decreto legislativo 7 settembre 2005 n. 209, nella parte in cui stabilisce che:

<<Il risarcimento del danno biologico per lesioni di lieve entità, derivanti da sinistri conseguenti alla circolazione dei veicoli a motore e dei natanti, è effettuato secondo i criteri e le misure seguenti:

a) a titolo di danno biologico permanente, è liquidato per i postumi da lesioni pari o inferiori al nove per cento un importo crescente in misura più che proporzionale in relazione ad ogni punto percentuale di invalidità; tale importo è calcolato in base all’applicazione a ciascun punto percentuale di invalidità del relativo coefficiente secondo la correlazione esposta nel comma 6. L’importo così determinato si riduce con il crescere dell’età del soggetto in ragione dello zero virgola cinque per cento per ogni anno di età a partire dall’undicesimo anno di età. Il valore del primo punto è pari ad euro seicentosettantaquattro virgola settantotto;

b) a titolo di danno biologico temporaneo, è liquidato un importo di euro trentanove virgola trentasette (attualmente, elevato a euro 44,28) per ogni giorno di inabilità assoluta; in caso di inabilità temporanea inferiore al cento per cento, la liquidazione avviene in misura corrispondente alla percentuale di inabilità riconosciuta per ciascun giorno.>>;

nonché del comma 3 dello stesso articolo, nella parte in cui prevede che:

<<l’ammontare del danno biologico liquidato […] può essere aumentato dal giudice in misura non superiore ad un quinto, con equo e motivato apprezzamento delle condizioni soggettive del danneggiato.>>;

nonché, in ultimo, del comma 6, secondo cui “Ai fini del calcolo dell’importo di cui al comma 1, lettera a), per un punto percentuale di invalidità pari a 1 si applica un coefficiente moltiplicatore pari a 1,0, per un punto percentuale di invalidità pari a 2 si applica un coefficiente moltiplicatore pari a 1,1, per un punto percentuale di invalidità pari a 3 si applica un coefficiente moltiplicatore pari a 1,2, per un punto percentuale di invalidità pari a 4 si applica un coefficiente moltiplicatore pari a 1,3, per un punto percentuale di invalidità pari a 5 si applica un coefficiente moltiplicatore pari a 1,5, per un punto percentuale di invalidità pari a 6 si applica un coefficiente moltiplicatore pari a 1,7, per un punto percentuale di invalidità pari a 7 si applica un coefficiente moltiplicatore pari a 1,9, per un punto percentuale di invalidità pari a 8 si applica un coefficiente moltiplicatore pari a 2,1, per un punto percentuale di invalidità pari a 9 si applica un coefficiente moltiplicatore pari a 2,3”.

 

In applicazione dell’art. 139 è stata adottata la tabella del danno biologico di lieve entità (sotto i 9 punti di invalidità permanente) i cui valori sono stati aggiornati periodicamente, da ultimo, dal decreto del Ministero dello Sviluppo economico del 27 giugno 2011, che ha stabilito in:

Euro 759,04 l’importo relativo al valore del primo punto di invalidità;

Euro 44,28 l’importo relativo ad ogni giorno di inabilità assoluta

 

1.      Premesse di carattere concettuale e sistematico.

 

1.1.   Il quadro interpretativo previgente alle Sezioni Unite del 2008.

 

Le Sezioni Unite dell’11.11.2008, fornendo una sistemazione del danno non patrimoniale coerente con le sentenze gemelle n. 8828 e 8829 del 2003 (che ha trovato l’autorevole avallo della Consulta, nella sentenza n. 233 del 2003) hanno precisato come non esista un danno esistenziale quale categoria concettuale specifica a sé stante.

Infatti, prima della suddetta pronuncia, molteplici erano stati gli approdi giurisprudenziali che avevano richiamato la dubbia categoria del danno c.d. esistenziale, <<inteso come pregiudizio non patrimoniale, distinto dal danno biologico … in assenza di lesione dell’integrità psicofisica, e dal cd. danno morale soggettivo (unico danno non patrimoniale risarcibile, in presenza di reato, secondo la tradizionale lettura restrittiva dell’art. 2059 c.c. in collegamento all’art. 185 c.p.), in quanto non attinente alla sfera interiore del sentire, ma alla sfera del fare non reddituale del soggetto.>>.

Tale figura <<nasceva dal dichiarato intento di ampliare la tutela risarcitoria per i pregiudizi di natura non patrimoniale incidenti sulla persona, svincolandola dai limiti dell’art. 2059 c.c., e seguendo la via, già percorsa per il danno biologico, di operare nell’ambito dell’art. 2043 c.c. inteso come norma regolatrice del risarcimento non solo del danno patrimoniale, ma anche di quello non patrimoniale concernente la persona.>>.

Si affermava che, <<nel caso in cui il fatto illecito limita le attività realizzatrici della persona umana, obbligandola ad adottare nella vita di tutti i giorni comportamenti diversi da quelli passati, si realizza un nuovo tipo di danno (rispetto al danno morale soggettivo ed al danno biologico)>>, definito esistenziale.

Questo il quadro interpretativo prima delle Sezioni Unite.

 

1.2.  La reductio ad unum del danno non patrimoniale: le Sezioni Unite  dell’11.11.2008.

 

1.2.1. La negazione dell’autonomia concettuale e risarcitoria del danno c.d. esistenziale.

        

La pronuncia del 2008 nega l’autonoma dignità risarcitoria del danno c.d. esistenziale e ritiene, per contro, che esista un danno non patrimoniale, come categoria unitaria omnicomprensiva, rispetto al quale quelle che si è soliti considerare come singole e autonome poste risarcitorie (danno estetico, danno alla vita di relazione, danno biologico, danno alla propria sfera sessuale, danno c.d. esistenziale) assumono, invece, la valenza di mere esemplificazioni descrittive.

Ed, in particolare, nell’ambito di tale classificazione concettuale unitaria, il danno estetico, il danno alla vita di relazione, il danno alla propria sfera sessuale costituirebbero tutte sottovoci della più generale figura descrittiva del danno non patrimoniale di tipo biologico.

Quest’ultimo, in coerenza con la lata accezione fatta propria dall’art. 139 Codice delle Assicurazioni, assume, quindi, una portata onnicomprensiva, ponendosi quale macro-voce del danno non patrimoniale accanto al danno morale e al danno derivante dalla lesione di un diritto della persona costituzionalmente rilevante. 

Tale danno (c.d. non patrimoniale), che si contrappone a quello c.d. patrimoniale – per essere quest’ultimo connotato da una diretta incidenza sulla sfera patrimoniale economica del danneggiato –, è stato ricondotto dalle Sezioni Unite del 2008, e prima ancora dalle sentenze gemelle del 2003, non più all’art. 2043 c.c. (nel cui alveo aveva trovato, ab origine, collocazione lo stesso pregiudizio biologico), ma, in virtù di un’interpretazione costituzionalmente orientata di questa disposizione, all’art. 2059 c.c..

La norma codicistica, però, diversamente da come abitualmente interpretata dalla giurisprudenza prima del 2003, è letta in maniera difforme; cioè come idonea a ricomprendere non solo il danno morale ma anche la lesione di qualunque diritto della Persona costituzionalmente garantito.

Già nel 2003 si affermava che l’art. 2059 c.c., nella parte in cui stabilisce che il danno non patrimoniale è risarcibile nei soli casi previsti dalla Legge, doveva essere interpretato anche alla luce della Costituzione, pervenendosi ad un’interpretazione compatibile coi dettami costituzionali.

Poiché la Costituzione è norma sovraordinata, idonea, come tale, a porsi al massimo livello nella gerarchia delle fonti, ben può imporre all’interprete l’obbligo di tutelare un determinato diritto di rilevanza costituzionale mediante il riconoscimento, nell’ipotesi di sua lesione, del risarcimento del danno non patrimoniale. E ciò anche se la condotta illecita e dotata di efficienza lesiva non configuri reato, alla cui necessaria ricorrenza nella fattispecie concreta veniva condizionata la risarcibilità del danno non patrimoniale.

D’altro canto, seguendo un distinto approccio ricostruttivo, la Costituzione è essa stessa una legge e, come tale, è idonea ad integrare la previsione legislativa di cui all’art. 2059 c.c. che enuncia il principio per cui il risarcimento del danno non patrimoniale è ammesso nei soli casi previsti dalle legge.

 

 

1.2.2. Il principio della tipicità del danno non patrimoniale: la necessità di un’ingiustizia costituzionalmente qualificata o, in alternativa, di una previsione di risarcibilità ex lege.    

    

Le Sezioni Unite del 2008 affermano, inoltre, il principio della tipicità del danno non patrimoniale. Ne costituisce logica conseguenza che il risarcimento si avrebbe solo in presenza della lesione di un diritto costituzionalmente garantito (e, cioè, di una ingiustizia costituzionalmente qualificata) oppure (a prescindere dalla suddetta condizione) quando ricorra un’espressa previsione di legge.

Inoltre, le SS.UU. precisano che la tutela dei diritti di rilevanza costituzionale non sarebbe, comunque, ristretta ai casi di diritti inviolabili della persona espressamente riconosciuti dalla Costituzione nel presente momento storico.

In virtù dell’apertura dell’art. 2 Cost. ad un processo evolutivo, si riconosce all’interprete il potere di rinvenire nel complessivo sistema costituzionale indici idonei a valutare se nuovi interessi emersi nella realtà sociale siano non genericamente rilevanti per l’ordinamento, ma di rango costituzionale in quanto attinenti a posizioni inviolabili della persona umana.

Secondo le Sezioni Unite del 2008, una delle ipotesi in cui il danno non patrimoniale è considerato risarcibile, al di là della lesione di un diritto costituzionalmente garantito, è proprio quella del danno morale da reato (quali sono le lesioni colpose, derivanti da un sinistro stradale). In tale circostanza è  risarcibile qualunque pregiudizio areddituale (e, quindi, anche la sofferenza derivante eziologicamente dal non poter più fare), anche se derivante dalla lesione di un interesse privo di rilievo costituzionale, purché suscettibile di superare il generale vaglio di meritevolezza ex art. 2043 c.c..

Infatti, la tipicità, in questo caso – come affermano le Sezioni Unite – non è determinata soltanto dal rango dell’interesse protetto, ma dalla stessa scelta del legislatore di considerare risarcibili i danni non patrimoniali cagionati da reato. Scelta che, comunque, implica la considerazione della rilevanza dell’interesse leso, desumibile dalla predisposizione della tutela penale. Nell’ipotesi di reato assume dignità risarcitoria l’impossibilità (totale o parziale) di svolgere una qualunque delle attività realizzatrici della persona, quand’anche non ne sia possibile un ancoramento costituzionale (attività ludiche, sportive, ricreative, …).

 

 

1.2.3.  La ricostruzione del danno non patrimoniale quale danno-conseguenza e la contestuale valorizzazione della prova presuntiva.

 

Le Sezioni Unite catalogano concettualmente  il danno non patrimoniale quale danno-conseguenza, inteso come danno in concreto riconducibile eziologicamente alla lesione di un diritto costituzionalmente garantito.

Al contempo, esse censurano sia la tesi del danno-evento, secondo cui in presenza della lesione di un diritto costituzionalmente garantito si potrebbe dire esistente un danno non patrimoniale, sia la tesi del danno in re ipsa che porta a conseguenze applicative omogenee. Pertanto, poiché vi è stata la lesione di un diritto costituzionalmente garantito, deve ritenersi insita nel fatto illecito l’esistenza di un danno da risarcire.

Se, da una parte, la pronuncia dell’11.11.2008 afferma il principio per cui il danno deve essere necessariamente conseguenza della violazione di un diritto costituzionalmente garantito, dall’altra, sotto il profilo degli strumenti processuali volti alla prova del danno non patrimoniale, svilisce la consulenza medica, affermando che, anche in materia di danno biologico – sottocategoria del danno non patrimoniale  – si potrebbe prescindere da essa. Ciò, in quanto, se il Giudice come peritus peritorum può disattendere la consulenza, così, allo stesso modo, può anche decidere di non espletare la consulenza, quando ritiene che, sulla base del quadro probatorio, è stata raggiunta la prova del danno non patrimoniale.

Secondo la Suprema Corte, le suddette considerazioni non sarebbero estendibili al danno morale, in quanto quest’ultimo, sulla base della specificità del caso concreto e in applicazione di quelle regole di comune esperienza che il Giudice può porre a fondamento del suo convincimento,  potrebbe essere anche presunto.

Proprio a questo proposito, le Sezioni Unite ricordano come, in materia di danno non patrimoniale, si possa ricorrere, oltre che alla prova documentale, come prova diretta, anche alla prova presuntiva o a quella testimoniale.

In particolare, si afferma che il ricorso alla prova presuntiva è destinato ad assumere particolare rilievo, e potrà costituire anche l’unica fonte per la formazione del convincimento del giudice, non trattandosi di mezzo di prova di rango inferiore agli altri (v., tra le tante, sent. n. 9834/2002).

Il danneggiato dovrà tuttavia allegare tutti gli elementi che, nella concreta fattispecie, siano idonei a fornire la serie concatenata di fatti noti che consentano di risalire al fatto ignoto.

       

  

1.3.  Le tabelle di Milano e la loro elevazione a parametro paralegislativo nonché ad “uso normativo”.

 

Poco dopo la pronuncia del 2008 vengono approvate le tabelle di Milano, strutturate e concepite in funzione del nuovo inquadramento concettuale del danno non patrimoniale (quale categoria unitaria) cui sono approdate le stesse Sezioni Unite.

Orbene, le nuove Tabelle – approvate il 28 aprile 2009 e aggiornate nel 2011 –  presentano profili di innovatività rispetto alle precedenti tabelle quanto alla liquidazione del danno permanente da lesione all’integrità psico-fisica.

Infatti, esse individuano il nuovo valore del c.d. “punto” muovendo dal valore del “punto” delle Tabelle precedenti (connesso alla sola componente di danno non patrimoniale anatomo-funzionale, c.d. danno biologico permanente), aumentato in riferimento all’inserimento nel valore di liquidazione “medio” anche della componente di danno non patrimoniale relativa alla “sofferenza soggettiva”di una percentuale ponderata (dall’1 al 9% di invalidità l’aumento è del 25% fisso, dal 10 al 34% di invalidità l’aumento è progressivo per punto dal 26% al 50%, dal 35 al 100% di invalidità l’aumento torna ad essere fisso al 50%), e prevedendo, inoltre, percentuali massime di aumento da utilizzarsi in via di c.d. personalizzazione.

Come affermato dalla Suprema Corte, con la sentenza del 2011, n. 12408, alle Tabelle milanesi deve riconoscersi <<una sorta di vocazione nazionale>>, anche perché, coi valori da esse tabellati, esprimono <<il valore da ritenersi “equo”, e cioè quello in grado di garantire la parità di trattamento e da applicare in tutti i casi in cui la fattispecie concreta non presenti circostanze idonee ad aumentarne o ridurne l’entità.>>. Ciò, al punto che la loro applicazione sarebbe oggetto di un vero e proprio uso normativo che s’impone in ogni ipotesi in cui non ricorra una diversa tabella prescritta ex lege (cfr. Cassazione citata).

Dunque, le stesse troverebbero applicazione sia alle “macropermanenti” (ovvero ai postumi permanenti superiori al 9 per cento) sia alle c.d. micropermanenti che non derivino eziologicamente dalla circolazione stradale, perché in tale ultima ipotesi troverebbero i criteri di cui all’art. 139 Cod. Assicurazioni.

 

In particolare, le tabelle milanesi costituiscono, stando all’attuale quadro rimediale, l’unico strumento operativo idoneo ad assicurare – mediante l’applicazione del punto del “danno non patrimoniale” – il valore dell’uniformità pecuniaria di base, quale presupposto per ogni specifico procedimento liquidatorio di personalizzazione.  

Peraltro, la Suprema Corte, nella stessa pronuncia (n. 12408 del 2011), nell’ambito del percorso argomentativo che l’ha indotta a optare per le Tabelle di Milano, quale strumento risarcitorio elettivo, fa espressamente <<salva la valutazione di conformità della disposizione citata (ovvero l’art. 138 Cod. Ass.) alla Costituzione, nella parte in cui pone un tetto alla personalizzazione del danno e rende potenzialmente inadeguata la somma complessivamente riconoscibile a titolo di risarcimento.>>.

Così facendo,  seppur implicitamente, avalla la valutazione d’incostituzionalità della norma de qua.

 

 

2.    La rilevanza della questione nel caso di specie.

 

In primis, sotto il profilo della rilevanza della norma, ai fini del thema decidendum, non vi è dubbio che l’art. 139, volto a disciplinare – così come espressamente previsto dal comma 1 dello stesso – le micropermanenti (rinvenienti la propria genesi nella circolazione dei veicoli a motore e dei natanti), trovi applicazione nel caso di specie.

Così, ovviamente, anche la tabella delle micro-permanenti adottata in attuazione dello stesso.

Infatti, a fronte di un sinistro stradale, l’odierna appellante riportava lesioni agli arti inferiori.

Orbene, la CTU, espletata nel giudizio di primo grado, ha accertato che le lesioni subite dalla sig.ra S. risultano oramai stabilizzate e hanno comportato una menomazione funzionale in 30 giorni di inabilità temporanea totale, 30 giorni di inabilità temporanea parziale al 50% ed un danno biologico permanente pari al 2%, ovvero nei limiti previsti per l’applicazione dell’art. 139.

Le conclusioni del medico legale sul danno biologico sono condivise da questo Giudice, in quanto basate su un completo esame anamnestico e su un obiettivo e coerente studio della documentazione medica prodotta, valutata con criteri medico-legali immuni da errori e vizi logici.

Risulta, inoltre, provata, nel caso di specie, anche l’ulteriore figura descrittiva del danno non patrimoniale, individuata dalle Sezioni Unite del 2008 nel danno morale e, dalla stessa pronuncia, disancorato dal dato temporale, con conseguente abbandono dello schematismo concettuale per cui il danno morale deve essere necessariamente transeunte.

Del resto, risponde ad una regola di esperienza di difficile smentita e, quindi, all’id quod plerunque accidit, che un fatto del tipo di quello accertato, nella fattispecie concreta sia idoneo a determinare una sofferenza di carattere morale. Ciò, sia per la capacità inabilitante e parzialmente compromissoria della  funzionalità degli arti delle lesioni subite dall’attrice, sia in considerazione della sua giovane età (18 anni) che deve fare presumere che la S., al momento del sinistro, da poco conseguita la maggiore età, si trovasse in una fase contraddistinta da una particolare intensità relazionale.

Le indicazioni, fornite dal CTU, ed, in particolare, la quantificazione dei postumi permanenti (2%) dovrebbero portare alla determinazione del complessivo danno non patrimoniale, patito dalla , in virtù della Tabella del danno biologico di lieve entità, ex art. 139 del Codice delle Assicurazioni, aggiornata al D.M. Sviluppo Economico del 17.06.2011.

Dunque, a titolo di danno non patrimoniale, di tipo biologico, all’appellata dovrebbero essere liquidati euro 1.603,09, a titolo di danno non patrimoniale di tipo biologico e  permanente. 

Quanto, invece, al danno da inabilità temporanea, esso,, in applicazione dei suddetti valori tabellari e considerato che il risarcimento per ogni giorno di invalidità assoluta è stato quantificato in euro 44,28, dovrebbe essere liquidato in euro 1.328,40 l’ITT, giorni 30; euro 664,20, l’ITP al 50% giorni 30, per complessivi euro 1.992,60. Dunque, a titolo di danno non patrimoniale di tipo biologico, all’attrice dovrebbero accordarsi euro 3.595,69.

Quanto al danno non patrimoniale di tipo morale – pure accertato nel caso di specie –, aderendo alla tesi, “c.d. costituzionalmente orientata”, dell’inapplicabilità dell’art. 139 a quest’ultimo pregiudizio (cfr. Tribunale di Varese , sez. I, sentenza 8 aprile, sulla quale ci si soffermerà nel prosequio), ne discenderebbe la non operatività del meccanismo dell’aumento, della suddetta misura risarcitoria, nei limiti di un quinto e il potere, per questo Giudicante, di applicare un’ulteriore entità monetaria,  a titolo risarcitorio, che, in considerazione delle predette circostanze, potrebbe essere equo liquidata in euro 1.400,00, per complessivi euro 4.995,69.

Se, invece, si ritiene non praticabile la suddetta interpretazione restrittiva della norma (da considerarsi, cioè, inapplicabile al pregiudizio morale), dovrebbe concludersi che, per il risarcimento del danno morale, sarebbe al più possibile una maggiorazione di un quinto di quanto liquidato a titolo di danno non patrimoniale, di tipo biologico (ovvero euro 3.595,69), per complessivi euro 719,38.

A voler applicare le tabelle di Milano approvate nel 2009, poco dopo la sentenza dell’11 novembre 2008, e aggiornate nel 2011 – la cui operatività, stando all’attuale quadro legislativo,  dovrebbe essere esclusa in virtù della speciale previsione di cui all’art. 139 – per la medesima situazione avremmo un esito liquidatorio, complessivo, apprezzabilmente diverso.

In primo luogo, l’applicazione del punto del danno non patrimoniale consentirebbe di riconoscere l’automatico risarcimento ai pregiudizi morali che, secondo l’id quod plerunque accidit, si accompagnano alla lesione dell’integrità fisica medicalmente accertata, ovvero pari al 2%.

Ciò, anche perché, nel caso di specie, non  constano circostanze di fatto che debbano portare ad escludere, in capo all’attrice, tale “dose presunta” di sofferenza morale.

Come noto, il punto su cui è incentrato il danno non patrimoniale, previsto dalle Tabelle milanesi, è un punto di per sé ricomprensivo sia del pregiudizio all’integrità fisica, sia del pregiudizio morale, quali voci descrittive dell’unitaria categoria del danno morale.

 

Dunque, mutuando i concetti espressi dalle Sezioni Unite del 2008, secondo cui non esiste un danno esistenziale quale categoria concettuale a sé stante, per contro, costituendo il danno non patrimoniale, una categoria unitaria omnicomprensiva  ( rispetto al quale quelle che si è soliti considerare come singole e autonome poste risarcitorie – danno estetico, danno alla vita di relazione, danno biologico …–, assumono, invece, la valenza di mere esemplificazioni descrittive) le tabelle Milanesi propongono un concetto di punto accorpato, omnicomprensivo.

Poi, le stesse tabelle prevedono la possibilità di una personalizzazione del danno, ma ciò non tanto al fine di consentire all’interprete di riconoscere rilievo, in sede di liquidazione, al danno morale abitualmente riconnesso ad ogni tipo di lesione fisica permanente tabellata, in quanto già incorporato nel punto del danno non patrimoniale (comprensivo del pregiudizio all’integrità fisica e del pregiudizio alla sfera morale), quanto in considerazione di altri e ulteriori pregiudizi di carattere non patrimoniale che siano ravvisabili nel caso di specie.

Quindi, la personalizzazione interviene per dare rilievo non tanto al pregiudizio morale, che già di per sé è incorporato nel punto del danno non patrimoniale, ma ad altri profili risarcitori, in considerazione della lesione di altri diritti costituzionalmente garantiti, oppure, in alternativa, ai fini di assicurare il ristoro di una sofferenza morale maggiore a quella presuntivamente liquidata con il punto di danno non patrimoniale (a sua volta, correlata ad età ed entità dei postumi permanenti).  

Ciò premesso, in applicazione delle suddette tabelle, <<oggi applicabil(i), in guisa di uso normativo, alla stregua della citata sentenza 12408/2011, che ne ha consapevolmente e motivatamente espunto un criterio paralegislativo di valutazione cui il giudice di merito dovrà attenersi nella liquidazione del danno non patrimoniale alla persona>>  (Cassazione civile, sez. VI, 02.11.2011, n. 22709, nonché Cass., Sez. III, 12 Settembre 2011 N. 18641), il danno non patrimoniale, di tipo biologico, da invalidità permanente subito dall’attrice dovrebbe essere quantificato in euro 2.673,00,

per postumi permanenti nella misura del 2% (anni 18 al momento del sinistro).

Quanto, invece, al calcolo del danno da inabilità temporanea, in applicazione dei suddetti valori tabellari e considerato che il risarcimento per ogni giorno di invalidità assoluta è pari ad euro 91,00, si dovrebbe liquidare in euro 2.730,00, l’ITT (giorni 30) e in euro 1.365,00, l’ITP al 50% (giorni 30), per complessivi euro 4.095,00.

In totale, per i danni su indicati, alla attrice, andrebbero liquidati complessivi euro 6.768,00.

Orbene, questo Giudice ritiene che solo tal ultima opzione risarcitoria sia idonea ad assicurare un risarcimento equo, ovvero idoneo – come si avrà modo di esplicitare – a garantire la duplice esigenza di una uniformità pecuniaria di base e di una idonea personalizzazione del danno.

 

Pertanto, questo Giudice, dovendo, per contro, applicare l’art. 139 Cod. Ass., non può prescindere dal soffermarsi sulla costituzionalità della norma stessa.

 

 

3.     Non manifesta infondatezza della questione.

 

L’art. 139 del decreto legislativo 7 settembre 2005 n. 209, secondo questo giudice, è affetto da molteplici profili di incostituzionalità. Incostituzionalità che, come si avrà modo di spiegare – almeno per quanto concerne la compatibilità con le norme sovranazionali e coi correlati dettami costituzionali – può dirsi sopravvenuta, perché conseguente all’evoluzione dell’ordinamento interno ed, in particolare, del c.d. livello sovranazionale di tutela.  

 

 

3.1.   Violazione dell’art. 117, primo comma, della Costituzione, in relazione all’art. 6  T.U.E.   quale   modificato  dal  Trattato di Lisbona  nonché agli artt. 1 e 3 della Carta di Nizza.   

 

Come noto, al Trattato di Lisbona deve riconoscersi un apprezzabile impatto ordinamentale, avendo avuto l’effetto di porre i diritti inalienabili della persona a fondamento dell’Unione, con ovvie implicazioni anche per l’ordinamento interno etero-integrato da quello comunitario.

La nuova formulazione dell’art. 6 TUE, proprio ad opera del suddetto trattato, secondo cui <<L’Unione riconosce i diritti, le libertà e i principi sanciti nella Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea del 7 dicembre 2000, adattata il 12 dicembre 2007 a Strasburgo, che ha lo stesso valore giuridico dei trattati>>, consente di riconoscere alla Carta di Nizza dei diritti lo stesso valore cogente dei Trattati fondamentali dell’Unione Europea (adottata il 7 dicembre 2000) e, quindi, la portata di diritto primario, destinato a prevalere su qualunque norma con esso confliggente, determinandone l’inapplicabilità.

Peraltro, quale norma di chiusura del sistema – preordinata ad evitare che la prassi applicativa dei vari stati membri possa svuotare la tutela dei beni di rango comunitario – si prevede, al comma 2, che <<I diritti, le libertà e i principi della Carta sono interpretati in conformità delle disposizioni generali del titolo VII della Carta che disciplinano la sua interpretazione e applicazione  e tenendo in debito conto le spiegazioni cui si fa riferimento nella Carta, che indicano le fonti di tali disposizioni.>>.

 

Orbene, il preambolo della Carta di Nizza, nel definire la fonte genetica dei diritti cui vuole offrire tutela, contiene un espresso riferimento <<(a)lle tradizioni costituzionali e (a)gli obblighi internazionali comuni agli stati membri, al Trattato sull’Unione europea e (a)i Trattati Comunitari, (a)lla Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, (a)lle Carte sociali adottate dalla comunità e dal consiglio d’europa, nonché (a)i diritti riconosciuti dalla giurisprudenza della Corte di giustizia delle Comunità Europee e da quella della Corte Europea dei diritti dell’Uomo.>>.

Può, dunque, dirsi perfezionata la “comunitarizzazione” della Carta di Nizza, o meglio dei diritti in essa sanciti [1], con la conseguenza che la loro violazione può considerarsi presidiata dalla più incisiva tutela apprestata dal diritto comunitario alle posizioni giuridiche soggettive di rilevanza sovranazionale ed, in particolare, dalla c.d. primazia della norme comunitarie.

Inoltre, come agevolmente desumibile dal preambolo della Carta di Nizza, la comunitarizzazione dei suddetti diritti può dirsi avvenuta nella portata e nell’ampiezza che agli stessi deve riconoscersi alla luce, peraltro, delle pronunce delle Corti sovranazionali nonché  della stessa Cedu che ne costituiscono, in un certo qual modo, il parametro di “concreta commisurazione”.

Tornando agli effetti di tale scelta, è noto come il problematico rapporto fra ordinamento comunitario e ordinamento interno, dopo un tortuoso percorso interpretativo, è stato risolto con l’elaborazione del principio del primato (c.d. primauté) delle norme comunitarie sul diritto interno, con il solo limite dei principi supremi del nostro ordinamento. Principio, il cui fondamento costituzionale è stato individuato nell’art. 11 Cost..

 

In virtù di tale articolo, l’ordinamento italiano, ricorrendo le condizioni individuate dalla stessa Assemblea Costituente, può limitare la propria sovranità. Quindi l’art. 11 Cost., è stato letto come fonte idonea ad  attribuire determinate competenze normative all’Unione; competenze che possono esplicarsi con norme direttamente operative nel nostro ordinamento, siano esse quelle dei trattati, siano esse quelle dei regolamenti e delle direttive self-executing

Peraltro, a tal ultima norma, a seguito della riforma del titolo V della Costituzione di cui alla Legge Costituzionale 18.10.2011, n. 3, si è aggiunta l’introduzione espressa, di cui all’art. 117, primo comma, Cost., dell’obbligo di rispettare i vincoli posti dall’ordinamento comunitario.

Orbene, deve ritenersi che il sistema risarcitorio delineato dall’art. 139 con il duplice limite dei valori tabellari, da applicarsi in relazione alle diverse ipotesi di lesione dell’integrità psico-fisica, nonché dell’aumento nei limiti del quinto, sia incompatibile con la tutela effettiva delle nuove posizioni giuridiche di diritto comunitario ed,  in particolare, del “Diritto all’integrità della persona”, di cui all’articolo 3 della Carta di Nizza, intesa – come desumibile dal primo comma, secondo cui <<Ogni individuo ha diritto alla propria integrità fisica e psichica>> – nella duplice valenza di salute fisica e psichica, così della “Dignità umana” di cui all’articolo 1, definita, peraltro, quale bene-valore inviolabile.

Ciò tanto più che la stessa Suprema Corte (cfr. sentenza n.12408 del 2011) ne ha, ad altri fini, evidenziato la non equità perché inidonee, diversamente dalle Tabelle milanesi,  a garantire la duplice esigenza di una uniformità pecuniaria di base e di una idonea personalizzazione del danno.

 

 

3.2.   Violazione dell’art. 117, primo comma, della Costituzione, in relazione all’art. 6  T.U.E.,  quale   modificato  dal  Trattato di Lisbona,  nonché in relazione all’art. 2 Cedu. 

 

3.2.1.  Il controverso ruolo nel nostro ordinamento della Cedu. 

 

Controverso è, invece, se a seguito della modifica dell’art. 6 Tue, per effetto del Trattato di Lisbona, le norme Cedu abbiano acquisito diretta rilevanza in ambito comunitario e, per l’effetto, anche nel nostro ordinamento.

Infatti, ai successivi paragrafi 2 e 3, lo stesso art. 6 prevede che <<l’Unione europea aderisce alla Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali>>; e che <<i diritti fondamentali>>, garantiti da detta Convenzione <<e risultanti dalle tradizioni costituzionali comuni agli Stati membri, fanno parte del diritto dell’Unione in quanto principi generali.>>.

Alla luce di tali previsioni, indipendentemente dalla formale adesione alla Cedu da parte dell’Unione europea – non ancora avvenuta, ma comunque preannunciata – i diritti elencati dalla Convenzione sarebbero stati ricondotti all’interno delle fonti dell’Unione sotto un duplice profilo. Da un lato, cioè, in via mediata, tramite la loro elevazione a <<principi generali del diritto dell’Unione>>; dall’altro lato, in via immediata, come conseguenza della <<trattatizzazione>> della Carta di Nizza.

L’art. 52 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea – contenuto nel titolo VII, cui lo stesso art. 6 del Trattato fa espresso rinvio – prevede, infatti, che, ove la Carta <<contenga diritti corrispondenti a quelli garantiti dalla Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, il significato e la portata degli stessi sono uguali a quelli conferiti dalla suddetta Convenzione>>; fermo restando che tale disposizione <<non preclude che il diritto dell’Unione conceda una protezione più estesa.>>.

Di conseguenza, tutti i diritti previsti dalla Cedu che trovino un “corrispondente” all’interno della Carta di Nizza dovrebbero ritenersi <<tutelati (anche) a livello comunitario (rectius, europeo, stante l’abolizione della divisione in “pilastri”), quali diritti sanciti […] dal Trattato dell’Unione.>>.

Coerentemente con tali premesse concettuali, un cospicuo orientamento di pensiero – in ciò avallato dalla giurisprudenza amministrativa (cfr. Consiglio di Stato, sezione IV, 2 marzo 2010, n. 1220 e TAR Lazio, sezione II bis, 18 maggio 2010 n. 11984) – ritiene che le norme Cedu beneficerebbero del medesimo statuto di garanzia delle norme comunitarie. Esse, pertanto, non sarebbero più considerate quali norme internazionali e parametro “interposto” di legittimità costituzionale di norme domestiche ex art. 117 Cost., bensì quali  norme comunitarie (in quanto “comunitarizzate” con il Trattato di Lisbona). Quindi, in virtù della “primautè” del diritto comunitario, sarebbe  doverosa la non applicazione di norme interne con esse contrastanti.

 

Da ciò, la legittimità del ricorso, per l’interprete, non più al solo strumento della rimessione alla Corte Costituzionale, per violazione dell’art. 117 Cost., primo comma, della norma interna che non consenta una tutela (idonea) – e compatibile coi dettami comunitari – di un diritto fondamentale di rilevanza comunitaria, ma al più incisivo meccanismo della disapplicazione, quale mezzo idoneo a consentire un controllo diffuso di compatibilità comunitaria.

Invero, la ricostruzione de qua è stata oggetto di critica da parte di un’autorevole dottrina per cui se è vero che <<il Trattato Unione Europea, per come modificato dal Trattato di Lisbona, consente l’adesione dell’Unione alla Cedu>>, è vero anche che <<non solo tale adesione deve ancora avvenire, secondo le procedure del protocollo n. 8 annesso al Trattato, ma soprattutto non comporterà l’equiparazione della Cedu al diritto comunitario, bensì – semplicemente – una loro utilizzabilità quali principi generali del diritto dell’Unione al pari delle tradizioni costituzionali comuni agli Stati membri.>>.

Quindi, <<il Trattato di Lisbona nulla avrebbe modificato circa la (non) diretta applicabilità nell’ordinamento italiano della Cedu che resta, per l’Italia, solamente un obbligo internazionale, con tutte le conseguenze in termini di interpretazione conforme e di prevalenza mediante questione di legittimità costituzionale, secondo quanto già riconosciuto dalla Corte costituzionale.>>.

Né il suddetto art. 6 potrebbe avere, di per sé, la valenza di un “assenso” dell’Italia (o di un altro stato membro) a quella limitazione di sovranità che, in conformità all’art. 11 Cost., avrebbe consentito (come già verificatosi in occasione dell’adesione dell’Italia al Trattato istitutivo della CE) la diretta operatività della norma internazionale sul piano interno, della regolamentazione dei rapporti giuridici fra i singoli consociati. Infatti, gli stati membri non avrebbero espresso alcuna volontà di autolimitazione e di rinuncia al proprio potere di normazione dei rapporti giuridici creati all’interno di ciascuno di  essi.

Né l’assenso alle limitazioni di sovranità ex art. 11 Cost. sarebbe da considerarsi definitivamente “delegato” al legislatore comunitario per effetto dell’iniziale sottoscrizione del Trattato Istitutivo della CEE, ora Unione Europea.

Dunque, quest’ultima, se può aderire alla Cedu quale soggetto internazionale e, in virtù della personalità giuridica di diritto internazionale che gli viene riconosciuta dall’art. 47, non può, però, “disporre”, quale soggetto internazionale, della sovranità dei rispettivi stati membri.

Accedendo a tale seconda ricostruzione, per effetto dell’art. 6 la sola UE si sarebbe autovincolata ad aderire alla Cedu in rappresentanza di se stessa e quale soggetto internazionale distinto dagli stati membri.

Ne discende che le norme Cedu sarebbero idonee a dare luogo a vincoli internazionali nei confronti della UE, così come degli Stati membri, ma non sarebbero “garantite” dallo statuto tipico del diritto comunitario e, quindi, dal meccanismo della loro diretta applicabilità.

A diverse conclusioni, si sarebbe potuto pervenire, in sede interpretativa, se  fosse stata prevista espressamente, nel Trattato di Lisbona, l’equiparazione del valore giuridico tra le norme comunitarie e quelle della Cedu, così come, appunto, previsto per le disposizioni della Carta di Nizza.

Invero, la Consulta con la sentenza n. 80 del 2011 sembra accedere a tale seconda opzione ricostruttiva dei rapporti fra norme Cedu e ordinamento interno. Infatti, ricostruendo la portata delle sue stesse decisioni, evidenzia <<come, a partire dalle sentenze n. 348 e n. 349 del 2007, la giurisprudenza costituzionale sia costante nel ritenere che le norme della Cedu – nel significato loro attribuito dalla Corte europea dei diritti dell’uomo, specificamente istituita per dare a esse interpretazione e applicazione (art. 32, paragrafo 1, della Convenzione) – integrino, quali «norme interposte», il parametro costituzionale espresso dall’art. 117, primo comma, Cost., nella parte in cui impone la conformazione della legislazione interna ai vincoli derivanti dagli «obblighi internazionali» (sentenze n. 317 e n. 311 del 2009, n. 39 del 2008).>>.

Ne consegue che  <<ove si profili un eventuale contrasto fra una norma interna e una norma della Cedu, il giudice comune deve verificare anzitutto la praticabilità di una interpretazione della prima in senso conforme alla Convenzione, avvalendosi di ogni strumento ermeneutico a sua disposizione; e, ove tale verifica dia esito negativo – non potendo a ciò rimediare tramite la semplice non applicazione della norma interna contrastante – egli deve denunciare la rilevata incompatibilità, proponendo questione di legittimità costituzionale in riferimento all’indicato parametro. A sua volta, la Corte Costituzionale, investita dello scrutinio, pur non potendo sindacare l’interpretazione della Cedu data dalla Corte europea, resta legittimata a verificare se, così interpretata, la norma della Convenzione – la quale si colloca pur sempre a un livello sub-costituzionale – si ponga eventualmente in conflitto con altre norme della Costituzione: <<ipotesi eccezionale nella quale dovrà essere esclusa la idoneità della norma convenzionale a integrare il parametro considerato.>>.

 

Al di là della questione relativa alla rilevanza della Convenzione Europea nell’ordinamento comunitario, e cioè, se la stessa sia “diretta” (perché da considerarsi quale parte integrante dello stesso), o mediata (perché rilevante quale fonte di principi generali, al più alto livello delle fonti -il Trattato sull’Unione Europea-), deve considerarsi consacrato il principio per cui i diritti sanciti dalla C.e.d.u. sono tutelabili, quali principi generali del diritto comunitario, di fronte agli organi comunitari e a quelli degli stati membri.

In tal senso depone l’univoco dato testuale dell’art. 6 che, come già affermato, prevede che <<i diritti fondamentali>>, garantiti dalla Cedu <<e risultanti dalle tradizioni costituzionali comuni agli Stati membri, fanno parte del diritto dell’Unione in quanto principi generali.>>.

E, ovviamente – come precisato dal preambolo della Carta di Nizza – lo sono nei limiti individuati dalla giurisprudenza della Corte di Giustizia e della Corte Europea cui compete il ruolo istituzionale di “delineare” le fattispecie di diritti della persona suscettibili di tutela, nonché di modularne i limiti operativi.

Ciò, in virtù della portata etero-integratrice dei diritti fondamentali – e, in generale, dei Trattati e della normativa comunitaria suscettibile di diretta applicazione – che deve riconoscersi alle pronunce dei suddetti organi giurisdizionali cui è riconosciuto il potere di variamente modulare e graduare gli strumenti di tutela.

 

3.2.2.  Il caso di specie.

 

Non è revocabile in dubbio che il bene dell’integrità psico-fisica, così come la sfera morale dell’individuo, siano tutelati dalla Cedu ed, in particolare, dall’art. 2 Cedu, in materia di “diritto alla vita”, secondo cui (comma 1), <<Il diritto alla vita di ogni persona è protetto dalla legge>>. Norma, dalla portata volutamente generica e ricomprensiva, pertanto, di ogni possibile declinazione del bene-vita, incluse le condizioni materiali e giuridiche perché la stessa possa svolgersi in modo dignitoso, così come gli strumenti processuali per ottenere la riparazione del danno.

D’altronde, le potenzialità applicative della norma de qua sono agevolmente evincibili dall’ampiezza delle decisioni della Corte che, in relazione alla responsabilità dello Stato da emotrasfusioni, richiamando l’art. 2, ha affermato il principio secondo cui quando il pregiudizio alla vita o all’integrità fisica non sia volontario, è sufficiente che il sistema giudiziario offra agli interessati degli strumenti di tutela giurisdizionale, da azionare anche davanti alla giurisdizione civile, per accertare l’eventuale responsabilità dei medici ed ottenere ristoro per i danni subiti.

 

Nel caso di specie, la Corte ha ritenuto che sebbene il sistema giudiziario italiano abbia offerto ai ricorrenti strumenti di tutela giurisdizionale che, sul piano teorico, rispondevano ai requisiti prescritti dall’art. 2, sul piano pratico essi si sono rivelati del tutto inidonei ed inefficaci, in quanto i giudizi volti all’accertamento delle responsabilità non avevano dato esiti tempestivi e soddisfacenti, avendo il processo maturato enormi ritardi tali da superare i termini della ragionevole durata (Sentenza della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo del 1°dicembre 2009 – Ricorso n.43134/95 – G.N. c. Italia).

Orbene, in relazione alla tutela della proprietà privata, da parte della Corte europea deve ritenersi oramai acquisito il principio per cui il risarcimento del danno, in applicazione dell’art. 41 Cedu,  deve essere, se non integrale [2], almeno equo.

Dunque, deve ritenersi che sia coerente con lo spirito della Convenzione europea e, quindi, della stessa Carta di Nizza (che alla prima rinvia, elevandone il contenuto a parte integrante dei principi generali del diritto comunitario) l’affermazione per cui l’equità del risarcimento è indefettibile anche per quanto concerne ogni altro diritto fondamentale.

E tale deve ritenersi il diritto  all’integrità psico-fisica di cui all’art. 2 Cedu.

Giovino, inoltre, le seguenti considerazioni.

Come già evidenziato, nella controversia ********* e ******* contro Italia, la Corte dei diritti dell’uomo, per l’ipotesi di occupazione acquisitiva concretante (come in quella usurpativa) una violazione dei diritti dell’uomo, ha individuato la tutela da concedere, in via principale, nella integrale restitutio in integrum, in quanto misura idonea ad elidere gli effetti della perpetrata violazione del diritto umano di proprietà.

Ciò, salvo la possibilità degli Stati contraenti di scegliere di sostituirla con un risarcimento equivalente al valore attuale del bene trattenuto.

Orbene, se, in materia espropriativa o di occupazione illegittima, laddove esiste un interesse pubblico da soddisfare, come, nell’ipotesi di <<obiettivi legittimi di utilità pubblica, come quelli perseguiti da misure di riforma economica o di giustizia sociale>> sarebbe, comunque, giustificabile un indennizzo inferiore al valore di mercato effettivo (ma, comunque, equo); per contro, in materia di risarcimento del danno da circolazione dei veicoli – ambito nel quale, gli interessi da soddisfare sono di natura privata (quello al contenimento degli esborsi per il danneggiante e quello, di rilevanza costituzionale, del danneggiato alla riparazione della sua sfera giuridica) – il risarcimento dovrebbe essere integrale.

 

Ciò, se si vuole evitare di postulare un’irrazionalità intrinseca del sistema di tutela garantito dalla Cedu, specie se si considera la preminenza valoriale dell’integrità psico-fisica rispetto al mero dominium. 

Per contro, è agevolmente intuibile che la previsione di una soglia invalicabile al risarcimento del danno, per di più, “livellata” verso il basso (ovvero nei limiti di 1/5), unitamente alla previsioni di valori tabellari non “equi”, perché difformi da quelli previsti dalle tabelle Milanesi (assunte dalla stessa giurisprudenza di legittimità a parametro equitativo), si ponga in contrasto con il principio, non solo di integrale ma anche di equa riparazione del danno, quale principio immanente al sistema di tutela così delineato.

Da ciò, a parere del giudice remittente,  la violazione dell’art. 2 Cedu e, dunque, dell’art. 6 TUE e, mediatamente, dell’art. 117, comma 1.

Ciò, tanto più che, come spesso precisato dalla stessa Suprema Corte, il risarcimento del danno costituisce, di per sé, la tutela minima concedibile a fronte della lesione di diritti costituzionalmente garantiti e qualunque restrizione quantitativa o qualitativa (non ragionevole e giustificata dal contemperamento di interessi preminenti) si traduce nella negazione della tutela stessa.

 

 

3.3.  Violazione dell’art. 117, primo comma, della Costituzione, in relazione all’art. 6   Cedu  che  riconosce  il  “Diritto ad un processo equo”.

 

Sotto altro profilo, l’art. 6 Cedu, nel riconoscere il “Diritto ad un processo equo”, specifica che <<1. Ogni persona ha diritto a che la sua causa sia esaminata equamente, pubblicamente ed entro un termine ragionevole da un tribunale indipendente e imparziale, costituito per legge, il quale deciderà sia delle controversie sui suoi diritti e doveri di carattere civile, sia della fondatezza di ogni accusa penale che le venga rivolta.>>.

È ovvio che l’avverbio “equamente”, quale parametro conformativo dell’agire del c.d. “giudice comune”, chiamato a dare applicazione alla convenzione, non allude alla mera indipendenza dell’organo giudiziario, ma, in quanto valore testualmente preso in considerazione dalla stessa norma, e riferito dalla stessa al tribunale davanti al quale sia radicato il giudizio.

Di contro, presupporre questa coincidenza concettuale vorrebbe dire ammettere una superfetazione normativa che è in contrasto con la stessa effettività del diritto sovranazionale.

Ciò premesso, la qualificazione in termini di equità deve essere riferita non soltanto alle regole processuali, ma anche al risultato dell’esito del giudizio e, quindi, alle regole di diritto sostanziale, sottese alla valutazione giudiziale e coincidenti, nel caso di specie, con le regole che presiedono al risarcimento del danno da micropermanenti da circolazione stradale.  

D’altronde, predicare l’equità delle sole regole processuali avrebbe l’effetto di consentire, in astratto, un esito (in termini di tutela accordata), processualmente equo, ma quantitativamente o qualitativamente non equo perché conseguente all’applicazione di regole di diritto sostanziale, non “eque”, come quelle in materia di prescrizione dell’azione, di decadenza o, come nel caso di specie, relative alla concreta commisurazione del danno risarcibile. 

Dunque, è innegabile che un microsistema risarcitorio, qual è quello delineato dall’art. 139 Cod. Ass., nel porre valori risarcitori (quelli relativi al singolo giorno di inabilità temporanea totale o parziale), così come  limiti quantitativi alla personalizzazione non equi (e considerati tali dalla stessa Corte di Cassazione) si pone  in contrasto “mediato” con l’art. 6 Cedu che riconosce il “Diritto ad un processo equo” e “diretto” con l’art. 117 Cost., primo comma.

 

 

3.4.  Violazione dell’art. 117,  primo comma, della Costituzione  in relazione  al principio comunitario dell’effettività della tutela (sub specie di tutela risarcitoria), riconosciuta  a livello nazionale.

 

Sotto altro profilo, e proprio in considerazione della comunitarizzazione dei diritti sanciti dalla Carta di Nizza (e, cioè, “dignità morale” e “integrità  psico-fisica”), deve ritenersi che operino, anche con riguardo alla tutela dei suddetti beni, i principi generali dell’ordinamento comunitario, peraltro, espressamente indicati, nel preambolo della Carta di Nizza, quali criteri di “commisurazione” della tutela comunitaria dei diritti fondamentali, sanciti dalla stessa Carta di Nizza.

In primis, viene in rilievo il principio di “leale cooperazione” solitamente declinato nel senso che gli organi nazionali devono <<facilitare le istituzioni comunitarie nell’assolvimento dei loro compiti>> (ad esempio dando tempestiva e puntuale attuazione alle direttive, così come agevolando l’attività di controllo della Commissione tenendo un comportamento “collaborativo”). 

Più in generale, però, gli Stati membri, nei loro rapporti con la Comunità, devono avere comportamenti atti a garantire l’effettività dell’ordinamento giuridico comunitario, nel quale si iscrivono, appunto, i diritti della Carta di Nizza.

Invero, il principio di effettività può considerarsi l’esito di un graduale percorso interpretativo, non essendo espressamente codificato da alcuna norma del trattato.

Una delle norme che ha funto da fondamento normativo è, però, individuabile nell’art 10 del T.C.E..  Detto articolo, sancisce l’obbligo per gli stati membri di adottare tutti i provvedimenti idonei al fine di rendere effettiva l’applicazione del diritto comunitario, al contempo, dovendosi astenere da condotte che possano esserne di ostacolo. L’art 2 T.U.E., ad esempio, dopo aver elencato gli obiettivi dell’U.E., afferma che la stessa si impegna a raggiungere tali obiettivi nel rispetto del principio di sussidiarietà, vale a dire quel principio secondo cui l’intervento dell’U.E. è subordinato all’impossibilità degli stati membri di intervenire, per mezzo dei loro strumenti nazionali.

Il principio de quo – abitualmente inteso come divieto per gli stati membri di rendere, attraverso le scelte dei propri organi, impossibile o difficoltoso l’esercizio dei  diritti conferiti dall’ordinamento giuridico comunitario (principio di effettività) –, in una necessaria proiezione sotto il profilo del diritto sostanziale, deve considerarsi in grado di imporre il più generale principio dell’integralità del risarcimento della posizione giuridica di rilevanza comunitaria lesa o, comunque, della sua commisurazione secondo criteri equitativi.

 

Orbene, la Cassazione con sentenza n. 12408 del 2011 ha ricordato la duplice valenza dell’equità cui sarebbe consustanziale non solo l’idea di adeguatezza, ma anche quella di proporzione, divenendo in tale seconda accezione, strumento attuativo del precetto di eguaglianza  di cui all’art. 3 Cost..

Infatti, la stessa consentirebbe di trattare i casi dissimili in modo dissimile, ed i casi analoghi in modo analogo, in quanto tutti ricadenti sotto la disciplina della medesima norma o dello stesso principio.

Perciò, se equo, come affermato dalla suddetta pronuncia, è il solo trattamento previsto dalle tabelle Milanesi (perché idonee ad assicurare una misura risarcitoria adeguata rispetto alle esigenze di tutela), il principio di effettività, sub specie di una determinazione equa della misura risarcitoria, risulta violato da tale microsistema normativo (art. 139 Cod. Ass). L’art. 139, infatti, prevede valori tabellari riconosciuti non “equi” dalla stessa giurisprudenza di legittimità che, al contempo, pone alla concreta personalizzazione del danno, un limite che non si concilia con il principio di una modulazione caso per caso della misura risarcitoria.

Per mera completezza espositiva si ritiene di dover fare propri anche i profili di illegittimità evidenziati dal Giudice di pace di Torino, sez. V civile, con l’ordinanza 21.10.2011, perché pienamente condivisi da questo Giudice.

 

 

3.5. Violazione dell’articolo 3, comma 1, della Costituzione sotto il duplice profilo della differenza di trattamento accordato alle micropermanenti a secondo della loro genesi e della diversità di regime fra micropermanti e macropermanenti.

 

L’articolo 139 del Cod.Ass., introducendo un microsistema risarcitorio differenziato rispetto a quello individuato come equo e, quindi, doverosamente applicabile, in relazione non solo a tutte le micropermanenti che rinvengano la propria genesi in un ambito differente dalla circolazione stradale, ma anche alle c.d. macropermanenti,  non è  compatibile con l’art. 3 Cost..

Poiché la salute, così come la dignità morale, sono beni “neutri” dell’individuo che devono essere tutelati, in egual misura, in relazione a tutti gli individui, appare irragionevole che una stessa lesione debba essere risarcita in modo diverso a seconda che, come nel caso de quo, derivi da un sinistro stradale con conseguente applicazione dell’art. 139) o abbia altra genesi.

Parimenti, irragionevole è che la lesione al medesimo bene debba essere risarcita sulla base di  parametri apprezzabilmente diversi, sotto il profilo qualitativo e quantitativo, a secondo che venga in rilievo una lesione permanente inferiore o superiore al 9 per cento.

 

E il vulnus con la norma costituzionale è tanto più evidente ove si consideri che, come ribadito dalla Suprema Corte (con la pronuncia n. 12408 del 2011), le Tabelle milanesi, stante l’attuale quadro interpretativo, costituiscono, per come concepite, l’unico strumento di attuazione del principio equitativo.

Tali non possono considerarsi i valori tabellari attualmente applicabili alle micropermanenti da circolazione stradale.

A tal riguardo, occorre premettere talune considerazioni di carattere concettuale.  

Come noto, l’equità, a sua volta, ha la  funzione di <<regola del caso concreto>>, e di assicurare, mediante la garanzia dell’uniformità pecuniaria di base (conseguente all’applicazione del punto del danno non patrimoniale), la <<parità di trattamento>>.

Come evidenzia la Suprema Corte, <<se in casi uguali>> come le micropermanenti <<non è realizzata la parità di trattamento, neppure può dirsi correttamente attuata l’equità, essendo la disuguaglianza chiaro sintomo della inappropriatezza della regola applicata.>>.

Tale affermazione si coglie in tutta la sua pregnanza nell’ipotesi, qual è quella del danno non patrimoniale, in cui ontologicamente difetti, per la diversità tra l’interesse leso (ad esempio, la salute o l’integrità morale) e lo strumento compensativo (il denaro), la possibilità di una sicura commisurazione della liquidazione al pregiudizio areddituale subito dal danneggiato.

Tuttavia, i diritti lesi (ovvero dignità morale  e integrità psico-fisica) si presentano uguali per tutti, <<sicché solo un’uniformità pecuniaria di base può valere ad assicurare una tendenziale uguaglianza di trattamento, ad un tempo sintomo e garanzia dell’adeguatezza della regola equitativa applicata nel singolo caso, salva la flessibilità imposta dalla considerazione del particulare.>>.

D’altra parte, la regola della parità di trattamento, quale declinazione del principio equitativo, è già stata affermata in numerose occasioni sia dalla Corte Costituzionale che dalla Corte di Cassazione, con riferimento alla liquidazione del danno non patrimoniale di tipo biologico.

In particolare, con la sentenza 14 luglio 1986, n. 184, la Consulta ha chiarito che, nella liquidazione del danno alla salute, il giudice deve combinare due elementi: da un lato una <<uniformità pecuniaria di base>>, la quale assicuri che lo stesso tipo di lesione non sia valutato in maniera del tutto diversa da soggetto a soggetto; dall’altro <<elasticità e flessibilità>>, per adeguare la liquidazione all’effettiva incidenza della menomazione sulle attività della vita quotidiana.

Il criterio della contestuale garanzia dei valori di uniformità e flessibilità del trattamento risarcitorio è stato condiviso dalla Suprema Corte, la quale ha ripetutamente affermato che <<nella liquidazione del danno biologico il giudice del merito deve innanzitutto individuare un 1) parametro uniforme per tutti, e 2) poi adattare quantitativamente o qualitativamente tale parametro alle circostanze del caso concreto.>>.

 

In definitiva, la liquidazione equitativa dei danni alla persona deve evitare due estremi:

– da un lato, che i criteri di liquidazione siano rigidamente fissati in astratto e sia sottratta al giudice qualsiasi seria possibilità di adattare i criteri legali alle circostanze del caso concreto (in questo modo l’ordinamento garantirebbe sì la massima uguaglianza, oltre che la prevedibilità delle decisioni, ma impedirebbe nello stesso tempo un’adeguata personalizzazione del risarcimento);

– dall’altro, che il giudizio di equità sia completamente affidato alla intuizione soggettiva del giudice, al di fuori di qualsiasi criterio generale valido per tutti i danneggiati a parità di lesioni (sarebbe, infatti, bensì teoricamente assicurata un’adeguata personalizzazione del risarcimento, ma verrebbe meno la parità di trattamento e, con essa, la prevedibilità dell’esito del giudizio, costituente uno dei più efficaci disincentivi alle liti giudiziarie).

Quindi, condivisibilmente, la sentenza n. 12408 del 2011 afferma che <<Il conseguimento di una ragionevole equità nella liquidazione del danno deve perciò ubbidire a due principi>> tendenzialmente contrapposti: <<la fissazione di criteri generali e la loro adattabilità al caso concreto.>>.

Dunque, l’equità richiede sistemi di liquidazione che associno all’1) uniformità pecuniaria di base del risarcimento, 2) ampi poteri equitativi del giudice, 3) eventualmente entro limiti minimi e massimi, necessari al fine di adattare la misura del risarcimento alle circostanze del caso concreto.

Le tabelle di Milano consentono, accanto alla liquidazione di una misura risarcitoria equa, un’idonea personalizzazione del danno, laddove il microsistema di cui all’art. 139 conduce all’applicazione di valori risarcitori, di per sé, non equi, nella duplice accezione già illustrata, per di più prevedendo una personalizzazione incongrua perché ammissibile, al più, nei limiti di un quinto.

 

Come evidenziato dal Giudice di Pace di Torino, con l’ordinanza 21.10.2011, <<le differenze (tra valori di cui alle Tabelle di Milano e Tabella delle micropermanenti) in termini monetari risultano notevoli se si pensa che nel primo caso in forza del punto base del decreto ministeriale ad un soggetto di dieci anni che abbia riportato un 1% di invalidità da circolazione, viene corrisposto euro 759,04 (con i valori di cui al D.M. 17/6/2011) mentre allo stesso soggetto che abbia riportato sempre un’invalidità dell’1% cadendo in una buca può venir corrisposto (con le attuali tabelle del Tribunale di Milano) l’importo di euro 1.313,00 e con l’aumentare dell’invalidità le differenze risultano ancora maggiori se si pensa che un 9% in un soggetto di 24 anni con la tabella ministeriale viene risarcito con euro 14.612,28 e con euro 19.160,00 con la tabella di Milano, salvo l’incremento equitativo in relazione alle condizioni soggettive dell’infortunato.>>. Pertanto, <<La differenza di trattamento in presenza di identiche situazioni, che consegue a quanto appena rilevato, risulta allora evidente con conseguente violazione dell’articolo 3 comma 1 della Costituzione.>>.

Invero, non consta che questa differenziazione del trattamento risarcitorio, in materia di circolazione stradale, possa rinvenire la propria ragion di essere nel contemperamento del principio di eguaglianza con altri e prevalenti interessi di rango costituzionale.

Spesso si invoca l’impatto che, a livello macroeconomico, riveste il risarcimento delle micropermanenti da circolazione stradale. Elevatissimi, si evidenzia, sono i costi complessivi sopportati dal sistema assicurativo, anche in conseguenza di atteggiamenti fraudolenti dei danneggiati, volti a mistificare l’origine “casalinga” dei postumi di cui si chiede il risarcimento, così come di prassi giudiziarie “generose”, nella valutazione della ricorrenza di menomazioni permanenti di non lieve entità.

Orbene, se anche si volesse riconoscere la veridicità delle suddette affermazioni, rimarrebbe il ragionevole dubbio – di cui é evidente la valenza ideologica – relativo alla possibilità che un fenomeno di malcostume sociale e culturale possa giustificare scelte legislative, consistenti in compressioni qualitative e quantitative alla tutela risarcitoria di diritti fondamentali dell’individuo,  quali sono la salute, così come la stessa dignità morale della persona.  

Questo Giudice ritiene che, in un sistema ordinamentale, conformato dal principio personalistico, la “ragione assicurativa” non possa considerarsi prevalente rispetto al principio dell’effettiva ed equa riparazione del danno. Ciò, tanto più che a tale scelta, sottesa all’art.139 de quo, osta la necessità di preservare la coerenza del sistema ordinamentale, quale interpretato dalla stessa Suprema Corte, in ciò avallata dal Giudice delle Leggi.

 

Costituisce, infatti, principio immanente e coessenziale al sistema di tutela quello per cui <<il risarcimento del danno non patrimoniale … nel caso di lesione di interessi di rango costituzionale, … costituisce la forma minima di tutela, ed una tutela minima non è assoggettabile a limiti specifici, poiché ciò si risolve in rifiuto di tutela nei casi esclusi.>>.

 

 

3.6.  Violazione dell’articolo 32, 2, 24 della Costituzione sotto il profilo della necessità di assicurare (accanto ad un’uniformità pecuniaria di base) un’adeguata personalizzazione della misura risarcitoria.

 

Si è già detto come costituisca principio consolidato della giurisprudenza della Corte Costituzionale quello per cui,  nella liquidazione del danno non patrimoniale, deve essere assicurata – accanto ad una <<uniformità pecuniaria di base>>, strumentale all’attuazione del principio di eguaglianza – un’adeguata personalizzazione della misura risarcitoria, così da assicurarne la conformità all’effettiva incidenza del pregiudizio sul bene leso.

Dunque, così può stato conformato dal Giudice delle leggi, in tale ambito materiale, il diritto sostanziale del danneggiato e il correlato ius di agire in giudizio di cui all’art. 24 Cost..

Il principio, enucleato espressamente con riguardo al pregiudizio di tipo biologico ex art. 32 Cost., può dirsi valevole – a pena di un’irrazionalità intrinseca al sistema costituzionale di tutela – per ogni diritto costituzionalmente garantito, e, quindi, per quella personalità morale dell’individuo di cui, al di là delle summenzionate norme sovranazionali (art. 1 della Carta di Nizza), è possibile rinvenire un fondamento nella clausola generale dell’art. 2 Cost.. 

Non v’è dubbio che l’art. 139, così come congeniato, prevedendo un contenuto margine di aumento della misura risarcitoria (1/5), non sia idoneo ad assicurare non solo la parità di trattamento di fattispecie di offesa omogenee, ma anche un’adeguata personalizzazione del danno, con conseguente violazione delle disposizioni costituzionali soprammenzionate.

 

 

3.7.  Violazione dell’articolo 76 della Costituzione per la previsione di un limite non previsto dalla legge delega 23/7/2003 n. 229.

 

La l. n. 229/2003 all’art. 4 disponeva testualmente: <<Il Governo è delegato ad adottare, entro un anno dalla data di entrata in vigore della presente legge, uno o più decreti legislativi per il riassetto delle disposizioni vigenti in materia di assicurazioni, ai sensi e secondo i principi e criteri direttivi di cui all’articolo 20 della legge 15/3/1997 n. 59, come sostituito dall’articolo 1 della presente legge, e nel rispetto dei seguenti principi e criteri direttivi: a) adeguamento della normativa alle disposizioni comunitarie e agli accordi internazionali; b) tutela dei consumatori e, in generale, dei contraenti più deboli, sotto il profilo della trasparenza delle condizioni contrattuali, nonché dell’informativa preliminare, contestuale e successiva alla conclusione del contratto, avendo riguardo anche alla correttezza dei messaggi pubblicitari e del processo di liquidazione dei sinistri, compresi gli aspetti strutturali di tale servizio …>>.

Secondo questa disposizione, il legislatore delegato – chiamato, per contro, ad attuare scelte normative, idonee a riequilibrare l’intrinseca disparità di forza contrattuale ed economica fra l’esercente l’attività assicurativa, da un lato, e il cliente, dall’altra –  non poteva porre alcun limite.

Il fine era quello di assicurare una maggiore armonia e coerenza dell’ordinamento italiano con quello comunitario. A quest’ultimo, infatti,  deve riconoscersi il merito di un generale innalzamento del livello di tutela [3], apportato in materia consumieristica, così giustificando l’affermazione per cui il favor per il consumatore (in un sistema ordinamentale integrato dalla disciplina comunitaria e in cui il giudice nazionale è, al contempo, giudice investito di una funzione di garanzia della tenuta complessiva del sistema) deve intendersi, al contempo, ratio ispirativa delle singole norme, così come parametro idoneo a conformarne l’interpretazione.

Orbene, è innegabile che la previsione di valori tabellari apprezzabilmente  inferiori a quelli ritenuti equi dallo stesso giudice di legittimità, depositario della funzione di nomofilachia, così come di un potere-dovere di una contenuta e limitata personalizzazione, sia in contrasto con la ratio ed i principi della legge delega.

Ne consegue non solo l’“esorbitanza” della norma delegata rispetto alla legge delega, ma anche il contrasto con la ratio della stessa.

 

 

4.    Possibilità di un’interpretazione costituzionalmente conforme almeno per quanto concerne la liquidazione del danno non patrimoniale di tipo morale:  le possibili letture alternative dell’art. 139 Codice delle Assicurazioni.

 

4.1. La tesi dell’inapplicabilità dell’aumento del quinto di cui all’art. 139 al   danno morale e, quindi, dell’irrisarcibilità dello stesso in caso di   micropermanenti da circolazione dei veicoli.

 

Il contrasto con la normativa comunitaria e sovranazionale, nonchè coi suddetti parametri costituzionali, è evidente ove si acceda alla tesi secondo cui  il danno non patrimoniale, sub specie del pregiudizio morale, in tale specifica sede materiale (ovvero quella delle micropermanenti da circolazione dei veicoli) non sarebbe risarcibile.

Infatti, profittando di una non corretta interpretazione della pronuncia delle Sezioni Unite dell’11.11.2008 – intesa come “abolitiva” del danno non patrimoniale di tipo morale – si è affermato che il legislatore speciale, con una scelta tranchant, e per ragioni di contenimento degli oneri risarcitori, gravanti sulle compagnie assicurative, avrebbe deciso di escludere qualunque rilievo risarcitorio alla sofferenza morale.

Secondo questa tesi ricostruttiva, il previsto aumento nei limiti del quinto di quanto liquidato a titolo di danno biologico assolverebbe alla più limitata funzione di assicurare una – seppur marginale – personalizzazione dello stesso pregiudizio all’integrità psico-fisica e quindi del solo danno (non patrimoniale di tipo) biologico nell’accezione lata accolta dallo stesso Cod. Ass., come ricomprensivo sia del pregiudizio all’integrità psico-fisica, sia dell’impossibilità di svolgere attività realizzatrici della persona. 

Dunque, nel caso di specie, all’attrice non dovrebbe essere liquidato alcunché a titolo di danno morale.

Orbene, deve ritenersi in contrasto coi richiamati parametri costituzionali l’esclusione ope  legis di una voce risarcitoria (il danno non patrimoniale di tipo morale) che, peraltro, in relazione alla singola vicenda di tutela, può anche assurgere ad una componente essenziale e prevalente del complessivo pregiudizio areddituale.

 

Si pensi ad una limitazione fisica contenuta percentualmente (es. parziale perdita della funzionalità di una delle dita della mano) che sia idonea a frustrare le aspirazioni di un laureando in medicina che voglia dedicarsi alla chirurgia, oppure al pregiudizio morale inferto dalla stessa menomazione a chi abbia conseguito nel medesimo campo un elevato grado di affermazione professionale e non possa più svolgere la propria attività professionale con la stessa abilità manuale.

Nella comparazione complessiva delle componenti del danno, la sofferenza morale può, cioè, in particolari circostanze, acquistare un peso decisivo.

Peraltro, anche il verosimile supporto ideologico di tale approccio interpretativo – e, quindi, l’espunzione dall’ordinamento della figura della voce del danno morale, ad opera delle Sezioni Unite dell’11.11. 2008 – è del tutto destituito di fondamento.

Infatti, le Sezioni Unite non solo non hanno escluso la risarcibilità di tale voce di danno, ma lo descrivono specificatamente, sancendone le condizioni di risarcibilità. 

Volendo ricostruire esattamente il pensiero della suddetta pronuncia, in primis, essa ha cura di disancorare tale figura di danno dal dato temporale, ovvero dall’entità del suo protrarsi nel tempo, con conseguente abbandono dello schematismo concettuale per cui il danno morale deve necessariamente essere transeunte.

D’altronde, si evidenzia come la suddetta ricostruzione non solo non trovi un fondamento normativo nell’art. 2059 né nell’art. 186 del codice di procedura penale, che si esprime in termini di danno non patrimoniale conseguente a reato, ma non risponde neanche ad esigenze obiettive di tutela. Infatti, il pregiudizio – che, non limitato ad un ristretto lasso temporale, si protragga nel tempo – continua ad essere tale, conservando la sua natura e genesi.

Se, da un lato, dunque, viene allargata la categoria del danno morale, dall’altro, invece, questa categoria viene ristretta.

 

Infatti, le Sezioni Unite arrivano ad affermare che quando il disagio morale, cioè quando il pati non si limiti ad una sofferenza temporanea, ma si traduca in una degenerazione patologica, assumendo la valenza di una patologia medica, allora, in quel caso, sarebbe risarcibile soltanto il danno biologico.

Condivisibilmente, la giurisprudenza della Cassazione, successivamente alle Sezioni Unite del 2008, ha avuto modo di pronunciarsi, unitamente alla Giurisprudenza di merito, sottolineando come, in effetti, non si possa negare che il danno morale debba essere risarcito anche quando ci siano delle conseguenze patologiche per il soggetto

Infatti, danno morale e danno biologico tutelano beni giuridici autonomi  e conservano tale autonomia anche quando all’evento traumatico – e, di per sé fonte di sofferenza morale – consegua, per il danneggiato, una patologia invalidante (cfr, Cassazione civile, sez. III, 12 dicembre 2008, n. 29191 secondo cui il danno morale è dotato di propria autonomia rispetto alla lesione del diritto alla salute; Cassazione civile, sez. III, 13 gennaio 2009, n. 479 per cui “merita accoglimento il motivo di ricorso, in cui si deduce la violazione di legge (art. 2059) per la mancata liquidazione del danno morale contestuale alle lesioni gravi”, ancora Cass. civ., sez. III, sentenza 20 maggio 2009 n. 11701).

Anche sotto il profilo empirico è di agevole intuizione che  una cosa è la sofferenza morale, altra è la patologia medica cui dia luogo la medesima sofferenza. Né il degenerare, dopo un certo lasso di tempo, della prima nella seconda, è idonea a far venire meno, anche sotto il profilo storico-fattuale, l’autonoma esistenza della seconda.

E l’autonomia delle due categorie si deduce non soltanto dal nostro sistema di diritto positivo, ovvero dall’ordinamento interno, in particolare dagli artt. 138 e 139 del Codice delle Assicurazioni (che riconoscono autonoma dignità concettuale alla categoria del danno morale), ma anche dalla summenzionata Carta di Nizza, incorporata nel trattato di Lisbona, quindi, da parte, di norme, come già detto, sovraordinate rispetto alla normativa interna. 

D’altra parte, a livello di diritto positivo, anche la legislazione più recente, quella in materia di tutela delle vittime del terrorismo e delle stragi terroristiche, così come anche la disciplina volta a assicurare l’indennità ai militari che abbiano riportato patologie mediche, perché in servizio in territori esteri, quindi impegnati in conflitti militari, dimostra come il danno morale, per il legislatore, abbia un’autonoma valenza concettuale.

 

Infatti, questa categoria di danno non soltanto è descritta dalla legislazione speciale, ma, ai fini dell’applicazione di quest’ultima, ne sono disciplinati i criteri di liquidazione (cfr. d.P.R. 3 marzo 2009, n. 37 recante il regolamento per la disciplina dei termini e delle modalità di riconoscimento di particolari infermità da cause di servizio per il personale impiegato nelle missioni militari all’estero, nei conflitti e nelle basi militari nazionali, a norma dell’articolo 2, commi 78 e 79, della legge 24 dicembre 2007, n. 244”, il cui art. 5, introduce criteri legali per la determinazione dell’invalidità permanente, prevedendo, espressamente, che debbano essere risarciti, in via cumulativa danno biologico e danno morale).

 

 

4.2.  La tesi per cui l’aumento del quinto di cui all’art. 139  ricomprenderebbe  qualunque pregiudizio areddituale, anche se morale.

 

Afferma espressamente la Corte, nella summenzionata sentenza n. 12408 del 2011, che <<quante volte, … la lesione derivi dalla circolazione di veicoli a motore e di natanti, il danno non patrimoniale da micro permanente non potrà che essere liquidato, per tutti i pregiudizi areddittuali che derivino dalla lesione del diritto alla salute entro i limiti stabiliti dalla legge mediante il rinvio al decreto annualmente emanato dal Ministro delle Attività Produttive (ex art. 139, comma 5), salvo l’aumento da parte del giudice, «in misura non superiore ad un quinto con equo e motivato apprezzamento delle condizioni soggettive del danneggiato» (art. 139, comma 3).>>.

In primis, la stessa previsione di un incremento percentualistico è in contrasto con l’autonomia concettuale che – alla luce del quadro interpretativo delineatosi successivamente alla sentenza “manifesto” dell’11.11.2008 – deve riconoscersi al danno morale (cfr. Cassazione civile  sez. III, 01 giugno 2010, n. 13431 che esclude che “il turbamento dell’animo o dolore intimo sofferti senza lamentare degenerazioni patologiche (tradizionalmente identificato come danno morale soggettivo) possa essere liquidato in una percentuale del danno biologico”).

Con la sentenza a Sezioni Unite (n. 26972/2008), la Suprema Corte ha avuto modo di chiarire che, nell’ambito del danno non patrimoniale, il riferimento a determinati tipi di pregiudizi, in vario modo denominati (danno morale, danno biologico, danno da perdita del rapporto parentale), risponde ad esigenze descrittive, ma non implica il riconoscimento di distinte categorie di danno.

Secondo il Supremo Consesso, è, dunque, compito del giudice accertare l’effettiva consistenza del pregiudizio allegato, a prescindere dal nome attribuitogli, e provvedere alla riparazione integrale di tutte le ripercussioni negative subite dalla persona complessivamente identificata.

 

Per questo, il giudice, anziché procedere alla separata liquidazione del danno morale in termini di una percentuale del danno biologico (procedimento che determina una duplicazione delle voci di danno da risarcire in favore della vittima), dovrebbe provvedere ad un’adeguata personalizzazione della liquidazione del danno non patrimoniale, valutando nella loro effettiva consistenza le sofferenze fisiche e psichiche patite dal soggetto leso, così da pervenire al ristoro del danno nella sua interezza.

Per contro, un meccanismo, come quello di specie, che preveda la liquidazione del danno morale su basi percentualistiche presuppone concettualmente che lo stesso debba considerarsi un quid minus rispetto al danno non patrimoniale di tipo biologico, meritevole, pertanto, della liquidazione di un’entità economica, necessariamente inferiore rispetto a quella riconosciuta a fronte del pregiudizio non patrimoniale di tipo biologico.

In secondo luogo, il previsto incremento percentualistico del 20% – da applicarsi, secondo tale opzione esegetica, a tutte le voci areddituali – appare inidoneo a consentire idonea copertura risarcitoria ai molteplici profili in cui si può articolare il pregiudizio non patrimoniale, con chiaro vulnus delle disposizioni summenzionate ed, in particolare, del principio comunitario di effettività della tutela, nonché dello stesso art. 1 della Carta di Nizza posto a presidio della “Dignità umana” che viene definita quale bene-valore inviolabile e alla quale è riconducibile l’”integrità morale” di ciascun individuo.

Peraltro, si rende opportuno ricordare come le stesse Sezioni Unite di *********** abbiano precisato che una delle ipotesi in cui il danno non patrimoniale è considerato risarcibile, al di là della lesione di un diritto costituzionalmente garantito, e, quindi, con maggiore latitudine operativa, è proprio quella del danno morale da reato.

 

Nella suddetta fattispecie – assimilabile a quella giuslavoristica di cui all’art. 2087 c.c. – non sono risarcibili solamente le lesioni di diritti costituzionalmente garantiti che trovino nel fatto di reato la loro causa, ma tutte le lesioni di diritti della persona anche non presidiati costituzionalmente.

La tutela risarcitoria è, cioè, riconosciuta a qualunque pregiudizio areddituale che sia conseguenza della lesione di un interesse giuridicamente protetto, desunto dall’ordinamento positivo. Ciò, secondo lo schema di tutela che è a fondamento del danno ingiusto di cui all’art. 2043 c.c..

Con particolare riguardo all’impossibilità di svolgere una o più attività realizzatrici delle persona in conseguenza delle lesioni riportate per effetto del reato, le Sezioni Unite hanno affermato testualmente che, <<In presenza di reato>>, qual è senza dubbio  quello di lesioni colpose ex art. 590 c.p.p., <<superato il tradizionale orientamento che limitava il risarcimento al solo danno morale soggettivo, identificato con il patema d’animo transeunte, ed affermata la  risarcibilità del danno non patrimoniale nella sua più ampia accezione, anche il pregiudizio non patrimoniale consistente nel non poter fare (ma sarebbe meglio dire: nella sofferenza morale determinata dal non poter fare) è risarcibile.>>.

Ovviamente, sia la tesi sub 4.1) sia quella sub 4.2) ineriscono al solo danno non patrimoniale di tipo morale, per cui rimarrebbero irrisolti gli evidenziati profili di compatibilità costituzionale con riguardo alla risarcibilità del pregiudizio di tipo biologico.

 

4.3.  La tesi, c.d. costituzionalmente orientata, dell’autonoma risarcibilità del danno non patrimoniale di tipo morale.

 

Il contrasto con le disposizioni summenzionate ed, in particolare, con il principio dell’effettività della tutela risarcitoria del danno (inteso come tutela se non integrale, comunque, equa), conseguente ad una violazione di una posizione giuridica soggettiva di rilievo anche sovranazionale (come l’integrità psico-fisica  o la dignità morale), permane anche quando  si aderisca alla tesi, c.d. costituzionalmente orientata, secondo cui tale microsistema normativo non sarebbe applicabile al danno non patrimoniale di tipo morale.

Condivisibilmente, si evidenzia come il secondo comma dell’art. 139 del Codice delle Assicurazioni descrive e menziona la sola categoria descrittiva del “danno biologico” da intendersi come <<la lesione temporanea o permanente all’integrità psico-fisica della persona suscettibile di accertamento medico-legale che esplica un’incidenza negativa sulle attività quotidiane e sugli aspetti dinamico-relazionali della vita del danneggiato, indipendentemente da eventuali ripercussioni sulla sua capacità di produrre reddito.>>.

 

Precisa, poi, il successivo terzo comma che <<l’ammontare del danno biologico liquidato […] può essere aumentato dal giudice in misura non superiore ad un quinto, con equo e motivato apprezzamento delle condizioni soggettive del danneggiato.>>.

Per contro, nessun riferimento è compiuto dal combinato disposto delle suddette norme al danno morale quale sofferenza morale non necessariamente transeunte, al turbamento dello stato d’animo del danneggiato che pure deve presumersi, secondo l’id quid plerunque accidit,  in relazione ad un evento “traumatico” che abbia compromesso l’integrità fisica, seppur con varie graduazioni a secondo dell’intensità di quest’ultimo.

Il legislatore speciale si sarebbe limitato a valutare i soli aspetti relazionali e anatomo-funzionali della lesione sofferta, omettendo ogni stima in relazione ai residui profili riconosciuti giurisprudenzialmente quali componenti dell’omnicomprensivo danno non patrimoniale.

a tale limite strutturale della norma potrebbe ovviarsi ricorrendo alla limitata personalizzazione prevista dal terzo comma dell’art. 139 del Codice delle Assicurazioni. L’aumento (massimo) del quinto, infatti,  sarebbe inidoneo a consentire un’adeguata monetizzazione non solo delle componenti specifiche (relazionali e d estetiche) del danno biologico, in relazione al caso concreto, ma anche di eventuali pregiudizi apatrimoniali diversi e ulteriori dalla voce, pur latamente, intesa del danno biologico.

Poiché, però, il danno non patrimoniale di tipo morale identifica una componente indefettibile del procedimento risarcitorio indicato dalle Sezioni Unite, il Giudice cui compete di interpretare la norma di legge in conformità ai principi espressi dalle Sezioni Unite, dovrebbe procedere ad una un’adeguata personalizzazione del danno non patrimoniale; personalizzazione diversa e ulteriore rispetto a quella prevista dalla disciplina speciale e consistente nel riconoscimento di una misura risarcitoria, idonea ad incrementare l’importo complessivamente liquidato, a titolo di danno non patrimoniale.

 

Anche a propendere per tal ultima tesi, sottraendo il pregiudizio morale alla “mannaia” dell’art. 139 permane l’incostituzionalità della norma – sotto i plurimi profili evidenziati  – perché inidonea ad assicurare un adeguato ristoro del danno non patrimoniale di tipo biologico.

Infatti, se è vero che, in virtù della ricostruzione unitaria del danno non patrimoniale, operata dalle Sezioni Unite del 2008, la voce del danno biologico deve considerarsi comprensiva anche del pregiudizio estetico [4], così come dei profili relazionali, integranti il c.d. danno alla vita di relazione [5], ne discende che – proprio in virtù dell’interpretazione costituzionalmente orientata dell’art. 2058 c.c., nonché del quadro interpretativo delineato dalle Sezioni Unite del 2008 – lo strumento del contenuto aumento percentuale dovrebbe ovviare alla risarcibilità di tali e molteplici profili di danno biologico così da risultare ex se insufficiente a consentire la liquidazione di un’effettiva ed equa misura risarcitoria.

Non solo, ma i valori tabellati, per il danno biologico permanente, così come per l’inabilità temporanea totale, appaiono inidonei ad assicurare, anche con riguardo, al caso di specie, la garanzia del suddetto principio di effettività inteso come liquidazione sufficientemente congrua e, quindi, equa quale sarebbe quella assicurata dall’applicazione delle Tabelle di Milano.

A tale ordine di considerazioni si potrebbe obiettare che rientra nella discrezionalità legislativa la fissazione di limiti risarcitori, anche mediante la predeterminazione dell’incremento percentuale massimo accordabile.

Orbene, la Corte costituzionale ha già avuto l’occasione di precisare che l’individuazione legislativa di un limite alla responsabilità, non basta ad integrare l’illegittimità costituzionale della norma, sebbene importi una deroga al principio del risarcimento integrale del danno (cfr. sentenza, Corte costituzionale n. 132, 1985, in materia di responsabilità da trasporto aereo).

Si renderebbe, per contro, necessario verificare se la limitazione de qua sia controbilanciata nel sistema di tutela dalla previsione di meccanismi idonei a compensare, nella logica di un astratta comparazione dei valori in gioco, la riduzione del quantum risarcibile.

Nel caso di specie, deve ritenersi che non ricorrano i suddetti “meccanismi di compensazione”, quale, ad esempio, l’opzione per una configurazione in termini oggettivi dell’obbligo indennitario delle compagnie assicurative, con conseguente esonero del danneggiato dalla prova della violazione di una regola di condotta specifica (cfr. ordinanza di rimessione a codesta Corte del giudice di Pace di Torino dell’ottobre 2011) .

 

Ciò premesso, è fuor di dubbio che tale limitazione deve essere, comunque, vagliata alla stregua, non solo delle norme costituzionali, ma anche dei parametri comunitari che impongono l’effettività della tutela come diritto ad una tutela sia sostanziale che processuale che porti ad un risultato equo per il soggetto danneggiato.

Per quanto la disapplicazione della norma de qua, per la sua anticomunitarietà, sia sempre possibile, si ritiene che questo Giudice non possa esimersi, comunque, dal sollevare la questione di costituzionalità nei termini su espressi.

Infatti, se la disapplicazione consente un controllo diffuso, idoneo a soddisfare l’aspettativa di tutela del singolo danneggiato, è pur vero che solo un’eventuale pronuncia d’incostituzionalità di codesta Corte sarebbe idonea ad espungere, in via definitiva, la norma de qua dall’ordinamento con conseguente ripristino della legalità costituzionale e comunitaria.

 

Tanto precisato la questione di legittimità costituzionale come sopra enunciata appare a questo Giudice seria e non manifestamente infondata e rilevante nel processo de quo

 

                                                    P.Q.M.


Il Tribunale di Brindisi, sezione distaccata di Ostuni, in persona del giudice *******************,

visti gli artt. 134 Cost. e 23 l. 11.3.53 n. 87;

ritenuta non manifestamente infondata e rilevante, per la decisione del presente giudizio, la questione di legittimità costituzionale dell’art. 139, comma 1, 3, 6 per violazione degli artt. 2, 3, 24, 32, 76, 117  della Costituzione nei termini e per le ragioni di cui in motivazione;

dispone la sospensione del procedimento in corso;

ordina la notificazione della presente ordinanza ai procuratori delle parti e al Presidente del Consiglio dei Ministri e la comunicazione della stessa ai Presidenti della Camera dei Deputati e del Senato;

ordina la trasmissione dell’ordinanza alla Corte Costituzionale insieme con gli atti del giudizio e con la prova delle notificazioni e delle comunicazioni prescritte.

                                                                                                                    

                                                                                         IL GIUDICE  UNICO

                                                                                         (*******************)   

 

                                                                                                                                               

 


[1] Infatti, si è affermato che <<Il riconoscimento dei diritti fondamentali sanciti dalla Cedu come principi interni al diritto dell’Unione ha immediate conseguenze di assoluto rilievo, in quanto le norme della Convenzione divengono immediatamente operanti negli ordinamenti nazionali degli Stati membri dell’Unione, e quindi nel nostro ordinamento nazionale, in forza del diritto comunitario, e quindi in Italia ai sensi dell’art. 11 della Costituzione, venendo in tal modo in rilevo l’ampia e decennale evoluzione giurisprudenziale che ha, infine, portato all’obbligo, per il giudice nazionale, di interpretare le norme nazionali in conformità al diritto comunitario, ovvero di procedere in via immediata e diretta alla loro disapplicazione in favore del diritto comunitario, previa eventuale pronuncia del giudice comunitario ma senza dover transitare per il filtro dell’accertamento della loro incostituzionalità sul piano interno.>>.

 

[2] Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, Strasburgo, n. 24638/94, 11 dicembre  2003, caso  ********* e ******* c. Italia, in materia di articolo 41 Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo (equa soddisfazione), e di articolo 1 del Protocollo n°1, sul diritto di proprietà, in ipotesi di  accessione invertita = espropriazione indiretta). Si afferma il principio che: <<Stante la mancata restituzione dell’area acquisita illegalmente e proprio a motivo dell’illiceità dell’acquisizione,  l’indennizzo a carico dello Stato italiano deve necessariamente riflettere il valore pieno ed  integrale del bene.>>.

[3] Cfr. Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea (in G.U. 23.1.2008, n. 223), articolo 38, secondo cui: <<Nella politica dell’Unione è garantito un elevato livello di protezione dei consumatori.>>.

[4] Afferma testualmente la Suprema Corte che si avrebbe duplicazione nel caso in cui <<il pregiudizio consistente nella alterazione fisica di tipo estetico fosse liquidato separatamente e non come “voce” del danno biologico, che il cd. danno estetico pacificamente incorpora.>>.

[5] <<Possono costituire solo “voci” del danno biologico nel suo aspetto dinamico, nel quale, per consolidata opinione, è ormai assorbito il cd. danno alla vita di relazione,  gli stessi pregiudizi di tipo esistenziale concernenti aspetti relazionali della vita, conseguenti a lesioni dell’integrità psicofisica, sicché darebbe luogo a duplicazione la loro distinta riparazione.>>. 

Redazione