Corte di Cassazione Penale sez. VI 23/3/2009 n. 12722; Pres. De Roberto G.

Redazione 23/03/09
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RITENUTO IN FATTO

1. In data 4 aprile 2008, il giudice dell’udienza preliminare del tribunale di Roma ha pronunciato sentenza di non luogo a procedere nei confronti dei cinque imputati sopra elencati in relazione al reato di cui all’art. 319 cod. pen. per il B. e ai reati di cui agli artt. 110, 321-319 cod. pen. per gli altri, "perchè gli elementi acquisiti risultano insufficienti a sostenere l’accusa".

Il rinvio a giudizio era stato richiesto dalla Procura della Repubblica di Roma all’esito di note informative del Comando del Nucleo regionale della Polizia tributaria del Lazio, che aveva evidenziato a carico degli imputati la sussistenza d’indizi di reato (emersi nell’ambito di una più vasta indagine condotta dalla Procura della Repubblica di Potenza), con riferimento alla liquidazione giudiziale della Federconsorzi ed a crediti da questa vantati nei confronti del Ministero delle politiche agricole e forestali.

Risulta dalla sentenza del g.u.p. che le ipotesi di reato formulate dal Pubblico Ministero erano fondate essenzialmente sull’attività d’intercettazione telefonica e ambientale e sull’acquisizione di documenti concernenti la liquidazione della Federconsorzi.

In accoglimento di eccezioni formulate dai difensori, i contenuti delle conversazioni captate sono stati ritenuti dal giudice inutilizzabili per mancanza di motivazione dei decreti autorizzativi delle intercettazioni, "emessi nell’ambito di un’indagine della Procura della Repubblica di Potenza, la cui ampiezza può evincersi dalle richieste di autorizzazione alle operazioni d’intercettazione (o di proroga) formulate dal PM e indicate per relationem dal Giudice per le indagini preliminari…. l’indagine spaziava dall’Inail alla Federconsorzi, da D.S. a B.F., da R. T. a C.E. e a G.L., passando anche per l’ex presidente del Senato M. e dall’ex presidente dell’acquedotto pugliese, menzionando ex ambasciatori e pubblici dipendenti in posizioni apicali nelle rispettive Amministrazioni.

Ciò riferisce il giudice dell’udienza preliminare "al solo fine di evidenziare come il semplice riferimento, contenuto nei decreti del GIP, alla richiesta del PM non può dare alcuna contezza delle ragioni di merito poste a fondamento dei provvedimenti autorizzativi.

Le motivazioni dei decreti autorizzativi delle intercettazioni telefoniche ed ambientali e delle successive proroghe, trascritte nella sentenza, "non danno comunque conto, se non con formule di stile – prosegue il g.u.p. – delle ragioni in base alle quali è consentito sottoporre a intercettazione conversazioni private, come tali tutelate da norme costituzionali; i decreti non rendono edotta la difesa del ragionamento logico seguito dal giudice nell’autorizzazione e quindi nella valutazione con la quale l’Autorità giudiziaria ha ritenuto di comprimere un diritto fondamentale come quello della riservatezza".

Tanto premesso, il g.u.p. ha ritenuto che gli altri elementi conoscitivi acquisiti dalle indagini preliminari (elencati in relazione a ciascun imputato, singolarmente e complessivamente valutati) non sono sufficienti a fondare l’esistenza di un atto contrario ai doveri di ufficio e di un accordo volto a realizzarlo nè a provare che la promessa di utilità abbia turbato psicologicamente il pubblico ufficiale sì da provocare la svendita delle funzioni pubbliche, in modo che le stesse fossero esercitate non in base ad una scelta legittima, ma per assicurare un vantaggio al privato.

2. Contro la sentenza ricorre per cassazione il Pubblico Ministero "ex art. 428 c.p.p., art. 606 c.p.p., lett. b) ed e) e art. 608 c.p.p…. per erronea applicazione dell’art. 266 e ss. in tema di intercettazioni telefoniche e ambientali e, in particolare, dell’art. 267 e 271 e per contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione".

Il ricorrente "non ritiene di condividere la valutazione di inutilizzabilità operata dal GUP delle intercettazioni telefoniche ed ambientali per carenza di motivazione dei decreti autorizzativi o di proroga delle stesse". A sostegno di tale diversa valutazione, dopo avere richiamato la giurisprudenza di legittimità sulla motivazione per relationem, evidenzia, per un verso, che "le richieste del P.M. di Potenza, inoltre, richiamavano per relationem anche atti di polizia giudiziaria che, attraverso il richiamo del richiamo, dovevano considerarsi parte integrante anche dei decreti del GIP di Potenza", e, per altro verso, che "al limite si è in presenza non di assenza di motivazione ma di suo difetto, come tale emendabile dal giudice cui che la doglianza venga prospettata, sia esso il giudice di merito (come nel caso di specie il Gup di Roma in sede di udienza preliminare) che deve utilizzare i risultati delle intercettazioni, sia esso quello dell’impugnazione nella fase di merito o in quella di legittimità".

CONSIDERATO IN DIRITTO

3. Il ricorso è inammissibile.

4. Rileva il Collegio che l’impugnazione del Pubblico Ministero, che non tocca minimamente le conclusioni della sentenza in tema di imparzialità, d’inesistenza di atto contrario ai doveri di ufficio e di relativi accordi, si limita a contrapporre a quella ritenuta dal giudice una diversa interpretazione della legge processuale con riferimento alla motivazione dei decreti autorizzativi delle intercettazioni e alla motivazione per relationem, nonchè a prospettare (nella parte finale dell’atto) un vizio di logicità nel ragionamento espresso dal g.u.p. in relazione all’originaria ipotesi associativa.

Non viene indicato dal ricorrente alcuno specifico decreto autorizzativo d’intercettazione (tra i tanti di cui il giudice evidenzia la mera apparenza e, quindi, la mancanza di motivazione), in relazione al quale una diversa interpretazione giuridica avrebbe determinato l’utilizzazione di uno o più indizi rilevanti e tali da dover necessariamente influire sulla valutazione del giudice in ordine alla sufficienza o insufficienza del quadro probatorio per sostenere l’accusa in dibattimento con riferimento alle imputazioni formulate.

5. Questa Corte ha ripetutamente affermato, in materia d’intercettazioni di conversazioni o comunicazioni, che qualora venga eccepita in sede di legittimità l’inutilizzabilità dei risultati delle intercettazioni, siccome asseritamente eseguite fuori dai casi consentiti dalla legge o qualora non siano state osservate le disposizioni previste dall’art. 267 c.p.p. e art. 268 c.p.p., commi 1 e 3, (art. 271 c.p.p., comma 1), è onere della parte indicare specificamente l’atto che si ritiene affetto dal vizio denunciato. In difetto, il motivo è inammissibile per genericità, non essendo consentito alla Corte di cassazione di individuare l’atto affetto dal vizio denunciato (v. tra le tante, Cass. n. 32747/2006 ced. 234809 ********; n. 13946/2008, ced 239975, *********).

Analogo onere incombe al ricorrente che, al contrario, invochi l’utilizzabilità delle conversazioni intercettate nel caso in cui il giudice abbia ritenuto inutilizzabili i contenuti di tutte le intercettazioni di conversazioni, perchè realizzate fuori dai casi consentiti dalla legge o in violazione delle disposizioni previste dall’art. 267 c.p.p. e art. 268 c.p.p., commi 1 e 3.

Il fatto che solitamente le eccezioni d’inutilizzabilità siano prospettate dalle parti private e quelle d’utilizzabilità siano dedotte dalla parte pubblica non può ovviamente determinare alcun diverso trattamento, tanto più nel caso (come quello in esame) d’impugnazione della sentenza di non luogo a procedere, in cui soltanto la specifica indicazione del ricorrente consente alla Corte di cassazione d’individuare il decreto autorizzativo d’intercettazione, la conversazione intercettata asseritamente utilizzabile e, quindi, la sussistenza di elementi conoscitivi rilevanti per la valutazione del quadro indiziario al fine di poter compiere la verifica di legittimità, non potendo la Corte procedere direttamente all’individuazione dell’atto di cui erroneamente o illegittimamente il giudice ha dichiarato l’inutilizzabilità.

6. Nessuna specifica indicazione in tal senso ha fornito il ricorrente, del quale non può neppure prendersi in considerazione la richiesta d’integrazione della motivazione dei decreti da parte del "giudice cui la doglianza venga prospettata", secondo il principio affermato per la motivazione insufficiente dalle Sezioni unite di questa Corte (n. 17/2000, ced 216665, Primavera), giacchè le argomentate osservazioni del g.u.p. evidenziano in realtà un’assoluta mancanza di motivazione, in un contesto caratterizzato da un coacervo di iniziative investigative coinvolgenti un grande numero di indagabili per fatti diversi e scollegati l’uno dall’altro. Nè l’iniziale ipotesi di reato di cui all’art. 416 cod. pen., richiamata dal ricorrente (quasi in funzione di "contenitore" alla base del collegamento tra gli indagati), può giustificare di per sè la proliferazione di intercettazioni a catena, in mancanza dell’indicazione, sia pure sintetica, nei decreti autorizzativi delle ragioni per le quali era indispensabile attivare intercettazioni su una determinata persona. E’ vero che per legittimare l’intercettazione di conversazioni non si richiedono gravi indizi di colpevolezza, ma bastano "gravi indizi di reato" (art. 267 c.p.p., comma 1) e che questi possono anche riguardare soggetti diversi dagli intercettandi, ma è altrettanto vero che l’intercettazione può disporsi soltanto quando "è assolutamente indispensabile ai fini della prosecuzione delle indagini", requisito essenziale di legittimità che deve costituire specifico oggetto di motivazione. E per giustificare l’indispensabilità ai fini della prosecuzione delle indagini, la motivazione deve necessariamente dar conto delle ragioni che impongono l’intercettazione di una determinata utenza telefonica che fa capo ad una specifica persona e, perciò, non può omettere di indicare il collegamento tra l’indagine in corso e l’intercettando.

Tale obbligo incombe in maniera espressa e diretta sull’autorità giudiziaria (art. 15 Cost. e art. 267 c.p.p., comma 1), per cui appare inaccettabile la richiesta del ricorrente di legittimare, delineando una ulteriore forma di motivazione per relationem di secondo grado, il "richiamo del richiamo", ossia il rinvio all’atto di polizia giudiziaria, come se l’autorità giudiziaria potesse sostanzialmente rimettersi alla valutazione di polizia giudiziaria per l’apprezzamento della sussistenza dei gravi indizi di reato e dell’assoluta indispensabilità dell’intercettazione ai fini della prosecuzione delle indagini. Una tale legittimazione finirebbe per svilire e vanificare la garanzia di inviolabilità che la Costituzione ha apprestato con presbite lungimiranza, considerate le possibili e molteplici aggressioni alla sfera della riservatezza della persona che gli sviluppi tecnologici consentono sempre più agevolmente.

7. Già, dunque, sotto tale profilo il ricorso è inammissibile. Ma un’ulteriore analisi merita anche il problema dell’interesse a impugnare.

Non basta invocare l’esatta applicazione della legge penale o la corretta osservanza delle norme processuali (stabilite a pena di nullità, inutilizzabilità, inammissibilità o decadenza) per legittimare l’impugnazione, se non è denunciata l’illegittimità della decisione finale del giudice per l’omessa valutazione di elementi indiziari determinata dall’indicato errore di diritto o dall’asserita violazione di legge.

Ovviamente non si richiede al ricorrente di prospettare in sede di giudizio di legittimità aspetti che attengono al merito della valutazione probatoria, ma soltanto di evidenziare la rilevanza degli elementi indiziari desumibili dalle conversazioni intercettate, come esposti nella richiesta di rinvio a giudizio con riferimento alla posizione specifica di ogni imputato.

La sussistenza dell’erronea applicazione della legge penale (art. 606 c.p.p., comma 1, lett. b) o dell’inosservanza di talune specifiche norme processuali (art. 606 c.p.p., comma 1, lett. c) non abilita, infatti, di per sè all’impugnazione di un provvedimento giurisdizionale in mancanza dell’allegazione della concretezza e dell’attualità dell’interesse a impugnare (art. 568 c.p.p., comma 4). Sussiste, infatti, l’interesse a denunciare la violazione di norma processuale o un’erronea applicazione di legge penale allorquando da tale violazione o da tale errore di diritto derivi un effettivo e reale pregiudizio per il ricorrente, che s’intende evitare attraverso il raggiungimento di un risultato non soltanto teoricamente corretto, ma anche praticamente e concretamente favorevole.

Orbene, dall’ipotetica fondatezza delle censure del ricorrente non potrebbe derivare l’annullamento del provvedimento impugnato se dal contenuto delle conversazioni intercettate non emergessero elementi rilevanti ai fini del quadro accusatorio. Ma di tale contenuto conoscitivo il ricorrente omette ogni indicazione e a questa Corte non viene offerto alcun elemento per ritenere che – nel caso fosse dichiarata l’illegittimità della valutazione del g.u.p. sulla mancanza di motivazione dei decreti autorizzativi delle intercettazioni delle conversazioni – dall’utilizzazione delle conversazioni deriverebbe un mutamento del quadro accusatorio tale da influire sulla valutazione circa la sussistenza o meno di elementi per sostenere l’accusa in dibattimento.

Ne consegue che la genericità del ricorso non consente a questa Corte neppure di apprezzare il concreto e attuale interesse del ricorrente.

P.Q.M.

La Corte dichiara inammissibile il ricorso.

Redazione