Corte di Cassazione Penale sez. VI 30/12/2008 n. 48379; Pres. De Roberto G.

Redazione 30/12/08
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RITENUTO IN FATTO

1. **** ricorre per Cassazione contro la decisione sopra indicata, confermativa della sentenza con cui il Tribunale di Montepulciano lo condannò, con i doppi benefici di legge, alla pena di sei mesi di reclusione per il delitto di cui all’art. 328 c.p., comma 1, per avere, tra il (omissis), in qualità di medico chirurgo in servizio di seconda reperibilità presso il Presidio ospedaliere di (omissis), indebitamente rifiutato un atto del suo ufficio che, per ragioni di sanità, doveva essere compiuto senza ritardo; segnatamente, per essersi rifiutato, in tre distinti e successivi momenti, di sottoporre a nuova visita la paziente F.N., il cui quadro clinico si era rapidamente evoluto peggiorando al punto d’imporre un intervento chirurgico, che veniva eseguito da altri sanitari di reperibilità, essendosi il B. rifiutato di recarsi in ospedale.

2. Questi i fatti ricostruiti dai giudici di merito.

Il (omissis) la signora F. era stata trasferita dal locale Pronto Soccorso, dove aveva fatto ingresso per problemi pressori e per un’occlusione intestinale al reparto medicina, ove era stata visitata in tarda serata dal medico chirurgo di prima reperibilità, ******, il quale, sulla base dei risultati radiografici e in presenza di fuoriuscita di vomito fecaloide dal sondino naso-gastrico, aveva disposto che fosse chiamato il chirurgo di seconda reperibilità, il dr. B.A..

Questi, giunto in reparto verso le ore 23, dopo avere visitato la paziente ed esaminato la cartella clinica, dispose procedersi a terapia di mantenimento con applicazione di un sondino che favorisse la risoluzione spontanea del blocco intestinale. La paziente fu trasferita al reparto chirurgia per una successiva valutazione da effettuarsi l’indomani. Il dr B. lasciò, quindi, l’ospedale.

Successivamente il dr D., costatata l’involuzione del quadro clinico della paziente, telefonò al dr B., esponendogli la situazione intervenuta e richiedendo una nuova visita, ma il B. non aderì alla richiesta.

Verso le ore 24, dal D. fu contattato, affinchè esprimesse un parere sulla paziente, il dirigente medico anestesista A. S., il quale, costatata la serietà del quadro clinico, decise, unitamente al collega D., di telefonare nuovamente al B., richiedendogli di intervenire quanto meno per valutare la situazione valutata di emergenza. Anche in questo caso, il B. si rifiutò sia d’intervenire chirurgicamente in nottata sia di sottoporre a nuova visita la paziente, rimandando ogni valutazione al giorno successivo.

Contattato direttamente da V.G., figlio della F. e vice direttore dell’ospedale, intervenne in reparto il primario chirurgo dr Bo., che sottopose la paziente ad intervento chirurgico con esito tecnico positivo.

Dopo qualche giorno, la signora ******ì.

3. Il ricorso del B. s’incentra su tre motivi d’impugnazione.

Con il primo articolato motivo si deduce nullità dell’ordinanza istruttoria emessa dal tribunale di Montepulciano in data 14.11.05 di revoca delle prove tecniche di parte, già ammesse in sede di richieste istruttorie ex art. 495 c.p.p., per omessa motivazione ex art. 125 c.p.p., con conseguente violazione di norme processuali stabilite a pena di nullità, ex art. 606 c.p.p., comma 1, lett. c);

la violazione dell’art. 495 c.p.p., comma 2, per mancata assunzione di prova decisiva ex art. 606 c.p.p., comma 1, lett. d), consistente in una consulenza tecnica medico-legale e chirurgica di cui la parte ha fatto richiesta, inizialmente accolta in primo grado in sede di richieste istruttorie, poi revocata dallo stesso giudice e quindi reiterata nei motivi di appello avverso la sentenza di primo grado;

l’omessa e comunque manifestamente illogica e contraddittoria motivazione in ordine all’ininfluenza della prova tecnica di cui è stata chiesta la riammissione (art. 606 c.p.p., comma 1, lett. c).

Con il secondo motivo, il ricorrente si duole dell’erronea applicazione della legge penale ex art. 328 c.p. e di altre norme giuridiche di cui si deve tenere conto nell’applicazione della legge penale per insussistenza dei requisiti (oggettivo e soggettivo) della fattispecie penale contestata per mancanza dell’urgenza dell’atto dovuto, dell’indebitezza della condotta dell’imputato e della corretta individuazione dell’atto dovuto stesso (art. 606 c.p.p., comma 1, lett. b), nonchè della motivazione omessa, contraddittoria e manifestamente illogica per travisamento delle prove acquisite nell’istruttoria dibattimentale di primo grado (art. 606 c.p.p., comma 1, lett. e).

Con il terzo motivo, infine, si deduce violazione di norme processuali stabilite a pena di nullità ex art. 606 c.p.p., comma 1, lett. e) e dell’art. 125 c.p.p., ed omessa motivazione sui motivi di appello e manifesta illogicità della stessa.

CONSIDERATO IN DIRITTO

4. Il ricorso va rigettato per infondatezza.

4.1 Cominciando l’esame dal secondo e terzo motivo, il Collegio rileva che i giudici di merito hanno ritenuto provato, con motivazione giuridicamente corretta ed indenne da vizi logici, che il B. oppose un indebito e reiterato rifiuto a recarsi nuovamente in ospedale per sottoporre a nuova visita la paziente, nonostante la reiterata richiesta di del chirurgo di prima reperibilità e dell’anestesista rianimatore, ossia di due tecnici qualificati, che lo sollecitavano in tal senso, rendendolo edotto del progressivo aggravamento delle condizioni della malata rispetto a quelle da lui constatate alle ore 23, all’atto della prima visita.

In tale condotta i giudici di merito hanno esattamente individuato la sussistenza di tutti gli elementi costitutivi del delitto di cui all’art. 328 c.p., replicando a tutte le doglianze sollevate con l’atto d’appello.

Il B. era il chirurgo anziano, di c.d. "seconda reperibilità", la cui presenza e valutazione, per disposizioni interne dell’ospedale, erano necessarie – a richiesta del dr D., chirurgo "di prima reperibilità" – per decidere sull’eventuale sottoposizione della paziente ad intervento chirurgico.

L’istituto della reperibilità o di "pronta disponibilità" costituisce una modalità organizzativa dei servizi apprestati dalle aziende sanitarie ed è disciplinato dal D.P.R. 25 giugno 1983, n. 348, art. 25, recante trattamento del personale delle unità sanitarie locali (G.U. 20 luglio 1983, n. 197), successivamente sempre richiamato o ripreso dai contratti collettivi nazionali dell’area della dirigenza medico-veterinaria del servizio sanitario nazionale (v. in particolare artt. 19 e 20 C.C.N.L. 5.12.1996, art. 16, comma 6, C.C.N.L. 1998-2001 e interpretazione autentica dell’art. 16 C.C.N.L. 8.6.2000 concordata il 7.5.2003). Tale servizio "è caratterizzato dall’immediata reperibilità del dipendente e dall’obligo per lo stesso di raggiungere il presidio nel più breve tempo possibile dalla chiamata".

Non assume, dunque, rilievo la circostanza che il B. avesse già visitato la signora F. alle ore 23 e, in tale occasione, escluso l’intervento chirurgico immediato. Le reiterate chiamate telefoniche, effettuate nel corso della notte, da parte del chirurgo dr D., seguite dalla sollecitazione da parte del medico rianimatore-anestesista dr A., le quali attestavano un quadro di progressiva ingravescenza della donna malata che, a loro parere, necessitava di un’immediata operazione chirurgica per risolvere il blocco intestinale, obbligavano il B. a ritornare in ospedale ed a visitare nuovamente la F., rimanendo ovviamente nella sua discrezionalità tecnica la decisione di sottoporre o meno la paziente ad intervento chirurgico.

Ciò che è stato correttamente ascritto e addebitato al B. non è l’omesso intervento chirurgico, bensì il rifiuto indebito dell’atto dovuto, richiestogli reiteratamente dai medici suoi colleghi in adempimento delle disposizioni organizzatorie dell’ospedale, adottate in piena conformità al cit. D.P.R., art. 25, ed ai successivi CCNL dell’area della dirigenza medico-veterinaria.

Tale atto era costituito dal pronto ritorno in ospedale e dalla nuova valutazione, previa visita medica, sulla necessità di operazione chirurgica.

L’urgenza dell’atto derivava direttamente dalla dettagliata e allarmata valutazione resa dai medici che avevano proceduto a visita della paziente, successivamente a quella effettuata dal B.. Questi non era certo obbligato a condividere la valutazione dei suoi colleghi, ma ciò non poteva fare senza procedere a nuova diretta visita, essendogli anche stata rappresentata una situazione di progressivo aggravamento delle condizioni fisiche della donna ricoverata.

Come questa Corte ha già avuto modo di precisare, il chirurgo in servizio di reperibilità, chiamato dal collega già presente in ospedale che ne sollecita la presenza in relazione ad una ravvisata urgenza di intervento chirurgico, deve recarsi subito in reparto e visitare il malato. L’urgenza ed il relativo obbligo di recarsi subito in ospedale per sottoporre a visita il soggetto infermo vengono a configurarsi in termini formali, senza possibilità di sindacato a distanza da parte del chiamato. Ne consegue che il rifiuto penalmente rilevante ai sensi dell’art. 328 c.p., comma 1, si consuma con la violazione del suddetto obbligo e la responsabilità non è tecnicamente connessa all’effettiva ricorrenza della prospettata necessità ed urgenza dell’intervento chirurgico (Cass. sez. 6, n. 6328/1996, ced 205089).

Correttamente, pertanto, il Tribunale ritenne superflua ed irrilevante l’audizione dei consulenti tecnici e, successivamente, la Corte d’appello rigettò la richiesta di rinnovazione dibattimentale volta ad escuterli. Del tutto inconferente, infatti, si palesava la prova tecnica che, secondo il ricorrente, era "volta a provare che l’intervento chirurgico non doveva essere eseguito in quelle particolari condizioni generali dello stato di salute della paziente, che la valutazione dell’imputato in tale senso si presentava dunque corretta …".

L’art. 328 c.p., delinea una fattispecie penale volta ad assicurare il regolare funzionamento della pubblica amministrazione, imponendo ai pubblici funzionari di assolvere, con scrupolo e tempestività, ai doveri inerenti alla loro attività funzionale al fine di prevenire situazioni di pericolo in materia di giustizia o sicurezza pubblica, o di ordine pubblico o di igiene e sanità.

E’ del tutto irrilevante che dall’indebita condotta di rifiuto derivi un effettivo pregiudizio per i beni finali presi in considerazione dalla norma, per cui – non assumendo alcun rilievo che l’opinione del B., sulla necessità dell’immediato intervento, fosse diversa sia da quella espressa dal suo collega D. sia da quella del primario di chirurgia dr Bo., che, sostituendosi al B., sottopose la F. all’operazione chirurgica – assolutamente inutile era l’accertamento tecnico sulle reali condizioni in cui versava la signora F. al fine di stabilire la correttezza o meno della valutazione medico-chirurgica compiuta dall’imputato.

I giudici di merito hanno ampiamente ricostruito, nei minimi particolari, la vicenda accaduta la notte tra il (omissis) nell’ospedale di (omissis) e le comunicazioni telefoniche intercorse, comprese le espressioni sprezzanti e volgari del B., evidenziando la sussistenza della piena consapevolezza e volontà dell’imputato di rifiutare di recarsi nuovamente in ospedale per controllare personalmente lo stato di aggravamento della paziente, cosicchè il motivo sull’elemento soggettivo del reato (dolo generico) si risolve in un’inammissibile censura di fatto sulla valutazione che in proposito hanno compiuto i giudici di merito, che hanno espressa con adeguata motivazione, giuridicamente corretta e perfettamente logica.

4.2. Per quanto concerne il primo motivo d’impugnazione, va innanzitutto ribadito, in adesione alla consolidata giurisprudenza di legittimità, che la perizia è mezzo di prova neutro ed è sottratta al potere dispositivo delle parti, che possono attuare il diritto alla prova anche attraverso proprie consulenze. La sua assunzione è pertanto rimessa al potere discrezionale del giudice e non è riconducibile al concetto di prova decisiva, con la conseguenza che il relativo diniego non è sanzionabile ai sensi dell’art. 606 c.p.p., lett. d), e, in quanto giudizio di fatto, se assistito da adeguata motivazione, è insindacabile in sede di legittimità, anche ai sensi dell’art. 606 c.p.p., lett. e) (v. Cass. Sez. 4, n. 14130/2007, ced 236191; Sez. 6, n. 37033/2003 ced 228406; Sez. 5, n. 12027/1999, ced 214873; Sez. 3, n. 13086/1998 ced 212187).

Il codice peraltro consente che, pur in assenza di perizia, si possa procedere a consulenza extraperitale: le parti possono liberamente, senza alcuna autorizzazione del giudice, provvedere alla nomina di consulenti tecnici, al fine di farsi assistere da esperti per fare chiarezza in materia che ha necessità o utilità di particolari conoscenze tecniche (art. 233 c.p.p.).

L’esame dei consulenti tecnici soggiace alle regole previste per i testimoni (art. 501 c.p.p.), ma in ogni caso essi possono presentare memorie a norma dell’art. 121 c.p.p.. Indipendentemente dall’eventuale audizione dei consulenti, è questo lo strumento di cui le parti possono disporre "in ogni stato e grado del procedimento" per introdurre nel processo le conoscenze tecniche da esse ritenute necessarie per la decisione. Di tale potere, non sindacabile dal giudice, le parti non hanno fatto uso in nessun momento del processo.

Quanto alla dedotta nullità dell’ordinanza di revoca del provvedimento d’ammissione dell’audizione dei consulenti tecnici, si rileva che il potere del giudice di revocare l’ammissione di prove superflue in base alle risultanze dell’istruttoria dibattimentale è espressamente previsto dall’art. 495 c.p.p., comma 4 ed è ha portata più ampia di quella riconosciuta all’inizio del dibattimento di non ammettere le prove vietate della legge e quelle manifestamente superflue o irrilevanti (art. 495 c.p.p., comma 1 che richiama l’art. 190 c.p.p.), in relazione al diverso grado di conoscenza della regiudicanda che caratterizza i due distinti momenti del processo (cfr. Cass. sez 6, n. 38812/2002, ced 224272);

Va puntualizzato, tuttavia, che, nella fattispecie in esame, la questione è del tutto assorbita e superata dalla decisione del giudice d’appello di non ammettere la richiesta difensiva di rinnovazione del dibattimento per l’audizione dei consulenti. In ogni caso, la mancata previsione del vizio lamentato come causa di nullità, nel vigente regime processuale caratterizzato dal principio di tassatività delle nullità, rende il motivo inammissibile, indipendentemente dalla replica da parte del giudice d’appello.

Mette conto, comunque, precisare che il giudice, nel corso del dibattimento, non ha l’obbligo di spiegare previamente alle parti che sta per adottare un provvedimento ex art. 495 c.p.p., comma 4.

L’obbligo di sentire le parti, ai fini dell’esercizio del potere di revoca di cui all’art. 495 c.p.p., comma 4, non richiede un interpello formale, ma è adempiuto consentendo alle parti l’interlocuzione sull’andamento e sullo sviluppo della fase dibattimentale in corso, senza necessità di specifico annuncio dell’oggetto della possibile decisione in ordine alle prove ex art. 495 c.p.p., comma 4. Nel caso in esame, le parti, che risultano avere interloquito sull’assenza dei consulenti tecnici, non solo non produssero alcuna consulenza o memoria tecnica ex art. 121 c.p.p., ma non espressero alcuna posizione sulla perdurante necessità di audizione, nè prima dell’ordinanza nè durante la lettura di essa nè dopo la sua pronuncia.

In ogni caso, dalla motivazione delle sentenze resa del Tribunale e della Corte d’Appello, che hanno aderito all’orientamento della giurisprudenza di legittimità sopra indicato in tema di natura e finalità del reato in questione, emerge l’assoluta irrilevanza e superfluità della prova richiesta, cosicchè infondate sono le censure del ricorrente.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.

Redazione