Corte di Cassazione Penale sez. VI 20/5/2009 n. 21165; Pres. Lattanzi G.

Redazione 20/05/09
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RITENUTO IN FATTO

1. La Corte d’Appello di Palermo, con la sentenza indicata in epigrafe, ha confermato la condanna di A.G. per i reati di peculato continuato e di abuso di ufficio continuato. Il primo in quanto l’A., segretario del reparto di otorinolaringoiatria dell’ospedale (omissis), effettuava tra l’ (omissis) numerose telefonate di carattere privato, anche verso paesi esteri come la (omissis), per un importo complessivo di Euro 2354,39. Il secondo perchè, negli anni (omissis), aveva favorito la conclusione di contratti di fornitura di materiale sanitario di valore non superiore al milione di L. tra l’ospedale indicato e una società di cui il figlio era socio accomandatario e lui stesso socio accomandante.

2. Ricorre l’A., il quale, in primo luogo e con riferimento al peculato, lamenta la violazione della legge penale, in quanto l’utilizzazione a fini privati di un’utenza telefonica assegnata in uso non comporta appropriazione di bene pubblico, ma da luogo soltanto all’addebito alla p.a. delle somme corrispondenti all’entità della utilizzazione. D’altra parte non era stato considerato se, dato il lungo lasso di tempo in considerazione, le telefonate contestate potevano rientrare nella categoria di quelle fatte per infrequenti e occasionali esigenze private, per le quali v’è una deroga al generale divieto di uso personale del telefono di ufficio.

Sempre con riferimento al peculato, con un secondo motivo sostiene che male sarebbe stato ritenuto sussistente l’elemento psicologico del reato, invece da escludersi per effetto di una circolare prodotta in appello e non presa in considerazione nell’erroneo convincimento che la produzione tardiva ne eliminasse la rilevanza. Questa circolare del 2 luglio 1997 prevedeva la notifica, a fine mese, del traffico telefonico alle unità operative, le quali avrebbero quindi dichiarato il consumo riferibile a motivi personali. Ed a tale provvedimento s’era attenuto il ricorrente, il quale non aveva dunque alcun obbligo di attivazione per il pagamento, ma ben poteva attendere la notifica del traffico mensile e quindi segnalare gli eventuali addebiti a proprio carico.

3. Con riguardo all’abuso d’ufficio il ricorrente non nega che nella specie s’era in presenza di un obbligo di astensione, ma assume che la sua condotta non era improntata a favorire la ditta indicata bensì al conseguimento dell’interesse pubblico di acquisire sollecitamente e a prezzi congrui la fornitura di prodotti sanitari.

In tal modo non vi sarebbe alcuna ingiustizia nel vantaggio patrimoniale arrecato e in ogni modo mancherebbe il dolo intenzionale previsto dall’art. 323 c.p..

4. Infine e subordinatamente l’A. sostiene che nell’uso del telefono dovrebbe, semmai, ravvisarsi un peculato d’uso e non un peculato ordinario.

CONSIDERATO IN DIRITTO

1. Il ricorso è privo di fondamento.

Iniziando dagli aspetti oggettivi del peculato, non v’è motivo di discostarsi dall’orientamento costante di questa Corte, per il quale l’uso privato dell’apparecchio telefonico comporta l’appropriazione (non restituibile) delle energie necessarie alla comunicazione, di cui l’impiegato ha disponibilità per ragioni di ufficio, e configura pertanto l’ipotesi di cui all’art. 314 c.p., comma 1 (cfr., per es., Cass. sez. 6^, 7 novembre 2000, ********).

Nella specie, d’altronde, non si verte in quella utilizzazione episodica ed economica del telefono, fatta per contingenti e rilevanti esigenze personali, che rende la condotta inoffensiva.

Infatti è dato leggere nella sentenza impugnata che il ricorrente si serviva sistematicamente dell’apparecchio, non per pressanti esigenze di relazione, ma per soddisfare la sua sfera ludica (frequenti contatti, anche internazionali, con appassionati della caccia) e che il valore delle energie sottratte è stato di Euro 2354,39, somma indubbiamente oltre i limiti, anche a frammentarla per i due anni della contestazione.

2. Quanto poi ai profili soggettivi, l’A., per escludere il dolo del reato, trae argomento da una circolare del 2 luglio 1997, in base alla quale il dipendente alla fine del mese avrebbe dovuto segnalare quali comunicazioni erano riferibili a motivi personali.

Afferma che, stando al tenore di simile atto, egli era in buona fede, quando riteneva di essere autorizzato all’uso fatto, salvo rimborso.

Al riguardo va rilevato che non è vero che la sentenza non si è occupata di questa circolare perchè ha ritenuto che fosse stata prodotta tardivamente, come oggi si sostiene nel ricorso. Essa invece la ha implicitamente ritenuta ininfluente alla pari di ulteriori due note di analogo tenore del 7 luglio 2004 e del 6 aprile 2006, pure invocate dal ricorrente. Infatti, dovendosi leggere questi provvedimenti in armonia con il sistema penale e con il codice di comportamento dei dipendenti della P.A., non si può ritenere che essi consentissero ad libitum l’impiego privato del telefono d’ufficio, ma che, ai fini di un controllo amministrativo, intendessero invece porre a carico del soggetto l’onere di indicare proprio quelle sporadiche comunicazioni dovute ad esigenze contingenti, che pure sono ammesse, come s’è detto trattando dei profili oggettivi del reato. Pertanto un possibile equivoco da parte del ricorrente non configurerebbe comunque un’assenza di dolo ma un’ignoranza non scusabile della legge penale. E in ogni modo – ben sottolinea la decisione impugnata – l’A. non era certo caduto in un equivoco interpretativo, dato che non aveva mai segnalato le chiamate di natura privata da lui effettuate.

3. In ordine all’abuso di ufficio, il ricorrente cita quella giurisprudenza sull’elemento soggettivo del reato, che va escluso quando l’intento principale perseguito sia quello di soddisfare un fine pubblico, anche nella consapevolezza di recare un ingiusto favore a un singolo soggetto (Cass. sez. 6^, 22 novembre 2002, *******************).

Tale citazione non coglie tuttavia nel segno perchè simile principio si applica soltanto a coloro cui è commessa la cura dell’interesse pubblico in questione e nella specie non risulta che al ricorrente, segretario di reparto, fosse demandato occuparsi delle forniture dell’ospedale nè mai l’A. ha sostenuto di essere a ciò competente. D’altra parte la giurisprudenza citata muove dal presupposto che il mezzo prescelto sia l’unico in grado di realizzare l’interesse, mentre è chiaro che nel caso in esame la fornitura poteva realizzarsi in una pluralità di modi e con molteplici soggetti.

Infine è evidente l’ingiustizia del vantaggio recato alla ditta favorita, che ha acquisito contratti senza sottoporsi a una competizione con i concorrenti.

4. Il ricorso va quindi respinto e il ricorrente condannato al pagamento delle spese processuali.

P.Q.M.

LA CORTE DI CASSAZIONE rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.

Redazione