Corte di Cassazione Penale sez. V 8/10/2008 n. 38340; Pres. Ambrosini G.

Redazione 08/10/08
Scarica PDF Stampa
FATTO

1^. La decisione.

Con la sentenza in epigrafe la Corte d’assise d’appello di Lecce confermava la sentenza 18.10.2004 del Giudice dell’udienza preliminare del Tribunale di Lecce nella parte in cui, a seguito di giudizio abbreviato, aveva dichiarato, per quanto che qui interessa:

– C.R., F.V., I.A., S. M., T.W. responsabili dei reati di partecipazione alle associazioni per delinquere di stampo mafioso (capo A) e finalizzata al traffico di stupefacenti (capo B) capeggiate da Ce.Fi., Ce.Si. e F.F., nonchè del reato di detenzione e cessione continuata di stupefacenti (capo C), tutti contestati come commessi dal 2000 al 2003;

– L.A., P.S., V.P., Z. R. responsabili del reato al capo A);

– FI.Ma. responsabili dei reati ai capi B) e C);

– D.L.S. e DI.SC.Fe. responsabili del reato al capo C);

ed inoltre:

– F.V. responsabile del reato (capo F5) di estorsione aggravata continuata ex art. 81 c.p., art. 629 c.p., commi 1 e 2;

art. 628 c.p., comma 3; D.L. n. 152 del 1991, art. 7; commessa il 29.3.2003 ai danni dell’esercizio commerciale " (omissis);

– M.C. responsabile del reato (capo F7) di tentata estorsione aggravata ex art. 56 c.p., art. 629 c.p., commi 1 e 2, art. 628 c.p., comma 3, nn. 1 e 3.; D.L. n. 152 del 1991, art. 7 commessa il 18 e il 27.4.2003 ai danni di Fi.Gi., titolare dell’autosalone (omissis);

– S.M. responsabile di omicidio aggravato di G. G. e delle connesse violazioni alla legge sulle armi (capi S e S1) ex art. 81 c.p., art. 575 c.p. e art. 577 c.p., comma 1, nn. 3 e 4; L. n. 895 del 1967, artt. 1, 2 e 4 fatti commessi il 22.12.2002;

– T.W. responsabile dei reati di estorsione e tentata estorsione aggravate (capi F6 e F7) ex art. 56 c.p. e art. 629 c.p., commi 1 e 2; art. 628 c.p., comma 3, nn. 1 e 3; D.L. n. 152 del 1991, art. 7; fatti commessi il 18 e il 27.4.2003 ai danni di Fr.

F. e Pi. nonchè di **** (F6) e di Fi.Gi. (F7);

rideterminando le pene inflitte a D.L.S., DI. S.F. (assolti dal capo B), ****** (assolto dal capo A), R.D. (assolto dai capi A e B ed esclusa per C l’aggravante), S.M. (esclusa per il capo S raggravante dei motivi abietti e futili), T.W. (assolto per una estorsione contestatagli al capo F8), V.P. e Z. R. (rivalutati i criteri dell’art. 133 c.p.) e confermando nel resto la sentenza impugnata.

2^. Le singole posizioni e i ricorsi.

1. C.R..

(nei suoi confronti la Corte d’assise d’appello ha confermato la condanna a sette anni di reclusione, riconosciute le circostanze generiche equivalenti, per i reati ai capi A, B e C).

1.1. La sentenza impugnata motiva richiamando le dichiarazioni di De.Si.Pi., Fi.Ce., Mo.Gi. e Vi.Fr. secondo cui apparteneva al Gruppo le Vele di ******, che trafficava con in stupefacenti, ed era stato affiliato dal Ce., che voleva il controllo sul traffico, con tutti gli altri "ragazzi" del Gr.; secondo **. il C. apparteneva al gruppo le Vele che traffica in stupefacente e, da tempo nel settore degli stupefacenti, era "dedito essenzialmente allo spaccio di eroina"; di una sua pregressa attività in tal senso avendo parlato anche Vi. e Mo..

1.2. Ricorre a mezzo dell’avvocato *******************, che chiede l’annullamento della sentenza impugnata denunziando contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione.

1.2.1. Con riferimento al capo A), assume che la Corte d’assise d’appello avrebbe affermato, sulla base di pure illazioni, che poichè C. faceva parte del gruppo "Le Vele" e che poichè, secondo i collaboratori, Gr.Ni. ed altri di detto gruppo s’erano alleati nel 2002 con il più ampio gruppo del Ce., anche C. sarebbe transitato nel gruppo Ce..

E ciò nonostante: alla riunione nel corso della quale s’era deciso il passaggio il C. fosse assente; ******, confessando, non avesse parlato del C.; le dichiarazioni di Vi.Fr. fossero del luglio 2002 e perciò precedenti alla riunione con la quale s’era decisa l’alleanza, non potendo il dichiarante avere appreso alcunchè dopo l’inizio della sua collaborazione.

1.2.2. Con riferimento al capo B), la responsabilità sarebbe quindi affermata sulla base di congetture addirittura di secondo grado (poichè C. in precedenza spacciava, se era passato al gruppo *******, non aveva potuto che continuare a spacciare) poste a conforto delle dichiarazioni del solo Ce. (che aveva riferito di cessioni di stupefacenti da parte del C.), che non poteva sapere essendo all’epoca (dall’agosto 2001 al marzo 2003) latitante all’estero (Olanda e Brasile), mentre nulla avevano riferito in proposito i collaboratori ****** e Mo., che gestivano il traffico a Lecce (inaccettabile e illogica sarebbe la valutazione come elemento di riscontro del fatto che il Mo. non avesse escluso che il C. spacciasse, espressa a p. 58 della sentenza impugnata).

2. D.L.S..

(nei suoi confronti la Corte d’assise d’appello ha confermato la declaratoria di responsabilità per il reato al capo C – spaccio continuato di stupefacente, aggravato dalla quantità ingente -, rideterminando la pena in otto anni di reclusione e 40.000,00 Euro di multa).

2.1. La sentenza impugnata, respinta la questione di nullità del giudizio di primo grado per l’indebita riunione della posizione del ricorrente a quella degli altri imputati giudicati in abbreviato e quella di inutilizzabilità e irritale rinnovazione delle dichiarazioni rese da ****** il 25.11.2003, motiva richiamando le dichiarazioni di Ce.Fi. e C. S., ribadendo che si trattava di dichiarazioni credibili e autonome, evidenziando i numerosi elementi che ne confermavano l’attendibilità, escludendo che potevano essere state dettate da rancore, e sostenendo che anche l’elemento sopravvenuto, costituito dalle dichiarazioni rese da ****** nel corso del dibattimento celebrato con il rito ordinario sulla fornitura di droga ricevuta dal Di.Sc.Fe., dipendente del ricorrente, non solo non le smentiva, ma indirettamente le confermava.

2.2. D.L. ricorre con due distinti atti, sottoscritti dai difensori avvocato ****************** e avvocato ***************, chiedendo l’annullamento della sentenza impugnata.

2.3. Ricorso avvocato ***** (depositato il 17.11.2007).

2.3.1. Primo motivo.

Denunzia la nullità del giudizio di primo grado per violazione dell’art. 111 Cost., comma 2, artt. 420 e 421 c.p.p., in relazione all’art. 178 c.p.p., comma 1, lett. c), con riferimento al fatto, già denunziato in appello, che il giudizio abbreviato in primo grado era stato celebrato previa riunione al procedimento, parimenti celebrati in abbreviato, nei confronti dei coimputati dal quale quello nei confronti del ricorrente era stato stralciato in prima udienza, nonostante nel giudizio a carico degli altri si fosse già in avanzata fase di discussione, avendo il pubblico ministero rassegnato le sue conclusioni e molto gli dei difensori già discusso: sicchè l’impossibilità per il ricorrente di partecipare alle udienze in cui difensori degli altri imputati avevano già proceduto alla discussione finale, si sarebbe risolta in una palese violazione del diritto di difesa, con conseguente nullità di ordine generale di tutti gli atti conseguenti.

2.3.2. Secondo motivo.

Denunzia carenza, illogicità e contraddittorietà della motivazione, affermando che le ragioni poste a fondamento della sentenza impugnata sarebbero intrinsecamente contraddittorie e incompatibili con altri atti del processo.

Sotto il primo aspetto osserva in particolare che vi sarebbe contraddizione tra gli argomenti spesi per l’assoluzione dal reato di associazione per delinquere finalizzata al traffico di stupefacenti (laddove si parla di un accordo dal contenuto piuttosto indeterminato, con assenza di esclusiva) e quelli posti a sostegno della conferma della condanna il reato di cui al T.U. n. 309 del 1990, art. 73 e l’aggravante di cui al T.U. n. 309 del 1990, art. 80 (laddove si richiama sostanzialmente la sentenza di primo grado, che minimizzava l’assunto della genericità degli accordi di intercorsi tra Ce.Fi. e D.L.S.).

Rileva quindi: l’incongruenza di tempi e luoghi del ritenuto accordo criminoso e il risultato delle indagini (era risultato che il ricorrente aveva soggiornato a Rimini soltanto il 10 maggio 2002, ad un anno di distanza dall’asserito incontro con Ce.Fi.), quasi che a nulla fosse servita la attività di ricerca dei riscontri che s’era risolta in una smentita del collaborante; l’illogicità della sentenza allorchè esamina le dichiarazioni di Fr.Fa., successivamente intervenute, non cogliendone gli aspetti di contraddizione con il narrato degli accusatori del ricorrente e addirittura, anzi, traendone elementi di riscontro, in palese contrasto con quella parte della sentenza nella quale si tentava di fornire smentita alla prospettazione difensiva sul un rancore nutrito dai Ce. nei confronti del D.L.: apparendo singolare che la Corte d’assise d’appello avesse escluso la portata favorevole delle dichiarazioni del Fr. sulla base del indimostrato sospetto che questi nutrisse rancore nei confronti del Ce., senza indicare ragione alcuna per la quale dovesse per tale ragione scagionare proprio il ricorrente, così paradossalmente escludendo l’astio e il rancore, conclamati invece, che il Ce. nutriva nei confronti dei fratelli D.L..

2.3.3. Terzo motivo.

Denunzia violazione del D.P.R. n. 309 del 1990, art. 80, comma 2, e vizio di motivazione con riferimento alla ritenuta sussistenza di detta aggravante.

Osserva in particolare che il quantitativo andrebbe valutato facendo riferimento al principio attivo contenuto nella sostanza, alla qualità della stessa, agli effetti negativi, diversi a seconda delle droghe, sui potenziali assuntori (cita copiosa giurisprudenza);

mentre la sentenza impugnata si limiterebbe a prendere atto di quanto riferito dei fratelli Ce., che avevano parlato di alcuni chilogrammi di stupefacente senza specificare nè il quantitativo, nè il principio attivo, nè la qualità, nè il prezzo di detto stupefacente.

2.3.4. Quarto motivo.

Deduce che erroneamente la Corte d’assise d’appello avrebbe calcolato la pena inflitta senza tener conto della sopravvenuta L. n. 49 del 2006, e perciò calcolando la pena base su quella edittale precedentemente prevista, che andava da 8 a 20 anni di reclusione e da 50 a 500 milioni di lire di multa.

2.4. Ricorso avvocato ****** (depositato il 19.11.2007).

2.4.1. Primo motivo.

Rinnova l’eccezione di nullità dell’ordinanza 17 settembre 2004, emessa dal giudice di primo grado, per violazione dei diritti da difesa e conseguente nullità della sentenza di condanna, per violazione dell’art. 178 c.p.p., comma 1, lett. c), in relazione all’art. 111 Cost., comma 2, artt. 420 e 421 c.p.p., art. 422 c.p.p., comma 3.

Sostiene, analogamente al precedente ricorso, che, disposta la separazione della posizione processuale del D.L., la stessa non poteva essere riunita a quella dei coimputati quando nei confronti di costoro s’era già svolta, per numerose udienze, la discussione di pubblico ministero e difensori; che era pertanto illegittima l’ordinanza del primo giudice che tale riunione aveva disposto nel corso della discussione, respingendo l’opposizione della difesa, e che era illegittima la reiezione della analoga eccezione ad opera della Corte d’assise d’appello, giacchè ogni imputato ha diritto di partecipare a tutte le udienze del processo ed ha interesse ad ascoltare tutto quanto avviene in tale processo, anche, e in particolare, gli interventi collegati alla sua posizione, sicchè nessuno può essere inserito o reinserito in un processo, e giudicato nello stesso se ciò gli preclude la possibilità di ascoltare interventi collegati che potrebbero pregiudicare la sua posizione di fronte al giudice che dovrà emettere la sentenza.

Se non vi fosse stata la riunione, aggiunge, la sentenza non sarebbe stata pronunziata dal giudice del processo principale, che aveva ascoltato la requisitoria del pubblico ministero nei confronti di tutti gli imputati e i difensori di alcuni di essi e avrebbe potuto essere influenzato da taluni passaggi di questi interventi, nè vi sarebbe stato bisogno di assicurare a D.L. e ai suoi difensori di interloquire su quanto era stato detto dal pubblico ministero e dagli altri difensori in interventi ai quali non era stato possibile assistere in ragione dello stralcio intervenuto.

2.4.2. Secondo motivo.

Denunzia la nullità della sentenza impugnata per avere utilizzato come elemento di prova le dichiarazioni rese da C.F. nell’interrogatorio inutilizzabile del 25 novembre 2003 e per avere conseguentemente emesso un provvedimento viziato nella sua motivazione.

Afferma che il 25 novembre 2003 Ce.Fi. era stato sentito da due ufficiali di polizia giudiziaria delegati dal pubblico ministero, senza la presenza di questo, in violazione del disposto dell’art. 370 c.p.p., comma 1 che vieta che l’interrogatorio dell’indagato venga assunto la polizia giudiziaria delegata nei casi in cui costui non si trovi stato di libertà.

Errate sarebbero le argomentazioni con le quali la Corte d’assise d’appello aveva respinto l’eccezione, affermando che la norma non sarebbe applicabile nell’ipotesi in cui l’indagato è sentito su addebiti che riguardano terzi ed osservando altresì che il pubblico ministero aveva successivamente rinnovato l’atto, recependone il contenuto nell’interrogatorio del 4 dicembre 2003, e in tal modo sanato il vizio (citando Cass. 13 novembre 2002 n. 41028 e 25 novembre 2003 n. 725 nonchè 4 dicembre 2002, n. 2318).

Quanto al primo argomento, esso non sarebbe valido nel caso, che è quello in esame, in cui l’imputato riferisce di fatti connessi ai sensi dell’art. 12 c.p.p., comma 1, lett. a), e cioè quando parla anche del fatto proprio riferendo di responsabilità altrui.

Quanto al secondo, osserva che il principio di garanzia sotteso alla previsione dell’art. 370 c.p.p., comma 1 impone che il pubblico ministero che intenda rinnovare l’atto debba rinnovare l’interrogatorio, acquisendo personalmente tutte le notizie che l’indagato interrogato intende dare, valutando ed eventualmente saggiando con appropriate domande l’attendibilità di quanto costui riferisce, insistendo sulla domanda la cui risposta non appaia convincente o sia meritevole di approfondimento, non essendo sufficiente che nell’interrogatorio successivo il pubblico ministero si limiti a chiedere genericamente all’indagato se conferma quanto dichiarato, così pretendendo che il contenuto del precedente interrogatorio ritualmente assunto debba intendersi integralmente richiamato (per relationem) giacchè in tal modo si darebbe corpo ad un inaccettabile ed illegittimo aggiramento di quanto prescritto dall’art. 370 c.p.p. (e cita, ex plurimis, Cass. 15 ottobre 2003, n. 42748).

E’ poichè tale interrogatorio ha rilievo fondamentale nell’architettura del discorso giustificativo della condanna del ricorrente, la sua inutilizzabilità imporrebbe l’annullamento con rinvio della sentenza impugnata.

2.4.3. Terzo motivo.

Denunzia sotto plurimi aspetti la manifesta illogicità della motivazione della sentenza impugnata e la sua contraddittorietà, intrinseca e con riferimento al contenuto di atti specificamente individuati, nonchè la omessa valutazione di considerazioni difensive articolatamente sviluppate.

La prospettazione difensiva era che Ce.Fi. durante latitanza avrebbe deciso di pentirsi, inducendo il fratello detenuto a fare altrettanto e ad accusare falsamente i fratelli D.L. di aver concorso con loro ad un traffico di droga.

Tanto avevano fatto per una duplice ragione: vendicarsi di sgarbi ricevuti e consentire a Ce.Si. di raccontare fatti nuovi ed originali, e quindi per lui utili sul piano della credibilità del suo pentimento.

E avevano per tale ragione architettato che Ce.Fi. avrebbe fatto un primo cenno al coinvolgimento di D.L. S. nell’interrogatorio del giorno 11 settembre 2003, lasciando che Ce.Si. facesse un racconto ricco di particolari nell’interrogatorio del 18 novembre 2003, rendendo quindi Ce.Fi. dichiarazioni più dettagliate, a riscontro esterno delle parole del fratello, il 25.11.2003.

A dimostrazione di tale prospettazione la difesa avrebbe offerto prova di un rancore di Ce.Fi. nei confronti dei fratelli D.L. e della possibilità che i fratelli Ce. avevano avuto di comunicare prima di rendere detti interrogatori.

La Corte d’assise d’appello avrebbe invece ritenuto non fondata la tesi difensiva incorrendo in manifesta illogicità, in contraddizioni e in palese travisamento degli atti e delle stesse prospettazioni difensive, in particolare nei capitoli della sentenza riservati:

a. ai pretesi contatti con i parenti illogicamente esclusi e/o ritenuti irrilevanti per il solo fatto che non risultava esservi stato contatto diretto fra i due e sul rilievo astratto che erano sottoposti al regime dell’art. 4 bis ord. pen. (a dare sostanza alla prospettazione difensiva era sufficiente la dimostrazione che v’erano stati contatti in carcere di ciascuno dei due fratelli con i parenti, con conseguente possibilità che per loro tramite si fosse realizzato un contatto indiretto fra Ce.Fi. e Ce.Si.;

illogica era altresì la lettura, che avrebbe dovuto essere condotta alla luce di tutti gli ulteriori elementi emersi, del memoriale di Pa.An. – che riferiva del diverbio tra i fratelli D. L. e Ce.Fi. a causa dell’acquisto ad opera di questo di una Jaguar che i due avevano rivoluto indietro quando il primo s’era reso latitante e dei rapporti avuti in Olanda da Ce.Fi. con i genitori e la sorella – e di una lettera inviata da Ce.Fi. al fratello il 14 maggio 2003 – che conteneva un implicito invito a collaborare -);

b. alla ricostruzione alternativa suggerita, apoditticamente respinta come improbabile (senza considerare invece l’assoluta coerenza e fondatezza degli argomenti lungamente spesi nei documenti difensivi);

c. al preteso movente illogicamente ritenuto "fatto totalmente privo di attendibili conferme e, comunque, tale da non giustificare la condotta ipotizzata" (nonostante risultasse che a seguito dello "sgarro" della Jaguar v’erano stati: un’irruzione dei sodali di Ce.Fi. nei locali dove si trovava nei videogiochi dei fratelli D.L., con la loro distruzione nonchè la decisione di far rimuovere tutti videogiochi di proprietà di quelli collocati nei locali pubblici di Gallipoli e di Lecce e di far risolvere tutti i contratti di somministrazione del caffè (omissis) commercializzato dai D.L.; fatti che dimostravano il rancore nutrito e il desiderio di vendetta da parte di Ce.Fi. nei confronti in particolare di D.L.S. oltre che, in misura minore, di D.L.P., proprio a causa del rapporto di consuetudine in precedenza con costoro, pur in misura diversa, maturato); pretermettendosi di valutare adeguatamente il fatto che anche D.L.P. era stato ingiustamente accusato (e poi assolto) dai Ce. (anche se con dichiarazioni meno dettagliate, a causa appunto della minore intensità del rapporto con lui esistente); a ragion capoversa affermandosi che "quanto poi alla vicenda dei videogiochi… l’episodio, ove venisse inteso in chiave non positiva legittima, al più, l’ipotesi dei malumori di D. L. verso Ce. e non viceversa"; arbitrariamente osservandosi che non vi era alcun significativo elemento che avrebbe confermato l’esistenza di attività estorsive o intimidatorie provenienti da soggetti vicini al Ce., che i fatti non erano stati oggetto di accertamento in questo processo, che in ogni caso le estorsioni e le intimidazioni non si ponevano "certo nell’ottica di un risentimento di Ce., ma al contrario";

d. alle discrasie delle dichiarazioni dei due fratelli, giacchè proprio il fatto che non fossero interpretabili univocamente non consentiva di escludere l’accordo tra i due in ordine alla falsa accusa; ferma, peraltro, la scarsa credibilità della circostanza che il ricorrente avesse accettato di discutere, stando a Ce.

F., della cessione di stupefacenti in un ristorante, alla presenza di molte altre persone, nonostante la sua grande paura del carcere;

e. ai ritenuti riscontri oggettivi esterni, dimostrativi solo di una frequentazione e in realtà non riferibili perciò al fatto delittuoso contestato ma ad un rapporto pregresso di amicizia e conoscenza; a fronte dei quali si sarebbe dovuto invece considerare che a carico del D.L. non risultavano elementi tratti da indagini bancarie, intercettazioni telefoniche, informative di polizie, nè v’erano sequestri di stupefacenti;

f. alla mancata considerazione di profili decisivi ulteriori, quali il fatto che nessuno degli altri dichiaranti aveva mai parlato di un coinvolgimento del D.L. (proprio la circostanza che l’accordo iniziale fosse intervenuto in un ristorante, presenti altri soggetti, consentiva d’ipotizzare che altri ne fossero al corrente, nonostante la segretezza assertivamente richiesta dal D.L. e il breve periodo) e soprattutto non ne aveva parlato quel De.Si.

P., fidatissimo del gruppo, deputato alla gestione del traffico degli stupefacenti, che pure aveva fatto cenno ai D. L. per riferire della loro sostituzione nella gestione dei videogiochi e alla vendita del caffè (con ciò smentendo la sentenza impugnata laddove affermava che rientrato nel 2002 poco sapesse direttamente dei fatti precedenti);

g. alle sopravvenute dichiarazioni di Fr.Fa., dalle quali sarebbero emersi copiosi elementi di riscontro alla prospettazione difensiva (aveva parlato di una consegna di droga fatta da un dipendente dei D.L., escludendo decisamente che detta consegna potesse essere riferita al ricorrente o che questi fosse un fornitore di droga; aveva sottolineato – pur sbagliando nome – il rancore nutrito nei suoi confronti da Ce.Fi.;

aveva chiarito che in regime di art. 41 bis ord. pen. era possibile tenere contatti con l’esterno) irragionevolmente misconosciuti sulla base di considerazioni illogiche o apodittiche (quali quelle secondo cui l’errore di nome indicava scarsa conoscenza dei fatti; secondo cui dalla sua affermazione d’avere consigliato a Ce. di lasciar perdere si ricavava che questo avrebbe abbandonato il proposito di vendicarsi; che non aveva parlato della vicenda della Jaguar e della rimozione dei videogiochi; che le affermazioni sui contatti dal carcere non consentivano d’affermare che era possibile dialogare in modo articolato con chi era in massima sicurezza) o assurdamente addirittura valutati di riscontro alla prospettazione accusatoria, senza considerare che non erano in contestazione i fatti (le consegne ad (omissis) ad opera di certo Fe.) ma la loro attribuibilità al D.L..

2.4.4. Quarto motivo. Lamenta violazione di legge e vizio di motivazione con riferimento alla affermata sussistenza dell’aggravante della quantità ingente dello stupefacente oggetto dell’addebito, assumendo che la Corte d’appello si sarebbe attestata sulle dichiarazioni dei fratelli Ce., senza valutare se, anche a tenere per buone le dichiarazioni di questi, la quantità potesse ritenersi davvero ingente in termini assoluti o relativi, tanto più in considerazione del fatto che gli stessi propalanti avevano riferito che la droga non era risultata di buona qualità (e nell’apprezzamento della quantità occorre valutare il principio attivo) e che la concentrazione della fornitura di diversi quantitativi in un ristretto arco temporale non comporta affatto (come ha invece illogicamente affermato la Corte d’assise d’appello) che la quantità consegnata debba considerarsi ingente.

2.4.5. Quinto motivo.

Denunzia il mancato riconoscimento delle attenuanti generiche, senza alcuna considerazione del complesso degli argomenti spesi a tal proposito dalla difesa (p. 32 motivi d’appello Grosso).

3. **********

(nei suoi confronti la Corte d’assise d’appello ha confermato la declaratoria di responsabilità per il reato al capo C – spaccio continuato di stupefacente, aggravato dalla quantità ingente -, rideterminando la pena in otto anni di reclusione e 40.000,00 Euro di multa).

3.1. La sentenza impugnata motiva richiamando gli elementi di prova già evidenziati nei confronti del D.L., ribadendo l’attendibilità e l’indipendenza delle dichiarazioni dei fratelli Ce., osservando che gli assenti motivi di astio di costoro nei confronti del D.L. non erano comunicabili al Di.Sc. e che quelli personali da questo allegati erano sguarniti d’ogni riscontro probatorio ed inverosimili, che i numerosi elementi acquisiti confermavano quanto dichiarato dai collaboratori.

3.2. Ricorre a mezzo del difensore avvocato ****************, che chiede l’annullamento della sentenza impugnata.

3.2.1. Primo motivo.

Denunzia violazione degli artt. 192, 605 e 533 c.p.p. nonchè difetto e contraddittorietà della motivazione, lamentando che la responsabilità del ricorrente sarebbe stata affermata sulla sola concomitante accusa dei fratelli Ce., senza che esistessero riscontri esterni, che fosse valutata la loro credibilità, che fosse data risposta alle deduzioni difensive che, sulla base di elementi fattuali e logici, avevano rappresentato la non attendibilità della costruzione accusatoria.

Deduce in particolare: che la Corte d’assise d’appello avrebbe frainteso e sottovalutato la genesi della scelta collaborativa, il fatto che solo negli ultimi interrogatori dei fratelli Ce. si fossero avanzate le accuse per cui è condanna; che le prime dichiarazioni (di Ce.Fi.) peccavano di genericità ed imprecisione; che Ce.Si. aveva deciso di collaborare solo dopo aver saputo della collaborazione del fratello e del contenuto delle accuse da lui mosse; che i racconti mancavano dunque d’immediatezza, spontaneità e genuinità; che erroneamente e pericolosamente la Corte avrebbe giustificato un racconto frazionato e diluito, motivato dalla sola intenzione di procacciarsi benefici;

che De.Si.Pi. nulla aveva riferito di fatti che pure avrebbe dovuto conoscere e nulla avevano detto gli altri più noti spacciatori della zona; che la circostanza che nessuno sapesse della fornitura ad opera del ricorrente era, per la quantità e qualità della droga, illogica; che ****** e ****** nei loro racconti avevano coinvolto, sugli episodi in questione, soltanto Pa.An., il quale pure aveva denunziato la falsità dell’accusa; che ciò aveva fatto solo allorchè aveva saputo dell’ingiusta accusa mossa al ricorrente ai fratelli D. L., che nulla avevano a che fare con loro tutti; che le dichiarazioni dei fratelli Ce. erano affette da contraddizioni e difformità inopinatamente tralasciate (così, con riferimento alla prima fornitura, dinanzi al supermercato di (omissis) non si comprendeva se vi fossero anche Pa. oppure Gr., se Ce.Si. fosse stato mandato dal fratello altrove e dove, se i chili di droga erano tre o due, con la non irrilevante differenza di 150 milioni di lire) ed ingiustamente ritenute irrilevanti attesa l’importanza del fatto e la quantità di cocaina trattata.

Insiste nel denunziare che le dichiarazioni dei due fratelli erano state ritenute sufficienti a fornire reciproco riscontro, senza che inducesse sospetto il legame tra i due, il tempo e le modalità della loro risoluzione a collaborare (ricorda che all’atto del primo interrogatorio nel quale Ce.Fi. aveva manifestato la volontà di collaborare aveva esibito un voluminoso blocco di appunti, che dimostrava come la sua decisione fosse risalente nel tempo e avesse approntato su ogni fatto un memoriale, nel medesimo contesto avendo invitato il fratello a collaborare): tutte le circostanze evidenziate dei difensori consentendo all’opposto di ritenere che tra le due fonti vi fosse un accordo e che comunque le stesse non fossero autonome ed indipendenti.

Afferma che delle stesse dichiarazioni di Ce.Fi. e di Ce.Si. emergeva inoltre l’esistenza di gravi motivi di astio e di risentimento nei confronti dei fratelli D.L. e che il ricorrente aveva dimostrato l’esistenza di simili sentimenti di rancore anche nei suoi confronti (cita, testualmente le dichiarazioni rese da Ce.Fi. nell’interrogatorio del 25 novembre 2003, nel quale questo avrebbe ammesso che aveva fatto togliere i videogiochi del D.L. dal bar (omissis) per farvi rimettere quelli di un tal Cu., che lo aveva anche sostituito nella gestione della fornitura del caffè, evidenzia come da tali dichiarazioni, provenienti dallo stesso pentito, emergesse una situazione di fatto completamente travisata dalla Corte d’assise d’appello).

Sostiene che, dal suo canto, il Di.Sc. aveva, per quanto possibile, provato che Ce.Fi. s’era sentito offeso dal suo rifiuto di accettare assegni postdatati in pagamento di un negozio che voleva vendere mentre inaccettabilmente la Corte d’assise d’appello aveva liquidato come non adeguatamente dimostrata la prospettazione difensiva.

Mancavano inoltre riscontri esterni, individualizzanti: i tentativi d’acquisirli essendo naufragati ed avendo anzi sortito risultati opposti (il traffico di cocaina nello stesso paese del ricorrente risaliva ad un anno prima i fatti narrati dai Ce., la cocaina, di ottima qualità, era all’evidenza diversa da quella descritta da Ce.Fi., della quale si poteva al più duplicare il quantitativo e che mancava del segno distintivo sulle confezioni).

3.2.2. Secondo motivo.

Denunzia violazione di legge e vizio di motivazione con riferimento all’aggravante della quantità ingente.

Lamentando che la Corte d’assise d’appello avrebbe fatto riferimento al solo dato ponderale riferito dai Ce., senza verificare se effettivamente quantità e qualità della droga potessero farla ritenere destinata ad un numero rilevante di tossicodipendenti, ed evidenzia che le forniture si sarebbero ridotte a due – tre di un chilo o un chilo e mezzo ciascuna, che sostiene sarebbero stata poca cosa per il mercato del (omissis), quale emergeva dalle stesse carte processuali.

3.2.3. Terzo motivo.

La Corte d’assise d’appello si sarebbe immotivatamente discostata dai minimi edittali, irriguardosa dei criteri degli artt. 133 e 81 c.p. vuoi nella determinazione della pena base vuoi nel calcolo dell’aumento per la continuazione.

4. F.V..

(nei suoi confronti la Corte d’assise d’appello ha confermato la condanna a dieci anni e otto mesi di reclusione, con libertà vigilata per due anni, per i reati ai capi A, B, C, nonchè per l’estorsione al capo F5 ai danni di Ca.An.An., titolare del negozio "(omissis)).

4.1. La sentenza impugnata motiva rilevando che la identificazione del F.V., coinvolto nelle conversazioni con il Ma., con F.V. poteva dirsi certa; richiamando, con riferimento all’estorsione le dichiarazioni della persona offesa che, anche se evidentemente intimidita, aveva confermato nella sostanza i fatti, e la telefonata del 29 marzo 2003 nella quale il Ma. parlava con il F. dandogli istruzioni; con riferimento agli altri reati, evidenzia che elementi sufficienti di colpevolezza emergevano dalle dichiarazioni del Ce., dalle conversazioni intercettate, dalle estorsione compiuta all’evidenza in qualità di affiliato.

4.2. Ricorre personalmente e chiede l’annullamento della sentenza impugnata.

4.2.1. Primo motivo.

E’ dedicato alla giustificazione riservata alla condanna per il capo F5, e con esso si denunzia violazione della legge penale, in relazione all’art. 629 c.p. e L. n. 203 del 1991, art. 7 e vizi di motivazione.

Lamenta che la Corte d’assise d’appello si sarebbe rifatta alla sentenza di primo grado senza rispondere adeguatamente alle deduzioni difensive, in particolare articolate sulla oggettiva configurabilità del reato di estorsione, sulla possibilità di riconoscere il dolo di concorso in capo al soggetto che si sarebbe solamente recato a ritirare un capo nel negozio della persona offesa e, soprattutto, con riferimento alla inconsistenza degli elementi di prova che potevano dimostrare che tale persona era da identificare con il ricorrente.

In relazione a tale ultimo aspetto sottolinea quindi in particolare che la persona offesa all’udienza del 5 luglio 2004, sotto il vincolo del giuramento, aveva categoricamente negato d’aver mai visto prima il ricorrente, nonostante il 27 maggio 2003 avesse dichiarato ai Carabinieri che era perfettamente in grado di riconoscere i soggetti che s’erano presentati al suo negozio con la pretesa estorsiva, sicchè con la deposizione dibattimentale l’aveva scagionato.

Del tutto illogicamente la Corte d’assise d’appello aveva ritenuto la sua responsabilità collegando due telefonate (la 194 del 29 marzo 2004 e la 573 dell’11 marzo 2003), affermando, sulla base della comunanza del nome " F.V." e di non meglio indicate attività investigative, che quel F.V. era il ricorrente ed erroneamente attribuendo allo stesso una sostanziale ammissione di suoi rapporti criminali con gli altri protagonisti dell’episodio criminoso in contestazione.

Altrettanto illogicamente e contraddittoriamente la Corte d’assise d’appello avrebbe quindi giustificato il mancato riconoscimento da parte della persona offesa assumendo che esso sarebbe stato determinato dal tempo trascorso – che invece non era rilevante essendo trascorso poco più di un anno -, dall’effetto intimidatorio – apoditticamente affermato nonostante il vincolo del giuramento e l’oramai completa neutralizzazione del gruppo criminale di riferimento -, di un possibile errore – del tutto ingiustificabile a fronte della gravità dell’episodio contestato.

Sotto altro profilo svolge analoghe censure con riferimento all’aggravante di cui al D.L. n. 152 del 1991, art. 7 assumendo che erroneamente la Corte avrebbe ritenuto sufficiente la circostanza che dagli atti emergesse la "plastica rappresentazione dell’archetipo dell’intimidazione mafiosa", dimenticando che l’aggravante richiede uno specifico atteggiamento teologico dell’agente ed omettendo perciò di verificare se effettivamente la condotta del ricorrente fosse volta ad agevolare l’associazione mafiosa con conseguente effettiva lesione del bene protetto dalla norma.

4.2.2. Secondo motivo.

E’ dedicato ai reati di cui ai capi A), B) e C) e con esso si denunzia violazione dell’art. 416 bis c.p. e D.P.R. n. 309 del 1990, artt. 74, 73 e 80 e si deducono plurimi vizi di motivazione, osservandosi che la Corte d’appello si sarebbe inopinatamente basata sulle scarne dichiarazioni incriminanti di Ce.Fi. e su alcune intercettazioni telefoniche, pochissime, che riguardavano un tal F.V., identificato con il ricorrente sulla base di tanto labili quanto frammentari elementi, in sostanza riferibili al riconoscimento della sua voce ad opera dei verbalizzanti (si sottolinea che l’affermazione che gli investigatori avrebbero seguito "tanto l’utenza utilizzata dal F. quanto la sua voce" sarebbe del tutto incomprensibile non essendovi in atti alcuna intercettazione su utenze intestate al ricorrente), nonchè su asserite ammissioni, male interpretate, che sarebbero state rese dal ricorrente in sede di interrogatorio (si sostiene che questo avrebbe ammesso soltanto di aver conosciuto Ma.Ma. in carcere e di aver acquistato cocaina da un albanese perchè tossicodipendente, non di essere spacciatore nè di essere l’autore delle conversazioni con il Ma.).

Con riferimento al capo A) si rileva quindi, in particolare, che mancherebbe ogni elemento capace di dimostrare una condotta di partecipazione alla associazione di stampo mafioso, mancando la dimostrazione di ogni consapevolezza, in capo al ricorrente, dell’esistenza delle caratteristiche del sodalizio in esame e della sua volontà di contribuire al conseguimento degli scopi associativi in un determinato momento della sua vita; mancherebbe inoltre ogni collegamento tra i singoli episodi nei quali sarebbe assertivamente coinvolto il ricorrente e la fattispecie associativa, radicalmente difettando la prova di un suo contributo causale all’organizzazione mafiosa e mancando ogni motivazione nella sentenza impugnata su tali aspetti.

Con riferimento al capo B) analogamente si denunzia che sarebbe travisato il contenuto dell’interrogatorio del ricorrente;

che mancherebbe ogni motivazione sulla configurabilità del reato di cui al D.P.R. n. 309 del 1990, art. 74; mancherebbe, soprattutto la prova dell’esistenza di un vincolo associativo di natura stabile tra il ricorrente ed altre persone, al fine di compiere una serie indeterminata di delitti in materia di stupefacenti; che la prova della condotta partecipativa non potrebbe in alcun modo trarsi da un singolo episodio, quale quello relativo all’arresto del ricorrente;

che non sarebbe comunque ravvisabile sulla base della sentenza impugnata alcun elemento capace di dimostrare il dolo di partecipazione del ricorrente.

Con riguardo al capo C), infine, si lamenta che la sentenza impugnata non individuerebbe alcun episodio di acquisto, cessione o detenzione illecita capace di dare consistenza all’ipotesi accusatoria (s’era d’altra parte già lamentata l’indeterminatezza del capo d’imputazione) e che mancherebbe qualsivoglia dato di fatto da cui indurre che il F. era uno spacciatore.

Lo stupefacente sequestrato al momento dell’arresto era d’altro canto sicuramente destinato a suo uso personale, come inutilmente il F. aveva tentato di dimostrare.

5. FI.Ma..

(nei suoi confronti la Corte d’assise d’appello ha confermato la declaratoria di responsabilità per il reato ai capi B e C, rideterminando la pena, in concorso delle attenuanti generiche prevalenti riconosciutegli in primo grado, in sei anni e quattro mesi di reclusione).

5.1. La sentenza impugnata motiva richiamando le dichiarazioni del De.Si. e di Ce.Fi.; le conversazioni intercettate e gli appunti sequestrati al Gr.; il ripetuto noleggio a suo nome di auto usate dal gruppo e remissione di vaglia postali sottoscritti in bianco.

5.2. Ricorre a mezzo del difensore avvocato *************** e chiede l’annullamento della sentenza impugnata.

Con motivo formalmente unico lamenta violazione del D.P.R. n. 309 del 1990, artt. 73 e 74 e art. 192 c.p.p. nonchè travisamento della prova, mancanza, contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione.

Deduce che il Giudice di appello, dopo aver premesso che una serie di elementi di diverso tenore (dichiarazioni dei collaboratori, contenuto delle intercettazioni, contabilità sequestrata al Gr.) convergevano nell’indicare il Fi. come un corriere utilizzato per il trasporto della droga e coinvolto in attività di smercio degli stupefacenti, argomenterebbe sulla base delle medesime condotte la sua consapevole partecipazione sia all’associazione finalizzata al traffico di stupefacenti sia l’attività di spaccio degli stessi.

Al contrario, la diversità delle due ipotesi criminose avrebbe imposto che per entrambe fossero indicati con puntualità gli elementi di fatto e di diritto su cui era fondata la decisione.

Con riferimento, in particolare, al reato di cui al D.P.R. n. 309 del 1990, art. 73 mancherebbe qualsiasi individuazione spazio-temporale, quantitativa e qualitativa, dei singoli episodi di cessione di stupefacenti e la Corte d’assise d’appello si sarebbe limitata all’apodittica affermazione dell’esistenza di più elementi che confermavano l’attività di spaccio.

Quanto ai collaboratori: ********* aveva detto che ricorrente in un’occasione si era recato ad Amsterdam con Lo.

P. a bordo di una auto sua o di altri per il trasporto di droga, aggiungendo che era debitore di Gr.Ti. e L. P. per l’acquisto di stupefacenti; ****** e ****** avevano parlato anche loro del viaggio in Olanda per il trasporto di cocaina, ma escludendo il primo che il ricorrente fosse uno spacciatore e precisando che suoi debiti erano dovuti al consumo di cocaina, il secondo specificando che era stato "usato" per il suo stato di tossicodipendenza e che la droga la prendeva per suo uso.

L’aver tratto da questo viaggio in Olanda argomenti per ritenere la partecipazione del ricorrente all’associazione per delinquere deputata al traffico di stupefacenti era dunque illogico e contraddittorio.

Parimenti incongrue, contraddittorie, illogiche erano le argomentazioni in ordine agli altri elementi dai quali sarebbe stata tratta la prova della partecipazione al reato associativo:

gli appunti sequestrati la sera dell’arresto di Fr.Fa. e nel corso della perquisizione a carico di Gr.Ti. come il contenuto delle intercettazioni effettuate non dimostravano altro, difatti, che l’esistenza di debiti, secondo gli stessi collaboratori dovuti all’acquisto di stupefacente destinato al ricorrente, con esclusione di una sua attività di spaccio.

Neppure i vaglia postali a favore di persone che risiedevano in Olanda e il noleggio di autovetture erano idonei a dimostrare la partecipazione all’associazione: ai primi essendo attribuito dagli stessi giudici di appello valore di aiuto prestato a favore di un singolo associato, delle vetture noleggiate mancando la prova di un uso a fini illeciti e, a maggior ragione, della consapevolezza del ricorrente della possibilità di un siffatto un uso.

Insomma, in mancanza della dimostrazione di un contributo apprezzabile e continuativo alla realizzazione degli scopi propri dell’associazione con la consapevole volontà di farne parte e di contribuire ai fini della stessa, il contributo occasionale prestato dal ricorrente, anche ove si fosse obiettivamente risolto favore del sodalizio, non sarebbe sufficiente per ritenere la partecipazione contestata.

6. I.A..

(nei suoi confronti la Corte d’assise d’appello ha confermato la condanna a otto anni e otto mesi di reclusione inflittagli, in concorso delle attenuanti generiche, in primo grado per i reati ai capi A, B, C).

6.1. La sentenza impugnata motiva richiamando le dichiarazioni di Ce.Fi. e di De.Si.Pi.; le conversazioni intercettate nelle quali era nominato come beneficiario degli assegni di mantenimento in carcere; il riscontro costituito da un vaglia ricevuto; gli appunti sequestrati a Gr.Ti. e a D.T. O., nei quali figurava per due volte il suo nome con l’indicazione 200; le dichiarazioni del Mo., sul fatto che sua moglie era stabile destinataria di 500 grammi di eroina ogni due settimane.

6.2. Ricorre a mezzo del difensore avvocato ****************** che chiede l’annullamento della sentenza impugnata.

6.2.1. Primo motivo.

Denunzia violazione di legge e vizio di motivazione in relazione al reato di associazione per delinquere finalizzata al traffico di stupefacenti.

Osserva che la Corte d’assise d’appello avrebbe ritenuto provata la partecipazione dello I. ad entrambi sodalizi sulla base delle dichiarazioni dei collaboratori di giustizia, che lo indicavano tra i destinatari dei vaglia di sostentamento da inviare durante il periodo di detenzione, di un’intercettazione telefonica intercorsa tra Ce. e ****** e delle dichiarazioni del Ce. stesso in ordine all’attività di spaccio praticata materialmente dall’imputato.

Ora, in realtà solo le dichiarazioni del Ce. collegavano l’attività del ricorrente al traffico di stupefacenti: la ricezione di vaglia durante la detenzione, pur potendo ritenersi probatoriamente tranquillizzante con riferimento al reato di cui all’art. 416 bis c.p., era del tutto irrilevante con riferimento ai reati in materia di stupefacenti; le dichiarazioni di Mo.

G. non erano autonome nè originali con riferimento a quelle di Ce.Fi., e non avevano capacità di riscontrare quelle di questo sia per tale ragione sia perchè nessun riferimento specifico facevano alla persona del ricorrente (il Mo. aveva parlato solo della moglie, con riferimento ad un’attività di cessione posta in essere in epoca successiva all’arresto dello I., quando i due si erano già separati); neppure potevano valere come elementi di riscontro gli appunti di Gr.Ti., dacchè si trattava di appunti non riferibili in via esclusiva al traffico di stupefacenti, ma alla complessiva gestione economica del sodalizio.

Conseguentemente, in assenza di idonei riscontri in ordine all’attività contestata al capo B, le dichiarazioni di Ce.

F. erano inidonee all’affermazione di responsabilità del ricorrente.

6. 2. 2. Secondo motivo.

Con riferimento al reato al capo C, si sostiene del tutto omessa la motivazione in ordine a singoli episodi di spaccio di stupefacenti, si evidenzia che la contestazione si riferirebbe genericamente ad una condotta continuata dall’anno 2000 al maggio 2003, mentre in tale periodo lo I. era stato libero solo da gennaio a maggio 2002.

Anche per tale reato le dichiarazioni di Ce.Fi. sarebbero conclusivamente prive di riscontri.

6.2.3. Terzo motivo.

Sempre con riferimento al reato al capo C, il ricorrente lamenta infine la completa mancanza di motivazione in ordine alla sussistenza dell’aggravante della quantità ingente: rileva in particolare che in nessuna parte della sentenza l’argomento è trattato e che neppure si poteva trarre utile argomento da quanto indicato nel capo imputazione (30 grammi di cocaina e 500 grammi di eroina ogni 20-30 giorni), tanto più in considerazione del principio che il quantitativo ingente deve essere valutato alla stregua della quantità di principio attivo.

7. *****

(nei suo confronti la Corte d’assise d’appello ha confermato la condanna a tre anni di reclusione per il reato al capo A) 7.1. La sentenza impugnata motiva richiamando le dichiarazioni di Ce.F. e di De.Si., le intercettazioni nelle quali compariva tra i destinatari dei vaglia di mantenimento e la documentazione acquisita sulla recezione di tali vaglia.

7.2. Ricorre a mezzo dell’avvocato *******************, che chiede l’annullamento della sentenza impugnata, deducendo contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione.

7.2.1. Lamenta che la Corte d’assise d’appello non ha risposto al gravame; che ha posto a base della conferma della condanna elementi incerti (generiche e non circostanziate accuse di De.Si.

P. e di Ce.Fi., che avevano potuto al più riferire notizia apprese de relato non tanto sul ricorrente quanto sul gruppo di suo fratello Le.An.); che restavano a carico del ricorrente le conversazioni telefoniche intercettate che però andavano lette unitamente al dato della ricezione di due vaglia postali (provenienti dal clan *******: nel senso che tale presunto riscontro esterno poteva bene essere spiegato con il fatto che era il fratello di Le.An., capo del gruppo "vernel"); che infine la Corte d’assise d’appello aveva irragionevolmente sminuito due prove rilevanti a favore e addirittura trasformato una di esse in prova a carico: la prima concerneva il fatto che Ce.Si., che dirigeva dal carcere di Lecce gli affiliati, divenuto collaboratore nulla aveva detto del ricorrente, pure detenuto nel medesimo carcere (illogicamente la Corte d’assise d’appello avrebbe valutato a discapito del ricorrente la circostanza che non l’aveva espressamente escluso); la seconda concerneva la lettera spedita da Le.An. a S.S., intestata ad L.A. ed indirizzata a Ro.Ma. per distogliere l’attenzione degli inquirenti, che, proprio per tale motivo, doveva dimostrare che L.A. era estraneo all’associazione, mentre del tutto illogicamente la Corte d’assise d’appello aveva ritenuto che essa dimostrasse la disponibilità del ricorrente verso l’associazione.

8. M.C..

(nei sui confronti la Corte d’assise d’appello ha confermato la condanna a due anni e otto mesi di reclusione per il reato di tentata estorsione ai danni di Fi.Gi. – capo F7, ex art. 56 c.p., art. 629 c.p., commi 1 e 2, art. 628 c.p., comma 3, nn. 1 e 3, D.L. n. 152 del 1991, art. 7).

8.1. La sentenza impugnata motiva ricordando che a base della ricostruzione dei fatti stavano le dichiarazioni della persona offesa Fi.Gi., che aveva sporto denunzia lo stesso giorno;

le dichiarazioni della sua collaboratrice; i riconoscimenti fotografici (sia del primo che della seconda nei confronti del M.); le intercettazioni. E osserva che l’episodio era stato realizzato con modalità tali da renderlo emblematico del metodo d’intimidazione mafioso adottato.

8.2. Ricorre a mezzo del difensore ********* dei **********, che chiede l’annullamento della sentenza impugnata svolgendo censure in relazione all’aggravante del D.L. n. 152 del 1991, art. 7 al mancato riconoscimento delle attenuanti generiche, al trattamento sanzionatorio nel suo complesso.

8.2.1. Primo motivo.

Denunzia violazione di legge e vizio di motivazione con riferimento alla sussistenza dell’aggravante della finalità e del metodo mafiosi, sostenendo che era stata evidenziata l’insussistenza del dolo di scopo, indispensabile ai fini di riconoscimento dell’aggravante in questione, che il ricorrente non figurava tra gli appartenenti al sodalizio mafioso in esame, che condotta e circostanze descritte non consentivano di ritenere dimostrata la consapevolezza di agire per finalità agevolative di un sodalizio mafioso; che la reazione della vittima avrebbe meritato ben altra considerazione sotto il profilo della valutazione dell’effettiva esistenza di un metodo mafioso; che era illogica l’affermazione secondo la quale era irrilevante che la parte lesa avesse reagito, visto che il fatto era rimasto tentato; che, invece, la reazione della vittima dimostrava l’insussistenza di timore e quindi di minaccia poste in essere con metodo mafioso; che dimostrava ulteriormente l’insussistenza dell’aggravante in capo al ricorrente il fatto che questo fosse rimasto estraneo alla seconda fase dell’attività delittuosa, trascurando la sentenza impugnata di considerare che se la condotta del M. fosse stata ispirata dall’intento di agevolare la ******************, sarebbe stato certamente coinvolto nella successiva fase dell’attentato ai danni dell’imprenditore; che era stato completamente trascurato il piano soggettivo della condotta, arbitrariamente estendendo l’aggravante a tutti coloro che avevano partecipato alla tentata estorsione.

8.2.2. Secondo motivo.

Si denunzia vizio di motivazione in ordine al mancato riconoscimento delle attenuanti generiche e alla commisurazione della pena.

Nell’ambito di tale motivo il ricorrente sostiene che la Corte d’assise d’appello di Lecce nel respingere le richieste contenute nei motivi d’appello avrebbe sostanzialmente riproposto le argomentazioni del primo giudice in relazione alle modalità di individuazione e di riconoscimento del M.; che la Corte d’appello non avrebbe in alcun modo motivato "la contestazione dei reati, irritualmente attribuiti a parere della difesa"; che il M. sarebbe stato "vittima" di tale contestazione solo perchè il giorno della tentata estorsione si trovava presso l’autosalone del Fi. insieme ad altri soggetti.

"Peraltro", prosegue ricorrente, in sentenza non sarebbe rintracciabile alcun argomento per l’esclusione delle circostanze attenuanti generiche, limitandosi la Corte d’assise d’appello a rimarcare che il primo giudice le avrebbe negate perchè il ricorrente non era incensurato.

Si denunzia infine che la "qualificazione e quantificazione della pena" non avrebbe occupato in alcun modo l’attenzione della Corte.

9. P.S..

(nei suo confronti la Corte d’assise d’appello ha confermato la condanna a quattro anni di reclusione per il reato al capo A).

9.1. La sentenza impugnata motiva richiamando le dichiarazioni di De.Si.Pi., di Ce.Fi., la conversazione 517 dell’11 marzo 2003, tra Ce.Fi. e Ma.Ma., e quella 53 del 30 aprile 2003, dalle quali il P. risultava tra i beneficiari dei vaglia postali, la sua ammissione d’essere chiamato fr. o sf. o fr..

9.2. Ricorre personalmente, chiedendo l’annullamento della sentenza impugnata.

Con motivo unico denunzia violazione dell’art. 416 bis c.p. e mancanza, contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione.

Assume che la sentenza impugnata s’è limitata a generiche e sibilline considerazioni apoditticamente recependo, nella sostanza, gli argomenti della sentenza di primo grado, così ripetendone i vizi e le lacune e fondando l’affermazione di responsabilità su mere presunzioni tratte dal racconto generico e contraddittorio dei collaboranti, dei quali non risultava misurata la specifica attendibilità e che risultavano privi di riscontri obiettivi (sia in ordine alla effettiva partecipazione del ricorrente al sodalizio sia al ruolo assunto e alla consapevolezza del fatto attribuitogli).

In particolare, infatti: ****** aveva affermato l’affiliazione del P. ad un determinato capo senza specificare il suo grado (e ruolo); mentre Ce. aveva individuato altra affiliazione e un ruolo ben preciso; sicchè v’era tra i due contrasto netto.

Quanto ai vaglia postali, essi non risultavano inviati dagli uffici postali indicati dal De.Si., sicchè non ne era sicura la provenienza nè le ragioni (e non costituivano riscontro).

La Corte d’assise d’appello non si sarebbe inoltre preoccupata di cercare e di dimostrare la condotta di partecipazione riferibile al ricorrente nell’ambito del sodalizio nè gli elementi capaci di integrare il reato contestato dal punto di vista oggettivo (e cioè la sua aggregazione a tale sodalizio e il contributo causale prestato) e soggettivo (e cioè la sua consapevolezza della esistenza e delle caratteristiche del sodalizio e la sua volontà di contribuire agli scopi dello stesso).

Sostenendo che non ricorrerebbero gli estremi della partecipazione secondo i principi affermati da S.U. n. 33748 del 12 luglio 2007 ovvero da sez. 5^, n. 36451 del 24.6.2004. 10. S.M..

(nei suo confronti la Corte d’assise d’appello ha confermato la dichiarazione di responsabilità per i reati ai capi A, B, C, nonchè ai capi S e S1 – omicidio di G.G. e connesse violazioni alla legge armi -, ma ha escluso l’aggravante dei motivi abietti per l’omicidio e ha ridotto la pena complessiva a diciotto anni di reclusione) 10.1. La sentenza impugnata motiva, per la parte che qui interessa (atteso l’ambito del ricorso), e cioè con riferimento all’omicidio, ponendo a base dell’affermazione di colpevolezza dello S.:

le dichiarazioni di Ce.Fi. – il quale aveva dato l’ordine (sostanzialmente per vendetta, a seguito della notizia che un rivale stava progettando il sequestro di una sua parente e un agguato ai suoi danni) di eseguire l’omicidio di G.F. a Lo.Pa. e Mo.Gi., i quali s’erano fatti poi aiutare dallo S., e che dopo l’uccisione, per errore, di G.G., aveva inviato un biglietto alla S., che s’era nascosto, perdonandolo -; le dichiarazioni di Pa.

A. – di riscontro al movente indicato dal Ce. -; le dichiarazioni di De.Si.Pi. – che aveva riferito della esecuzione quanto appreso da Lo. e Mo. -; le dichiarazioni del Mo. – che aveva personalmente contattato lo S. -; i riscontri (generici) acquisiti sui rapporti dello S. con i fratelli Sa., la cui casa, vicina a quella della vittima, era servita per l’agguato.

10.2. Ricorre a mezzo dell’avvocato ************, che chiede l’annullamento della sentenza impugnata articolando motivi solo con riferimento all’imputazione di concorso nell’omicidio di G. G..

10.2.1. Primo motivo.

Denunzia violazione di legge e mancanza, manifesta illogicità, contraddittorietà della motivazione, con riferimento all’affermazione della responsabilità dello S. nel fatto omicidiario assumendo che i giudici di merito avevano fatto grande confusione sulla tematica della circolarità della prova.

Sostiene, in particolare, che le fonti ( Ce., ****** e Mo.) non erano autonome e non potevano quindi costituire riscontro reciproco: la notizia della partecipazione del ricorrente all’omicidio provenendo in realtà esclusivamente dal Mo.

( Ce.Fi., nonostante fosse il mandante, aveva appreso del ruolo rivestito dal ricorrente dal Mo., e la sua "qualità" di mandante non mutava il fatto che si trattasse, comunque, di fonte "de relato"; nè risultava che avesse avuto colloqui, sul fatto, con altri diversi dal Mo.: l’espressione "non sembra" utilizzata dalla Corte d’assise d’appello essendo del tutto generica ed inidonea a dimostrare l’esistenza di colloqui con altri; ********* aveva riferito circostanze apprese soltanto da Mo.Gi. e del tutto priva di base fattuale era l’affermazione della Corte d’assise d’appello che il De.Si. avesse appreso i fatti riferiti "non sono da Mo. ma anche da Lo.", giacchè il De.

S. aveva sempre indicato solo il Mo. come sua fonte di conoscenza).

Sotto altro profilo deduce che la Corte d’assise d’appello sarebbe incorsa in grave errore allorchè aveva affermato che le lievi differenze dei racconti dei collaboranti non potevano comportare l’inattendibilità delle loro dichiarazioni: tali differenze investivano infatti la presenza o meno, sul luogo del delitto, quale concorrente, di Sa.St., collocato sulla scena del crimine dal De.Si., in contrasto con il Ce. ed il Mo..

Le differenze toccavano perciò il nucleo centrale del racconto, e cioè la fase esecutiva del delitto e i partecipanti ad essa.

Il fatto poi che ********* avesse collocato sul luogo del delitto, attribuendogli un ruolo specifico, anche Sa.

S., sostenendo che così gli avesse detto il Mo., mentre questo aveva categoricamente escluso la sua presenza fisica, dimostrava quanto assolutamente inaffidabili fossero le dichiarazioni de relato.

10.2.2. Secondo motivo.

Denunzia violazione di legge e vizio di motivazione con riferimento alla ritenuta sussistenza dell’aggravante della premeditazione.

Osserva che era del tutto inesatta l’affermazione contenuta nella sentenza impugnata (pagina 18) che l’esecuzione sarebbe stata "rinviata per più giorni", i tre collaboratori di giustizia avendo tutti concordemente affermato che il delitto, programmato per la sera di sabato 21 dicembre 2002 fu rinviato, per necessità contingenti (mancato rientro a casa della vittima) alla sera successiva:

l’omicidio era stato perciò ritardato solamente di poche ore e la circostanza era rilevante al fine di distinguere tra preordinazione e premeditazione.

Risultava inoltre che l’omicidio era stato deciso e commissionato da Ce. allorchè, trovandosi in Olanda, aveva saputo di un progetto di sequestro in danno di alcuni componenti della sua famiglia; ne era seguita una sua furiosa reazione ("rabbioso per quanto avevo ascoltato diedi subito incarico") con ordine perentorio di esecuzione ad horas del delitto: avvenuto a distanza di meno di 48 ore dall’avvenuta comunicazione della decisione.

Mancava dunque nella situazione descritta – si sostiene – ogni elemento idoneo a dimostrare l’esistenza di un "dolo di proposito" e di quel quid pluris, rispetto al tempo di normale riflessione e strettamente occorrente per approntare l’esecuzione del delitto, capace di fondare la circostanza della premeditazione (in tema di differenza tra preordinazione e premeditazione il ricorrente cita tra l’altro Cass. 4 giugno 1991, ********; Cass. 19 luglio 1979, **********; Cass. 9 marzo 1982, *******; Cass. 6 aprile 1987, Ciriedda; cassa. 7 ottobre 1987, *****).11. T.W..

(nei sui confronti la Corte d’assise d’appello ha rideterminato la pena in dieci anni di reclusione, previa conferma della dichiarazione di responsabilità per i reati ai capi A, B, C nonchè per l’estorsione al capo F6, ai danni di Pi.Fe. e G. V.; secondo il dispositivo letto in udienza e in calce alla sentenza impugnata l’imputato è stato assolto per il capo F8, risultando così confermata la condanna per il capo F7.

In motivazione la Corte ha tuttavia confermato la condanna per l’estorsione al capo F8, ai danni di Fe.Fa., assolvendolo dalla tentata estorsione al capo F7, ai danni di Fi.Gi.);

11.1. La sentenza impugnata motiva rilevando che il T. era uomo di Ma.Ma., luogotenente di Ce.Fi. che si occupava di tutti i traffici illeciti dell’organizzazione, e risultava a sua volta coinvolto in attività estorsive, attuate con metodi mafiosi e, direttamente in operazioni relative al traffico di stupefacenti, oltrechè permanentemente a disposizione del Ma. medesimo: i fatti a suo carico risultando inequivocabilmente dalle numerosi conversazioni telefoniche nelle quali appariva chiamato con il nome W. e/o il soprannome Pa. o Pa..

11.2. Ricorre a mezzo del difensore avvocato **************, che chiede l’annullamento della sentenza impugnata denunziando mancanza, contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione, violazione di legge e, in via preliminare, altresì l’estensione dei motivi d’impugnazione in rito e in diritto, non esclusivamente personali, dei coimputati.

Con motivo formalmente unico, articolato in più punti, si sostiene che la sentenza impugnata mancherebbe di motivazione con riferimento ai reati ai capi A, C e D, avrebbe motivato in maniera apparente in relazione ai capi F6, F7 e F8, sarebbe incorsa in violazione di legge per non avere risposto alle censure difensive e per non avere escluso le aggravanti, avrebbe illogicamente negato le circostanze attenuanti generiche e determinato la pena.

11.2.1. Si denunzia così, in particolare, che mancherebbe la motivazione e la dimostrazione della certa individuazione dell’imputato con il soggetto chiamato Pa. o Pa. a cui si fa riferimento nelle sentenze di merito, non essendo sufficiente l’indicazione del soprannome fornita dal ricorrente in sede d’interrogatorio, non potendosi escludere che altri avessero il medesimo soprannome, essendo apodittica l’affermazione della sua individuazione con tale soprannome contenuta nell’informativa dei R.O.S., non essendo il T. indicato da alcun collaboratore, non risultando a suo carico alcun elemento obiettivo (il servizio di osservazione del 24.4.2003 sarebbe inconferente perchè il T. non era stato riconosciuto, ma identificato in quanto ritenuto interlocutore del Ma. nella telefonata delle 18,12), non essendo sufficiente il nominativo W., comune a perlomeno altre tre persone (come risultava dalla telefonata 30.4.2003 dell’interlocutore del Ma.Ma.).

Si afferma che la sentenza impugnata ripeterebbe gli errori motivazionali del primo giudice; che non era dimostrata l’esistenza di un’autonoma, rispetto all’associazione di stampo mafioso, associazione per delinquere dedita al traffico di stupefacenti;

che non v’era alcuna motivazione sulla partecipazione a tali associazioni del T..

11.2.2. Il ricorrente ripercorre quindi – in linea subordinata – in singoli capitoli le censure articolate nei motivi d’appello, ai quali sostiene non sarebbe stata risposta, con riferimento:

– al capo A (si contestava in particolare che non era suffragata da prove l’affermazione del Giudice dell’udienza preliminare secondo cui T. "figurava senz’altro" tra i ragazzi del Gr., che vi fosse uno stabile rapporto tra Ma. e T., finalizzato ad attività illecite e con consapevole apporto del T. all’associazione mafiosa, che la motivazione della sentenza del Tribunale era autoreferenziale e tautologica);

– al capo B (il Giudice dell’udienza preliminare non aveva motivato sulla esistenza di un’autonoma associazione deputata al traffico di stupefacenti e aveva altresì tratto la convinzione del coinvolgimento in essa da alcune telefonate tra T. e Ma. dalle quale poteva al più arguirsi l’esistenza di recenti relazioni tra i due, di cui era a conoscenza il Gr.);

– al capo C (la maggior parte delle conversazioni intercettate aveva contenuto neutro ed indifferente, dall’unica inequivoca poteva al più desumersi l’esistenza di una singola cessione di "fumogeno", rilevante ai fini del D.P. R. n. 309 del 1990, art. 73, commi 4 e 5);

– al capo F6 (la sentenza appellata non considerava che il T. non conosceva le vittime e i rapporti con loro, il suo intervento era stato del tutto occasionale e la sua condotta irrilevante, essendosi limitato a prestare il suo telefonino al Ma.);

– al capo F8;

– alla contestazione dell’ingente quantità in relazione al capo C (mancava ogni prova del dato quantitativo e del valore ponderale dello stupefacente);

– alle aggravanti contestate ai capi F6, F1 e F8, (l’imputato non apparteneva ad alcuna associazione mafiosa e neppure aveva adottato alcun metodo mafioso) nonchè, in linea generale, alla possibilità di ravvisare l’aggravante del D.L. n. 152 del 1991, art. 7 per l’affermata sua incompatibilità con il reato associativo, e alla pena inflitta (in primo grado);

– al diniego delle attenuanti generiche prevalenti su aggravanti e recidiva nonchè all’aumento per la continuazione (il tutto in considerazione della giovane età, della inconsistenza dei precedenti penali, della scarsa intensità del dolo, e al fine di adeguare la pena ai fatti) e alla misura di sicurezza della libertà vigilata per tre anni (per ragioni analoghe a quelle esposte in relazione alla pena principale).

E afferma che la sentenza impugnata avrebbe nella sostanza omesso di rispondere alle censure, pur riportandole, pedissequamente richiamando le considerazioni svolte dal primo giudice senza specificamente analizzarle alla luce dei rilievi dell’appellante e senza considerare questi con riferimento a quelle.

12. V.P..

(nei sui confronti la Corte d’assise d’appello ha confermato la dichiarazione di responsabilità per il reato al capo A, riducendo la pena a due anni e otto mesi di reclusione).

12.1. La sentenza impugnata motiva richiamando le sostanzialmente concordi dichiarazioni di Vi.Fr., De.Si.Pi., Ce.Fi., nonchè i frequentissimi controlli di polizia, e rilevando che l’affiliazione e la permanente messa disposizione del gruppo era sufficiente ad integrare il reato di partecipazione contestato.

12.2. Ricorre a mezzo del difensore avvocato **************, che chiede l’annullamento della sentenza impugnata denunziando con motivo unico la nullità della sentenza per violazione di legge (degli artt. 125 e 192 c.p.p., art. 546 c.p.p., lett. e; art. 416 bis c.p.) nonchè per mancanza, illogicità e contraddittorietà della motivazione.

Lamenta che la sentenza impugnata non avrebbe dato risposta alle censure con le quali nell’atto d’appello s’era dedotto che il primo giudice non aveva fatto corretta applicazione della norma incriminatrice, non aveva equilibratamente valutato i risultati delle indagini, non ne aveva rilevato i contrasti e le contraddizioni.

Sostiene che gli elementi di prova non erano stati sottoposti ad adeguato vaglio; che la sentenza impugnata non aveva valutato l’attendibilità intrinseca dei pentiti e che non aveva esaustivamente motivato sull’esistenza di adeguati riscontri esterni;

che la sentenza mancava di passaggi fondamentali, non avendo dimostrato che i collaboratori non fossero incorsi in un errore di persona (visto che legavano, erroneamente, il ricorrente ed alcuni altri soggetti, presuntivamente affiliati); che non aveva fatto che ripetere, nella sostanza, gli argomenti del primo giudice, senza considerare le circostanze evidenziate dalla difesa, che indicavano la estraneità del ricorrente al reato (quali: la mancata percezione di rimesse o di vaglia da parte del ricorrente; il suo mancato arresto insieme con i giovani estorsori, come dichiarava De.Si.;

la circostanza che non poteva fungere da riscontro la conversazione intercorsa tra Ce.Fi. e Ma.Ma., riguardante l’arresto di tre giovani di (omissis)).

E proprio dal confronto tra il ragionamento probatorio seguito per il ricorrente e quello relativo alle altre posizioni processuali, emergeva il più vistoso dei vizi motivazionali nei quali era incorso il giudice del gravame (con riferimento, ad esempio, alle rimesse di denaro agli affiliati, la cui mancanza non era stata considerata circostanza in sè decisiva per il ricorrente).

In definitiva, non solo la fonte di prova principale, il De.Si., non aveva trovato riscontri, ma i risultati acquisiti la smentivano.

Mancava infine ogni dimostrazione dell’esistenza degli elementi costitutivi del reato di partecipazione ad associazione mafiosa, e cioè della condotta, del nesso di causalità, dell’evento, dell’elemento psicologico ed era errata, in diritto, l’affermazione secondo cui l’indicazione dell’appartenenza o dell’affiliazione si risolverebbe nella conferma di un inserimento nell’organizzazione mafiosa (mediante la messa a disposizione della propria opera) sufficiente ad integrare la partecipazione contestata: con ciò dandosi rilievo esclusivo ad una situazione, lo status di affiliato, che nulla indicava relativamente al ruolo, ai compiti, all’attività, alla funzione svolta nel contesto organizzato.

13. *****

(nei sui confronti la Corte d’assise d’appello ha confermato la dichiarazione di responsabilità per il reato al capo A, riducendo la pena a tre anni di reclusione).

13.1. La sentenza impugnata motiva ricordando che la prova della colpevolezza dello Z., quale uomo stabilmente a disposizione dell’organizzazione criminale, poggiava sulle dichiarazioni dei collaboratori Vi.Fr., Ma.Da., D.S. P., Ce.Fi., Mo.Pi. e dalla ricezione di un vaglia, nonchè dal fatto che lo Z. aveva confermato d’avere accompagnato il Ce. all’aeroporto.

13.2. Ricorre personalmente e chiede l’annullamento la sentenza impugnata denunziando con motivo unico violazione di legge (dell’art. 416 bis c.p.) nonchè mancanza, contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione.

Deduce che la Corte d’assise d’appello si sarebbe limitata a generiche e sibilline considerazioni sugli scarni indizi, piuttosto che riconoscere la mancanza di prova dell’appartenenza del ricorrente all’associazione mafiosa in esame.

In particolare, la Corte di merito, pur riconoscendo che il Ce. aveva negato una formale affiliazione del ricorrente, aveva inopinatamente dedotto il contrario traendo spunto da labili e inconsistenti informazioni degli altri collaboratori nonchè dalla circostanza relativa alla ricezione di vaglia (cita pagina 236 della sentenza impugnata) e illogicamente aveva ritenuto che la mancata partecipazione del ricorrente alla riunione di fine agosto 2002 a Porto Cesareo non era indicativa del non inserimento nel gruppo, ma al contrario di una sua partecipazione con mansioni minori, ingiustificatamente attribuendo a comportamenti quali il semplice accompagnamento in auto del Ce., e altri insignificanti gesti di amicizia (passaggio all’aeroporto, piccoli e non provati i favori pratici) fossero in se stessi sufficienti a dimostrare il ruolo di affiliato e il contributo causale, per quanto modesto, fornito alla consorteria.

Affetta dai medesimi vizi della sentenza di primo grado, la sentenza di secondo aveva tratto elementi di prova per il reato di cui all’art. 416 bis c.p. da quegli stessi elementi ritenuti insufficienti per i reati in materia di droga e apoditticamente aveva affermato che l’evidenziata contraddittorietà non sussisteva.

Oltre che sul contributo effettivamente prestato, la Corte d’assise d’appello aveva quindi omesso di motivare in ordine all’elemento soggettivo del reato (consapevolezza dell’esistenza del sodalizio in contestazione e del contributo ad esso prestato) nonchè sul collegamento esistente tra i singoli episodi nei quali sarebbe stato coinvolto il ricorrente e la fattispecie associativa.

DIRITTO

1. Ricorsi D.L..

1.1. Osserva il Collegio che dei motivi in rito sviluppati nei due ricorsi, il primo, comune – con il quale si rinnova la denunzia di nullità del giudizio abbreviato di primo grado per l’indebita riunione, a discussione iniziata, del procedimento a carico del D. L. a quello nei confronti degli altri – appare inammissibile.

Emerge dalle sentenze di merito che, chiesto e ammesso in udienza preliminare il giudizio abbreviato per buona parte degli imputati, acquisiti i documenti processuali cui era condizionata la richiesta di alcuni ed esperita l’attività di integrazione probatoria chiesta da altri (consistita nella audizione della persona offesa di una estorsione e nell’audizione di un verbalizzante sulla identificazione di tale Pe.), le udienze dei giorni 7, 9, 12 14 e 16 luglio, 17, 20, 22, 24 e 27 settembre, 1, 4, 11 e 18 ottobre erano state dedicate alla discussione; il 7 luglio era stata però disposta la separazione della posizione del D.L., in accoglimento della richiesta difensiva di accertare la sua capacità di partecipare al processo; il 20 luglio, acquisite le conclusioni peritali e ritenuta la capacità processuale del D.L., la sua posizione era stata riunita, con opposizione dei difensori, al giudizio abbreviato principale, nuovamente per lui concludendo il Pubblico ministero.

Deve condividersi perciò l’assunto difensivo che la riunione della posizione separata dalle altre, già in fase avanzata di discussione, non era rituale, non potendo affermarsi che i due tronconi processuali fossero nello stesso stato.

E’ pacifico tuttavia, e non è revocato in dubbio dalle difese, che nessuna nullità è prevista per la violazione delle regole degli artt. 17 e 18 c.p.p. (vedi per tutte Sez. 5^, n. 4173 del 22/02/1994, *******).

Il fatto che nessuna sanzione sia espressamente istituita per la violazione formale di dette regole non consente, è vero, di escludere, che la nullità potrebbe discendere da una violazione, in concreto, del diritto di difesa (comprensivo del diritto a contraddire quale aspetto del diritto dell’imputato ad intervenire, in senso lato, nel procedimento a suo carico), in forza del combinato disposto dell’art. 178 c.p.p., comma 1, lett. c), e art. 24 Cost.

(nel senso che ogni illegittima menomazione della facoltà dell’imputato di partecipare attivamente alle vicende processuali, risolvendosi nella violazione del diritto sancito dall’art. 24 Cost., comma 2, è capace di integrare la nullità di ordine generale sanzionata dall’art. 178 c.p.p., comma 1, lett. c), cfr., mutatis, C. cost. n. 148 del 2004).

Ma le doglianze del ricorrente sono a tale proposito generiche, giacchè alle enunciazioni in diritto non s’accompagna alcuna indicazione che dia ragione di una effettiva lesione delle facoltà difensive in vista e in funzione di un concreto e reale interesse ad ascoltare quanto detto con riferimento alla posizione dei singoli imputati per i quali la discussione s’era già svolta.

Nulla si dice infatti in ricorso sulla circostanza che tra le posizioni già trattate ve ne fosse effettivamente qualcuna rilevante, perchè connessa o per altra ragione (dal reato associativo essendo stato per altro il ricorrente assolto in secondo grado), per il D.L., quale fosse, perchè.

D’altronde è la stessa giurisprudenza della Corte EDU che sottolinea come essenziale al rispetto del contraddittorio sia la possibilità per ciascuna parte di conoscere le prospettazioni dei suoi "avversari" (sent. 22.2.1996, B. v. Austria; 27.10.1993 D.B. v. Paesi Bassi) o comunque di coloro che sono in grado di "influenzare" la decisione del giudicante con riferimento alla sua posizione (sent.

27.3.1998 K.D.B. v. paesi *****; 31.3.1998 R. v. Francia), e di interloquire rispetto ad esse.

Sicchè resta estranea a tale ambito, come a quello del rispetto sostanziale del diritto di difesa la cui violazione aspecificamente si denunzia, la facoltà di ascoltare e di assistere alla trattazione di posizioni ininfluenti rispetto alla propria.

E nel procedimento di cui si discute di posizioni del tutto autonome rispetto a quella del D.L. ve n’erano davvero molte.

1.2. Infondata è quindi la seconda doglianza in rito, sviluppata soltanto nel ricorso per avvocato ******, che attiene alla denunziata inutilizzabilità delle dichiarazioni rese il 25.11.2003 da Ce.

F. ad Ufficiali di Polizia giudiziaria, in spregio del disposto dell’art. 370 c.p.p., comma 1, che la facoltà di delega consente solamente nel caso di imputato libero.

La prevalente giurisprudenza di questa Corte (Sez. 6^, Sentenza n. 49156 del 25/11/2003, *********; n. 725 del 25/11/2003, *******), implicitamente criticata dal ricorrente, è nel senso che il raffronto di tale norma con l’art. 350 c.p.p. e art. 351 c.p.p., comma 1 bis da un lato, artt. 363 e 364, 374 e 375 c.p.p. dall’altro, consente d’escludere che la regola dell’art. 370 c.p.p. si applichi all’interrogatorio dell’imputato di reato connesso, anche quando questo verta su reati commessi in concorso con il dichiarante (ex art. 12 c.p.p., lett. a).

Quel che emerge dal complesso delle norme evocate, e che soprattutto conta nel caso in esame, è che quella istituita dall’art. 370 c.p.p., comma 1, è regola che vale nei confronti della "persona sottoposta alle indagini" allorchè partecipi ad interrogatori o confronti nel procedimento a suo carico.

Detta regola pacificamente non s’applica nei casi in cui l’imputato di reato connesso, anche ai sensi dell’art. 12, comma 1, lett. a), sia separatamente indagato (o, in ipotesi, risulti già giudicato), giusto il disposto, inequivoco, dell’art. 363 c.p.p. e art. 351 c.p.p., comma 1 bis, (a riprova, basterà considerare l’affatto diverso il tenore, ad esempio, dell’art. 141 bis c.p.p.).

E’ dunque regola, prudenziale, ad esclusiva garanzia dell’indagato.

Ne discende, la si ritenga o meno applicabile nel processo cumulativo, che la sua eventuale violazione non può comunque essere fatta valere dai terzi, alla cui tutela non è diretta, neppure nell’ipotesi che le dichiarazioni erga alios siano rese, nella fase delle indagini, nell’ambito di un procedimento che veda contemporaneamente indagato, per i medesimi fatti su cui vertono le dichiarazioni, anche il dichiarante assunto nella veste di imputato di reato connesso.

Il Pubblico ministero ha peraltro risentito il dichiarante, il quale ha confermato le sue precedenti dichiarazioni, senza che risultasse (o sia in concreto dimostrato) che vi fosse bisogno di singoli specifici chiarimenti o approfondimenti, che lo stesso dichiarante ben avrebbe potuto chiedere di rendere.

E non v’è davvero alcun motivo per ritenere irrituale tale rinnovazione dell’atto (non conferente, sul punto, è il richiamo a Cass. Sez., 1^, n. 42748 del 2003, **********, che in apparente ma non motivato contrasto con le decisioni prima richiamate affida il proprio decisum "soprattutto" al rilievo che v’era stata violazione del termine di cui al D.L. n. 8 del 1991, art. 16 quater, comma 9, conv. in L. n. 82 del 1991, inserito dalla L. 13 febbraio 2001, n. 45, art. 14) essendo alla sua validità sufficiente che la persona interrogata abbia confermato il contenuto di quanto in precedenza dichiarato, nella piena consapevolezza della natura e degli effetti dell’atto che andava compiendo (tra molte e per tutte: Sez. 1^, n. 24466 del 17/03/2006, Morfò; Sez. 1^, n. 46274 del 07/11/2007, ***** e ivi citate).

1.3. Fondate, per l’aspetto che si dirà, appaiono invece le censure sulla motivazione che sorregge l’affermazione di responsabilità in relazione al carattere disinteressato delle dichiarazioni dei fratelli Ce., dalle quali provengono gli unici elementi diretti d’accusa nei confronti del D.L..

La tesi della difesa, ampiamente argomentata, era che Ce.

F. nutriva rancore nei confronti dei D.L. e che aveva accusato falsamente il ricorrente per vendetta e per dare al fratello la possibilità di fornire contributi originali, convincendolo a fare il nome di D.L.S. e corroborando poi con ulteriori particolari le dichiarazioni di quello.

A sostegno, la difesa del ricorrente affermava che delle origini di tale rancore v’era traccia in atti, evocando la vicenda della cessione di una Jaguar (dal D.L. al Ce., in cambio di una Mercedes e di assegni postdatati tratti sul conto corrente di altro sodale, Pa.An.), reclamata indietro dal D. L. dopo che ****** era stato arrestato e Ce.

F. era divenuto latitante, ovvero il sospetto nutrito da ****** che l’arresto del fratello fosse stato determinato da una "soffiata" del D.L., nella cui casa questo era nascosto.

Manifestazioni inequivocabili della esistenza di tale rancore potevano in ogni caso cogliersi, sempre secondo le prospettazioni difensive, nelle circostanze che Ce.Fi. aveva disposto da latitante di far rimuovere dai locali di Lecce e Gallipoli i videogiochi prodotti dai D.L. e di risolvere i contratti di somministrazione del caffè da loro commercializzato, sostituendoli, come aveva ammesso lo stesso Ce., in tali attività con il Cu., avvicinato da uomini del Ce. ( De.Si. e Mo.); che tale attività era stata compiuta dai sodali del Ce. con minacce e intimidazioni; che i D.L. risultavano persone offese di episodi estorsivi contestati in altro procedimento a carico di tal c. e altri, per fatti commessi da personaggi pure legati al Ce. ( Cu.).

In appello, a supporto di tali tesi, avevano prodotto quindi anche uno stralcio delle dichiarazioni rese in dibattimento nel procedimento proseguito con il rito ordinario da Fr.Fa., che, parlando della fornitura di droga ad opera del " Fe." che lavorava per D.L., aveva espressamente escluso che la fornitura provenisse dal D.L. (i verbali integrali erano stati già acquisiti su richiesta del Procuratore generale e "dichiarati utilizzabili solo nei confronti degli imputati che avevano prestato il loro consenso": della qual cosa si dirà a proposito della posizione del Di.Sc.) e riferito del rancore di Ce. (per la sospetta "soffiata").

In risposta, la Corte d’assise d’appello non ha in radice escluso che l’esistenza di contrasti o rancori precedenti alla scelta dei Ce. di collaborare fosse irrilevante, potendo comunque affermarsi l’attendibilità delle dichiarazioni dei Ce. anche nei confronti del D.L..

Ha invece preso posizione sulla prospettata possibilità che detti rancori costituissero movente delle dichiarazioni accusatorie, negando resistenza stessa di rancori.

E a tal fine ha osservato:

(a) che non era ipotizzabile che il Ce., latitante ma potente all’estero, lasciasse correre un affronto (quello della chiesta restituzione della Jaguar) senza punire subito l’offensore e rinviando la vendetta ad una futura ed ipotetica collaborazione;

che la mancanza di una immediata esemplare punizione consentiva di affermare che non c’era stato risentimento per la vicenda della Jaguar e che il rapporto era stato consensualmente risolto;

che l’allontanamento successivo del Ce. dai D.L. era coerente con le nuove diverse esigenze del Ce.;

che la vicenda della rimozione dei videogiochi, ove intesa "in chiave non positiva" legittimava al più dei malumori di D.L. verso Ce. e non viceversa;

(b) che i fatti estorsivi riferiti non avevano costituito oggetto di accertamento nel presente processo e non erano assistiti da un accertamento irrevocabile in altro processo da utilizzare come prova;

che non risultava riguardassero uomini vicini al Ce., non potendosi considerare tale dopo il 2002 il Cu.;

che in ogni caso le vicende estorsive e le intimidazioni non si ponevano "certo nell’ottica di un risentimento del Ce. ma al contrario";

che le "continue vessazioni subite dal D.L., sottoposto a pratiche estorsive da parte di gruppi criminali", così come i dati emergenti dal procedimento di prevenzione, si riferivano a fatti che non coincidevano "temporalmente con il periodo di contiguità con Ce.", "contiguità … pienamente compatibile con precedenti o successivi periodi di difficoltà con le organizzazioni criminali del posto";

(c) che le vicende riferite avrebbero coinvolto anche i fratelli del ricorrente, non spiegandosi così le precise accuse solamente nei confronti di questo;

(d) che le dichiarazioni di Fr.Fa. dimostravano una scarsa conoscenza della vicenda riferibile al D.L., giacchè ne aveva sbagliato il nome, che costui non aveva parlato della Jaguar nè della rimozione dei videogiochi, ma solo del sospetto che il D. L. fosse la causa dell’arresto di Ce.Si., che comunque dalle sue stesse parole poteva arguirsi che il Ce. aveva desistito da ogni proposito di vendetta, avendolo lui così consigliato.

In tal modo effettivamente fornendo delle vicende rappresentate a sostegno della prospettazione difensiva una lettura non congruamente giustificata e spesso contraddittoria, complessivamente illogica.

Le affermazioni svolte lasciano infatti irrisolto il problema della esistenza, della riferibilità e del movente delle vessazioni (con irruzione nei locali dove si trovavano i video giochi e della loro distruzione) che il D.L. affermava subite dopo la vicenda della Jaguar: ipotizzando senza chiarirlo che la riduzione dell’area di attività dei D.L. fosse avvenuta invece incruentamente e potesse anche essere volta a loro vantaggio (l’affermazione in tal senso contenuta nella sentenza di primo grado era stata oggetto di severe critiche negli appelli); osservando che estorsioni e intimidazioni non apparivano riferibili al Ce. o a persone a lui vicine, senza indicare gli elementi fattuali in base ai quali poteva giungersi a tale conclusione; assumendo in particolare che dopo il 2002 il Cu. non si poteva in alcun modo considerare persona vicina al Ce., senza dare conto delle ragioni di tale decisa affermazione e nonostante la poco lineare alternanza dei rapporti tra i due altrove descritta; non correttamente considerando a sfavore del ricorrente il mancato completo accertamento, nel processo a suo carico, di fatti da questo a suo favore allegati e in parte confortati da documenti provenienti da altri giudizi (il rito prescelto non esimendo in alcun grado il giudicante dal dovere di verificare la fondatezza di prospettazioni difensive che appaiano rilevanti al fine del decidere e che siano supportate da un principio di prova o allegazione); dimenticando che anche del fratello del ricorrente il Ce. aveva, seppure più sfumatamente, parlato e omettendo di coordinare le proprie affermazioni (sull’implausibilità di precise accuse nei confronti del solo D.L.S.) con quelle del primo giudice in ordine al ruolo di "deus ex machina" riferito da Ce.Fi. a D.L.S. (p. 448 sent. Giudice dell’udienza preliminare); illogicamente assumendo che vessazioni e intimidazioni subite dal D.L. ad opera del Ce. potevano dimostrare un sentimento d’odio della vittima e non dell’aggressore.

In conclusione, la prospettazione difensiva secondo cui era appunto la vicenda della rimozione dei videogiochi e della interruzione del rapporto di somministrazione (violentemente imposti a quanto si dice) a dimostrare l’esistenza di una reazione del Ce. all’affronto ricevuto e dunque di un suo rancore non sopito, non considerata irrilevante, non è adeguatamente smentita.

A fronte di tale carenza, e mancando chiamate esterne o riscontri oggettivi individualizzanti riferibili agli specifici episodi delittuosi, non vale ad escludere ex se valenza al tema difensivo la circostanza che le dichiarazioni accusatorie nei confronti del ricorrente provenissero da entrambi i fratelli Ce., vuoi perchè non risulta escluso che il risentimento dell’uno fosse comune all’altro (gli episodi da cui esso traeva assertivamente origine apparendo al contrario ricostruiti come coinvolgenti anche Ce.

S.) vuoi perchè l’ipotesi dell’esistenza di una intesa tra i due fratelli, mediata attraverso i familiari e perciò di massima, pur ritenuta altamente improbabile, non risulta però positivamente e convincentemente negata.

L’argomento che suggella l’opinione espressa in proposito dalla Corte d’assise d’appello – che il "preventivo concerto" era smentito proprio dalla "disamina dei tempi e modi della collaborazione e dei suoi contenuti", giacchè non si poteva sostenere "che i due collaboratori avessero concertato con una tale raffinata coordinazione una falsa accusa, per poi banalmente cadere in una serie di contraddizione o di "timidezza" dell’accusa, del tutto inspiegabili" (p. 118) – non apparendo in realtà affatto dirimente ove si consideri che l’ipotesi prospettata dall’appellante era che i due fratelli avevano tenuto contatti, non direttamente tra loro ed esplicitamente, ma attraverso i familiari, dai quali entrambi, nel lasso di tempo che interessa, potevano essere raggiunti (ipotesi che la Corte mai esclude espressamente e pare anzi addirittura ammettere – cfr. p. 117, in fondo al par. 14.8.4.3 -) in astratto perciò per nulla incompatibile con una non perfetta coincidenza delle versioni dei due.

La sentenza impugnata va per l’effetto annullata nei confronti del D.L. con rinvio per nuovo esame alla Corte d’assise d’appello di Lecce sui punti evidenziati, assorbenti allo stato le altre censure.

2. Ricorso I..

Il primo e il secondo motivo di ricorso, che attengono all’affermazione di responsabilità appaiono infondati.

La Corte d’appello ha del tutto congruamente osservato infatti che la prova dei reati contestati si traeva dalle dichiarazioni di Ce.

F. – il quale aveva specificamente indicato il ricorrente, già affiliato ad D.V.A. e poi a Le.Gi., come persona successivamente entrata nel sodalizio da lui capeggiato, deputata a ricevere lo stupefacente dal sodalizio egemone e spuntare prezzi migliori, specificando che operava nei pressi del ponte di San Cesario e, da detenuto, tramite sua moglie, acquistando circa 30 grammi di cocaina e 500 grammi di eroina al mese -, confortate da quelle di De.Si.Pi. – che l’aveva indicato tra i sodali destinatari dei vaglia postali di sostentamento -, a loro volta riscontrate dalle conversazioni intercettate – dalle quali pure lo I. risultava tra i beneficiari degli assegni di mantenimento in carcere – e dal rinvenimento di un vaglia da lui ricevuto; nonchè dagli appunti sequestrati a Gr.Ti. e a D.T.O., nei quali figurava due volte con l’apposizione di cifre all’evidenza riferibili a suoi acquisti e suoi debiti per il traffico di stupefacenti e dalle dichiarazioni del Mo., il quale aveva riferito che durante la sua detenzione spacciava la moglie, stabile destinataria di 500 grammi di eroina ogni due settimane.

E la motivazione è esauriente e plausibile in fatto, corretta in diritto, attingendo gli elementi di riscontro indicati gli specifici fatti addebitati al ricorrente.

Nè la riferibilità degli appunti del Gr. a contabilità d’altro tipo era stato oggetto di deduzione nei motivi d’appello, sicchè non può per la prima volta in questa sede contestarsi l’interpretazione che ne è stata data dai giudici di merito.

Appare invece fondato il terzo motivo, giacchè nel rispondere alle censure e nel valutare la congruità del giudizio di equivalenza delle attenuanti generiche, la Corte d’appello non ha in alcun modo motivato in ordine all’aggravante del quantitativo ingente, la cui sussistenza non emerge inequivocabilmente nè dalla descrizione del fatto in imputazione nè, implicitamente, da quanto riportato nelle sentenze di merito o riferito dai dichiaranti in relazione ai singoli acquisti o alle singole attività di spaccio a lui riferibili.

Nei confronti dello I. la sentenza impugnata deve dunque essere annullata con rinvio per nuovo esame ad altra sezione della Corte d’assise d’appello di Lecce limitatamente alla sussistenza dell’aggravante di cui al D.P.R. n. 309 del 1990, art. 80 contestata al capo C. Per il resto il ricorso non può che essere rigettato.

3. Ricorso C..

I motivi di ricorso in punto di affermazione di responsabilità replicano prospettazioni difensive che attengono alla valutazione del materiale probatorio, in larga parte riproduttive di censure alle quali è stata già data risposta o meramente confutative, e che appaiono comunque infondate avendo la Corte d’assise d’appello adeguatamente giustificato la propria decisione.

In particolare, quanto all’imputazione di partecipazione all’associazione di stampo mafioso, la Corte d’assise d’appello ha difatti esaurientemente osservato: – che a carico del C. stavano le dichiarazioni, già ricordate dal Giudice dell’udienza preliminare, di ****** (il gruppo di Greco aveva aderito a quello del ******* nella riunione del 31.8.2002, alcuni appartenenti al gruppo, non presenti alla riunione, tra i quali C., formalizzarono la loro affiliazione in seguito "o comunque entrarono automaticamente nel sodalizio in quanto ragazzi dello stesso Greco"), di Ce.F. ( C. era affiliato al gruppo Greco, dedito al traffico di stupefacenti, ed era stato formalmente affiliato al clan del ******* attraverso Ma.Ma. nel dicembre 2002, successivamente agli altri), di Mo. (nella riunione di agosto C. non era stato presente ma era entrato formalmente nel clan ******* in epoca successiva) e di Vi. ( C. aveva affiliato in carcere L.A. ed era successivamente passato al gruppo *******);

– che era irrilevante che il C. non fosse presente alla riunione dell’agosto 2002, risultando da più fonti indicato come successivamente formalmente affiliato.

Ha quindi adeguatamente e plausibilmente risposto alle deduzioni difensive rilevando:- che le dichiarazioni del De.Si., imprecise solo sulla data di tale affiliazione formale, erano dirette e sicure sul fatto, unico rilevante, della affiliazione; – che le dichiarazioni del Vi. erano effettivamente generiche e d’indiretta apprensione, ma v’erano le dichiarazioni degli altri ( Mo., ****** e *****), al cui riscontro portavano comunque ausilio; – che la circostanza che il Gr. non avesse parlato del C. non era significativa, perchè costui s’era nella sostanza limitato ad ammettere le sue responsabilità, tentando comunque di sminuire il proprio ruolo, sicchè le sue dichiarazioni non avevano portato reali contributi di conoscenza, soprattutto con riguardo alla posizione dei suoi uomini.

Con riferimento all’imputazione di partecipazione all’associazione dedita al traffico di stupefacenti (capo B), ha quindi rilevato: – che sia Mo. che Ce.F. avevano parlato di una costante e risalente attività del C. nel settore degli stupefacenti (in genere, e secondo il Ce. essendo il C. dedito essenzialmente allo spaccio di eroina);

– che la circostanza che il Mo. non avesse mai personalmente fornito eroina al C. e che non sapesse se l’aveva presa da altri componenti del clan delle Vele, non era risolutiva, giacchè le sue dichiarazioni andavano coordinate con quelle del Ce., il quale aveva riferito che in un primo momento riforniva i singoli affiliati del Gr., successivamente aveva preso però a rifornire il Gr. stesso, che smistava lo stupefacente tra i suoi uomini;

– che ****** e Vi. avevano confermato che nel periodo pregresso il C. era dedito allo smercio di stupefacenti, attività prevalente del gruppo.

Per il capo C) ha infine logicamente ritenuto che sulla base degli stessi elementi poteva affermarsi che il C., entrato assieme a Gr. e ai suoi nel gruppo di *******, perchè costui voleva avere l’esclusiva anche del settore stupefacenti, aveva da intraneo continuato in tale attività.

I dati probatori su cui si fonda l’affermazione di responsabilità appaiono insomma esaurienti, congruamente esposti, correttamente e plausibilmente valutati.

Anche per il C. risulta invece completamente omessa ogni considerazione sull’aggravante dell’ingente quantità contestata al capo C), in relazione alla quale neppure una parola è spesa nella sentenza impugnata e che sembra ignorata anche nella sentenza di primo grado.

Anche nei confronti del C. la sentenza impugnata deve dunque essere annullata con rinvio per nuovo esame ad altra sezione della Corte d’assise d’appello di Lecce limitatamente alla sussistenza dell’aggravante di cui al D.P.R. n. 309 del 1990, art. 80 contestata al capo C. Mentre per il resto il ricorso va rigettato.

4. Ricorso T..

4.1. Come anticipato sopra, in fatto (punto 12) sulla base del dispositivo letto in udienza e riportato in calce alla sentenza impugnata il T. risulta assolto dalla estorsione ai danni di Fe.Fa. contestatagli al capo F8), apparendo così confermata la condanna per il capo F7), oltre per i reati ai capi A, B, C nonchè per l’estorsione al capo F6.

In motivazione la Corte ha tuttavia ampiamente illustrato le ragioni per le quali andava confermata la condanna per l’estorsione al capo F8 (p. 42 s.), motivando nel senso che il T. andava invece assolto dalla tentata estorsione al capo F7, ai danni di Fi.

G. (p. 35 s.), conformemente del resto alla richiesta del Procuratore generale riportata nella premessa in fatto della sentenza stessa.

L’assoluzione per il capo F8) formalmente pronunziata in udienza, non è dunque sorretta da motivazione conforme, ma il vizio è insindacabile in assenza di gravame del Pubblico ministero, e il proscioglimento per tale capo deve ritenersi intangibile.

La conferma della sentenza di condanna per la tentata estorsione al capo F7) pronunziata in udienza è invece sorretta da una motivazione che nega la sussistenza di elementi sufficienti all’affermazione di responsabilità e che conclude per l’assoluzione del T. per non avere commesso il fatto, affermando che la censura principale degli appellanti è fondata e che non vi sono elementi sufficienti per identificare nell’imputato la persona che avrebbe commesso il fatto chiamato solo con le iniziali "Va".

Il vizio, macroscopico, non può che comportare l’annullamento senza rinvio nei confronti di T. della sentenza impugnata limitatamente al capo F7, per non avere egli commesso il fatto, con eliminazione della pena per tale imputazione inflitta a titolo di continuazione, pari ad otto mesi di reclusione.

4.2. Per il resto il ricorso del T. va rigettato.

Motivo che tocca tutte le imputazioni è quello che attiene alla identificazione del ricorrente con l’individuo chiamato Pa. o Pa. al quale risultavano riferite le conversazioni intercettate che fornivano base probatoria all’affermazione di responsabilità del ricorrente per tutti i fatti ascrittigli.

Le ulteriori censure risolvendosi nella affermazione che il giudice di secondo grado non avrebbe risposto ai motivi d’appello.

Ma la sentenza impugnata dettagliatamente e congruamente illustra le ragioni della certa identificazione del Pa. o Pa. con il ricorrente, osservando che la prova che " Pa." fosse il soprannome del T. riposava oltre che su quanto riferito nell’informativa di reato (sicuramente utilizzabile), sulle dichiarazioni e ammissioni fatte dallo stesso ricorrente nel corso dell’interrogatorio di garanzia nonchè sulla circostanza che in alcune telefonate ricorreva contestualmente o in logica successione il nome W. e il soprannome " Pa." (cosa che consentiva di superare anche il dubbio prospettato nell’appello con riferimento alla presenza di più persone a nome W., giacchè solo uno di essi era anche Pa.);

sul rilievo, infine, che, soprattutto in alcuni ambienti, il soprannome non è suscettibile di omonimia.

E siffatti argomenti, sostenuti da una lettura logicamente univoca dei dati acquisiti, qui insindacabile perchè attiene al merito, non risultano neppure specificamente contestati.

Altrettanto adeguata è l’illustrazione e la valutazione degli elementi posti a base dell’affermazione di responsabilità per i singoli reati ed esauriente è la risposta alle doglianze sviluppate nei motivi d’appello.

Secondo la sentenza impugnata con riferimento ai reati ai capi A), B) e C), la responsabilità del T. risultava difatti dalle dichiarazioni di Ce.Fi. e da quanto emergeva da numerose intercettazioni telefoniche (del 10.3.2003 nella quale ci si preoccupava di latitanti nascosti, del 16.4.2003, del 23.4.2003 e del 24.4.2003 inequivocabilmente collegabili al traffico di stupefacenti).

Plausibili sono quindi le considerazioni secondo cui – certa l’esistenza di una associazione di stampo mafioso che si occupava anche di traffici di stupefacenti, ai cui vertici stava Ce.

F., succeduto a To.Da. – era altresì dimostrato che affiliato a detta organizzazione fosse Ma.Ma., (divenuto luogotenente del Ce. per il (omissis), mantenendo tale ruolo anche con Fr.Fa. che gli era succeduto) il quale si occupava di tutte le attività illecite (narcotraffico, estorsioni, intimidazioni, connessi regolamenti di conti), e che uomo del Ma. fosse il T., ciò risultando dal suo coinvolgimento come uomo di fiducia e come incaricato di questo nei vari episodi esaminati (e non intacca la validità di tale giudizio di fatto la formale assoluzione dal capo F8);

che era implausibile che il Ma. avesse affidato quegli incarichi a persona estranea;

che gli interlocutori delle conversazioni intercettate davano per scontato l’intervento di Pa. – T., il quale mai chiedeva spiegazioni per gli interventi richiesti;

che la pluralità, il tipo di interventi, le modalità delle richieste rivolte al T. consentivano dunque di affermare che era pienamente inserito nel suo gruppo per tutte le attività da esso espletate.

E adeguate appaiono le risposte secondo cui a diversa conclusione non potevano condurre gli argomenti difensivi, giacchè le dichiarazioni del Ce. erano utili per confermare che Ma. aveva suoi uomini, mentre proprio la puntualizzazione che il Ce. non conoscesse gli uomini del Ma. rendeva plausibile e non interpretabile come elemento a favore del ricorrente la mancata specifica indicazione del T.;

il fatto, poi, che questi fosse un collaboratore di grado "non elevato" del Ma. giustificava il fatto che nessuno degli altri collaboratori lo avesse nominato; la sua costante disponibilità (il fatto che fosse sempre a "disposizione") contribuiva infine, assieme alla implicazione in specifici episodi delittuosi, a dimostrare la sua partecipazione al sodalizio;

Quanto al reato di cui al D.P.R. n. 309 del 1990, art. 73 plausibilmente è stato osservato che le telefonate fornivano esaurienti elementi di prova di episodi riferibili a tale imputazione e che, d’altro canto, il complesso dei dati processuali dimostrava l’esistenza di un flusso continuo di stupefacenti trattati dall’organizzazione, sicchè la prova che il ricorrente aveva partecipato a specifici traffici confortava quella relativa alla partecipazione, in genere, alle operazioni della organizzazione;

che la sussistenza dell’aggravante del quantitativo ingente poteva trarsi dal rilievo che l’organizzazione aveva trattato pressochè quotidianamente quantitativi rilevanti di cocaina e di eroina (i vari collaboratori, a partire dal Ce. stesso, avevano riferito di frequenti approvvigionamenti nell’ordine di chilogrammi di stupefacente: si era parlato dell’approvvigionamento ad Pe.

O. e de.Ma. nell’ordine di un chilo al mese di cocaina; risultava un trasporto dall’Olanda tramite Fi.

M. di 5 chili; v’era stato un invio ad opera del Ce. dall’Olanda in Italia di 6 chili di cocaina e proprio l’arresto del corriere in Germania aveva determinato sospetti nei confronti del Ce.; in tale ambito si inserivano le conversazioni tra il Ce. e Cu.Co., invitato a restituire 10 chili di eroina e due di cocaina, che aveva ricevuto ed aveva; in data 21 novembre 2001 i Carabinieri avevano sequestrato nell’abitazione di Fr.Fa. 1,165 chili di eroina ed altro; le cifre trattate con riferimento all’episodio di Ra. il marocchino apparivano infine inequivocabilmente riferibili a quantitativi davvero ingenti) e dal fatto che in tale contesto operativo era pienamente coinvolto, con ruolo di spicco il luogotenente di Ce., Ma.Ma. che si serviva dei suoi uomini, tra i quali il T. (deduzione confermata dalle intercettazioni relative, ad esempio, all’episodio di Ra. il marocchino).

Con riferimento infine al reato al capo F6), la Corte d’assise d’appello ha evidenziato, al fine di inquadrare l’episodio, che era sostanzialmente coevo alla vicenda estorsiva ai danni del negozio "(omissis)" (capo F5) e che risultava dagli atti che Ma. ed altri soggetti avevano in quell’arco temporale costretto alcuni commercianti del posto ad accettare assegni di conto corrente, senza alcuna certezza di provenienza, cambiandoli con denaro in contante, pressati dalle minacce ricevute ed essendosi il Ma. espressamente accreditato come appartenente al mondo della malavita;

che la prova della partecipazione del T. al fatto specifico poteva trarsi dalle telefonate che si erano succedute tra il Ma., Gr.Ma., e T.W. (con relative istruzioni su come portare a termine l’operazione e le minacce da adoperare; veemente reazione del Ma. alla notizia di una riunione di commercianti; spedizione sul posto del ricorrente), dalle dichiarazioni delle persone offese, nei limiti della loro riluttanza.

Corretta è infine l’affermazione – a sostegno altresì della ricorrenza delle aggravanti contestate e del rigetto delle osservazioni difensive – che anche il fatto al capo F6 era emblematico del modo d’agire, mafioso, utilizzato, e che il ricorrente era stato mandato ed era andato senza spiegazioni, agendo in un contesto intimidatorio di assoluta evidenza; che era perciò assolutamente implausibile la prospettazione che il T. si trovasse casualmente sul posto, tanto più alla luce degli altri episodi in cui risultava coinvolto e di una lettura collegata degli stessi.

5. Ricorso Di.Sc..

5.1. La posizione di Di.Sc.Fe. è l’unica collegata a quella del D.L. (punto 1).

La sentenza impugnata motiva richiamando gli elementi di prova indicati per il coimputato ed evidenzia gli ulteriori elementi acquisiti che lo riguardano e che confermano la attendibilità delle dichiarazioni dei fratelli Ce. nei suoi confronti.

Il ricorso ripropone per la buona parte gli stessi temi di quelli del coimputato.

La situazione del Di.Sc. è però radicalmente diversa e le sue doglianze non possono che essere, nel complesso, dichiarate infondate.

Infondata, in particolare e soprattutto, è la affermazione che il ricorrente sarebbe attinto dalle sole dichiarazioni dei fratelli Ce..

Di lui ha parlato, e con dovizia, anche Fr.Fa., e le dichiarazioni del Fr. – riportate dalla Corte d’assise d’appello trattando della posizione D.L. e richiamate con quant’altro detto a proposito di questo trattando del Di.Sc. – sono sicuramente rilevanti, giacchè secondo la sentenza impugnata il Fr. ha riferito di una fornitura di droga ricevuta da D. S.F. (p. 125), dipendente del D.L. (del quale sbaglia il nome ma che individua chiaramente secondo la Corte d’assise d’appello), fornendo descrizioni della persona anziana che lavorava dai D.L. di cui stava parlando (p. 127) e della sua casa di (omissis) dove s’era recato a ritirare (la seconda volta) la droga (p. 128), che la sentenza impugnata ha senza dubbi riferito al Di.Sc..

Il ricorrente mostra di ignorare tali dichiarazioni, che pure erano state ritualmente prodotte nel giudizio d’appello, prima dal Procuratore generale e poi versate per stralci in atti, in sede di discussione, dalla difesa del D.L..

E’ vero che la sentenza impugnata riferisce che la produzione del Procuratore generale era stata dichiarata utilizzabile "solo nei confronti degli imputati che avevano prestato il loro consenso" (e così risulta dai verbali) senza precisare se la difesa Di.Sc. s’era opposta alla produzione del Procuratore generale o a quella del coimputato.

Tale immotivata declaratoria di utilizzabilità "condizionata", è tuttavia errata e non può produrre effetti preclusivi.

La Corte d’assise d’appello, che non ha richiamato le norme cui pensava di rifarsi, deve all’evidenza avere ritenuto l’ipotesi dell’art. 238 c.p.p., comma 4, non spiegandosi altrimenti la esclusione della utilizzabilità per gli imputati non consenzienti dei verbali prodotti dal Procuratore generale, relativi a dichiarazioni dibattimentali rese in altro procedimento dal coimputato separatamente giudicato.

Ma ha – altrettanto evidentemente – dimenticato che procedeva ad appello a seguito di giudizio abbreviato, nel quale la regola dell’art. 238 c.p.p., comma 4 non vale, avendo con la richiesta del rito alternativo l’imputato rinunziato ad esercitare il suo diritto al contraddittorio e accettato il rischio di una attività d’integrazione probatoria, quale contropartita appunto della eliminazione d’ogni ostacolo collegato alla eventuale incompletezza delle indagini.

E’ approdo consolidato che nel giudizio abbreviato al giudice di appello sia consentito acquisire i mezzi di prova sollecitati dalle parti e ritenuti necessari per l’accertamento dei fatti che formano oggetto della decisione (così, anche quando tale potere non era in alcun modo riconosciuto in primo grado, evocando il disposto dell’art. 603 c.p.p., comma 3, S.U., n. 930 del 13.12.1995, ******; e nel sistema introdotto dalla L. n. 479 del 1999 da ultimo e per tutte, lucidamente richiamando l’art. 441, comma 5, applicabile anche in appello: Sez. 5^, n. 19388 del 09/05/2006, Biondo; nonchè, ancora ai sensi dell’art. 603 c.p.p., Sez. 3^, n. 11100 del 29/01/2008, *******; Sez. 1, n. 13756 del 24/01/2008, *****).

La natura unitaria del giudizio di appello, che riguardava tutti gli imputati in esso coinvolti, sicuramente consentiva d’altro canto la utilizzazione delle prove prodotte da una parte e ritualmente acquisite, nei confronti degli altri appellanti (cfr. Sez. 6^, sent. n. 2315 del 21.11.1997, dep. 23.2.1998, Guida, che esprime principi che non v’è ragione di non applicare al giudizio abbreviato d’appello), salva ovviamente la facoltà di costoro di chiedere o sollecitare una controprova o prova contraria, previa concessione di eventuali adeguati termini a difesa (v., in linea generale, C. cost., sent. n. 203 del 1992).

Nulla impediva perciò alla Corte d’assise d’appello di considerare quanto ritualmente prodotto dalle altre parti e acquisito al fascicolo del procedimento a carico del Di.Sc., a prescindere dal suo "consenso" e dalla fase in cui tale produzione è avvenuta, non risultando e non essendo stato dedotto che il ricorrente avesse chiesto un termine per articolare sue contro-richieste e che tale facoltà gli fosse stata negata.

E nulla impedisce di riferire anche al Di.Sc. la esposizione delle dichiarazioni del Fr. contenuta nella parte della sentenza impugnata che tratta del D.L., senza eccezioni richiamata per il Di.Sc..

Manifestamente infondate appaiono, di conseguenza, quando non generiche o interamente di fatto, le ulteriori doglianze sviluppate nel primo motivo del ricorso del Di.Sc..

Le dichiarazioni del Fr. confermano difatti la attendibilità, in relazione alla specifica posizione del ricorrente, della accuse dei fratelli Ce., tanto più considerandosi che i motivi di astio prospettati dal D.L. e richiamati dal Di.Sc. non lo riguardano; quelli asseritamente specifici nutriti nei suoi confronti non risultano seriamente dimostrati; nessun sospetto (di rancore o d’altro) è allegato con riferimento al Fr.; anche ove le dichiarazioni dei due fratelli Ce. fosse "circolari" (ma plausibilmente la sentenza impugnata lo esclude evidenziando il diverso ruolo avuto dai due e la conseguente diversità di dettagli sull’attività materialmente riferita al Di.Sc.) le stesse sarebbero validamente sostenute (ex art. 192 c.p.p., comma 3) dal riscontro specifico e individualizzante fornito dal Fr.;

nessuno dei tentativi di confutazione o delle ipotesi alternative sviluppate in ricorso è stato accantonato nella sentenza impugnata e a tutti risulta data risposta adeguata.

5.2. Manifestamente infondato è quindi il secondo motivo, con il quale si denunzia la violazione del D.P.R. n. 309 del 1990, art. 80 cpv. e il vizio di motivazione sostenendosi che non poteva essere valutato il solo dato ponderale assoluto e che due o tre forniture di un chilo – un chilo e mezzo ciascuna non costituivano quantità ingente in rapporto al "mercato" del (omissis).

E’ infatti principio oramai consolidato che a parametro della quantità ingente, capace d’integrare l’aggravante in esame, bene è assumibile il solo dato ponderale: sia per la sua incidenza sul bene protetto, che essendo quello della salute, va considerato in assoluto e non può essere relativizzato (discendendo la ragione dell’aggravamento sanzionatorio dalla idoneità della sostanza trattata a soddisfare, per un notevole periodo di tempo, le esigenze di un numero elevato di tossicodipendenti, il medesimo quantitativo non ha minore carica lesiva perchè in una data zona vi sono molti più assuntori); sia perchè, come si ripete, la domanda di mercato costituisce elemento di difficile accertamento, considerata l’impossibilità di disporre al riguardo di dati certi e verificabili in concreto (da ultimo, tra veramente molte, v. Sez. 6^, n. 10384 del 23/01/2008, *******).

5.3. Generico e attinente a valutazioni di merito è infine il terzo motivo, con il quale si contesta l’adeguatezza del trattamento sanzionatorio – che la Corte d’assise d’appello ha invece correttamente giustificato, argomentando in base alla gravità dei fatti – senza addurre alcuno specifico e decisivo elemento non valutato, capace di condurre a un diverso apprezzamento, i precedenti dell’imputato risultando dalla recidiva originariamente contestata.

6. Ricorso F..

Comuni ai motivi di ricorso svolti dalla difesa del F. con riferimento ai singoli capi d’accusa (A, B, C, F5), sono le doglianze relative alla identificazione del ricorrente con il Vi. di cui parla Ce.Fi. e che intrattiene conversazioni telefoniche con il Ma. parlando in particolare dell’estorsione al capo F5 e di incontri nei quali si deve discutere del rispetto alle direttive del Ce..

Si tratta tuttavia di doglianze infondate, giacchè la identificazione del F. con quel tale Vi. che compare nelle telefonate è adeguatamente giustificata dalla Corte d’appello, la quale ha osservato che essa discendeva dall’ammissione del ricorrente, resa durante l’interrogatorio di garanzia (plausibilmente interpretato), di essere il personaggio a nome Vi. che conversava con Ma.Ma. nella telefonata 573 delle ore 23 del giorno 11 marzo 2003, ammettendo che forse quello aveva il suo numero perchè aveva acquistato cocaina da lui anche se, assertivamente, per suo uso personale; dal raccordo di tale telefonata (nella quale il Ma. illustrava a Vi. le decisioni del Ce.) con le precedenti, e in particolare con quella delle ore 21,49 tra Ce. e Ma., nella quale il Ce. chiedeva al secondo di indire una riunione per il giorno successivo con i ragazzi per avvertirli che chi non avesse rispettato le sue direttive sarebbe stato ucciso, nonchè con l’altra, ancora precedente, delle 17,22 in relazione alla quale Ce.Fi. aveva chiarito che il Vi. di cui si parlava era la persona che aveva già detto essere uno degli affiliati di ****** (detto gi.) e abile spacciatore in (omissis); dall’arresto del F. il 15 maggio 2003 in possesso di grammi 100 di cocaina, come aveva detto Ce.; da una telefonata del 3 aprile 2003, dalla quale risultava che il Vi. avrebbe ricevuto un assegno per consentire alla moglie del Gi. ( gi.) di raggiungere il coniuge arrestato in Olanda.

Plausibile e corretta è di conseguenza anche l’affermazione di responsabilità per i singoli reati contestati ai capi F5, A, B e C, sorretta da una valutazione esauriente e articolata dei dati probatori acquisiti, con particolare riferimento:

– quanto all’estorsione, all’evidente tenore estorsivo della richiesta di un giubbotto fatto dal Ma., noto criminale, consegnare ad estranei con la consapevolezza della persona offesa che mai sarebbe stato pagato; alla irrilevanza del mancato riconoscimento del F. ad opera del Ca. vuoi per l’evidente stato di intimidazione di questo (il quale neppure aveva sporto denunzia anche se, sentito a sommarie informazioni, aveva dichiarato che sapeva bene che non sarebbe stato pagato) vuoi per il tempo trascorso (si tratta di valutazioni in fatto logicamente esposte, insindacabili in questa sede); alla sussistenza dell’aggravante del metodo mafioso, del tutto chiaramente emergente dal fatto che non era stato necessario ricorrere a minacce esplicite, essendo bastate una "vista" del Ma. e l’invio di due incaricati per ritirare la merce;

– quanto agli altri reati, alle esplicite dichiarazioni accusatorie del Ce., che aveva parlato del ricorrente come di un affiliato del Gi., appartenente al gruppo dedito allo spaccio in (omissis) e lui stesso abile spacciatore, nonchè ai riscontri offerti a tali dichiarazioni dalle telefonate intercettate, dalle quali risultava da un lato l’essere il Gi. a disposizione del Ma. (conversazione del 29.3.2003, relativa all’attività estorsiva), il suo dover soggiacere alle direttive del Ce. pena la morte (telefonate del giorno 11 marzo 2003), l’incarico di assistenza; dall’altro il suo diretto coinvolgimento nella attività di spaccio, cui offriva ulteriore conferma l’arresto con 100 grammi di cocaina (l’uso personale non risultando dimostrato nè, a quanto emerge, in quel procedimento nè nell’attuale).

Argomenti a fronte dei quali le ulteriori censure si risolvono nella riproposizione di prospettazioni, per lo più generiche e comunque in fatto, già confutate.

7. Ricorso Fi..

Il ricorso appare infondato.

La Corte d’appello – dopo avere assolto il Fi. dal reato di partecipazione all’associazione mafiosa osservando che i collaboratori avevano detto che non era ad essa affiliato e che se aveva fattivamente collaborato alle forniture di stupefacenti per il gruppo, probabilmente era entrato a far parte di detta attività a causa dei suoi debiti per la droga acquistata – ha ritenuto che i risultati acquisiti dimostravano comunque inequivocamente la sua responsabilità per i reati ai capi B) C), valorizzando:

le dichiarazioni del De.Si. e di Ce.Fi., in particolare sul suo ruolo nell’importazione dall’Olanda di grossi quantitativi di stupefacente (in particolare in un occasione aveva trasportato insieme a Lo. e Pa. alcuni chili di cocaina); le dichiarazioni sempre del Ce. sui suoi rapporti con Lo. (e Gr.); le conversazioni intercettate (in una si parlava di circa 1.000,00 Euro, in altra di circa 1.900,00 Euro dovuti dal Fi.) relative a debiti per forniture di cocaina; gli appunti sequestrati al Gr., dimostranti anch’essi rapporti debitori, pregressi e pendenti, attribuibili alla medesima causale;

il ripetuto noleggio a suo nome di auto usate dal gruppo, verosimilmente all’estero (una era stata avvistata a Salisburgo, l’altra aveva registrato un percorso di 4.800 chilometri);

i vaglia cambiari emessi a suo nome e destinati a persone residenti in Olanda, vicine a Ce..

Del tutto esauriente è quindi l’esposizione degli elementi acquisiti.

E adeguata e plausibile è la valutazione del loro significato, nonchè del risultato probatorio traibile da loro collegamento, nel senso che al Fi. – utilizzato come corriere per il trasporto della droga e per di più coinvolto in attività di smercio degli stupefacenti – poteva essere pacificamente attribuita la collaborazione in ripetuti trasporti di droga, e con essi, la partecipazione all’attività associativa deputata al traffico degli stupefacenti, tenuto conto del contesto organizzato in cui consapevolmente si inserivano tali forniture e le altre attività collaterali di aiuto al gruppo noleggio di auto, emissione di vaglia postali a favore di persone residenti in Olanda sottoscritti in bianco, indici, tutti, di disponibilità per la complessiva attività, nel campo del traffico degli stupefacenti, di questo.

A fronte, le doglianze, al limite della inammissibilità, si risolvono nella prospettazione di tesi difensive già nella sostanza valutate, che vengono sostenute da una valutazione parcellizzata, e perciò non corretta, degli elementi d’accusa.

8. Ricorso L..

Il ricorso appare nel suo complesso infondato.

L’affermazione della sua responsabilità per partecipazione all’associazione di stampo mafioso (capo A) è adeguatamente argomentata dalla Corte d’assise d’appello sulla base delle dichiarazioni di Ce.Fi. (il quale aveva parlato della sua formale affiliazione, avvenuta all’interno del carcere a seguito dell’affiliazione del fratello Le.An.e.de.De Siena (.

l.i.c.o.a.a. D. e passato, quando era detenuto, al clan ******* quale componente del gruppetto vernel capeggiato dal fratello Le.An., nonchè come destinatario di vaglia postali, in quanto partecipe dell’associazione); sul rilievo che a tali dichiarazioni offrivano ulteriori riscontri le intercettazioni telefoniche, (517 del giorno 11.3.2003 e 53 del 30.4.2003 nelle quali il ricorrente compariva assieme al fratello nell’elenco dei destinatari dei vaglia), e la documentazione acquisita presso la casa circondariale, (relativa ai numerosi vaglia postali inviati ad alcuni degli associati detenuti e, tra questi sia al ricorrente sia a suo fratello).

A risposta delle censure articolate nell’atto d’appello la Corte d’appello osservava che le dichiarazioni dei collaboratori erano dettagliate e attendibili; che l’entità e il numero delle elargizioni inviate ai detenuti impedivano le spiegazioni alternative, sostenute dall’appellante, dei vaglia; che le intercettazioni telefoniche fornivano diretta conferma dell’invio del denaro a soggetti per l’unica ragione della comune appartenenza all’associazione mafiosa; che gli elementi evidenziati dalla difesa (il fatto che Ce.S. non avesse fatto espressamente il suo nome, la lettera a lui intestata), in realtà neutri, non offrivano concreti elementi a suo favore.

Sicchè le doglianze articolate in ricorso appaiono reiterative di argomenti difensivi, concernenti valutazioni in fatto, già nel loro complesso valutati.

E la motivazione della sentenza impugnata, esauriente e plausibile non merita censura in questa sede.

Il ricorso va, conclusivamente, rigettato.

9. Ricorso M..

Osserva il Collegio che il ricorso è in gran parte generico e ripetitivo di censure alle quali la sentenza impugnata ha già dato adeguata risposta e appare comunque sotto ogni altro aspetto infondato.

Le doglianze sviluppate nel primo motivo attengono alla aggravante di cui al D.L. n. 152 del 1991, art. 7 e tracimano continuamente nella confutazione della appartenenza del ricorrente all’associazione mafiosa e della finalità mafiosa, mentre la circostanza aggravante è stata ritenuta sussistente sulla considerazione assorbente che le modalità di realizzazione costituivano tipica manifestazione dell’intimidazione mafiosa.

La ricorrenza del metodo mafioso è stata d’altro canto più che plausibilmente riconosciuta in capo al ricorrente, che secondo quanto dichiarato dalla persona offesa era presente al momento della richiesta estorsiva, espressa con la frase: "abbiamo preso Lecce in mano e di conseguenza comandiamo noi… per tale motivo ci devi dare la macchina a questi compari miei, altrimenti facciamo piangere a te e alla tua famiglia… facciamo piangere a te e alla tua famiglia", attorniando tutti insieme, in modo significativo, la persona offesa;

la prevaricazione e l’intimidazione così manifestate apparendo correttamente definite dai giudici del merito all’evidenza tipiche del modo d’agire mafioso.

Inammissibile appare quindi il secondo motivo, che attiene al trattamento sanzionatorio e nel cui ambito vengono accennate altresì disarticolate quanto generiche censure sul fatto, correttamente i giudici di merito avendo ritenuto adeguata la pena e non riconoscibili le attenuanti generiche facendo riferimento al precedente penale del ricorrente, specificamente valutato, e alla gravità dei fatti, evocando perciò criteri indicati nell’art. 133 c.p., applicabili anche ai fini dell’art. 62 bis c.p..

10. Ricorso P..

Il ricorso appare, nel suo complesso, infondato.

La partecipazione di P.S. all’associazione per delinquere di stampo mafioso è stata correttamente affermata sulla base delle dichiarazioni dei pentiti Ce.Fi. (secondo cui P.S., soprannominato ***, era originariamente affiliato a Ma.Sa., era quindi passato in carico ad Pe.An. ed infine allo stesso Ce., dedicandosi poi allo spaccio di stupefacente, al favoreggiamento della latitanza di tale ca. e ad altro) e ********* (il quale aveva detto che Pe.An., responsabile per il sodalizio nel territorio di (omissis), era coadiuvato da P.S., soprannominato ***, che durante l’anno 2002 aveva gestito una bisca con ca.

S., nella quale era interessato anche Gi.An., e che P.S. era uno dei beneficiari dei vaglia postali che egli stesso aveva inviato ai sodali dal settembre 2002 al febbraio 2003, data in cui l’incarico era stato assegnato a Ma.

M.).

Adeguata, a fronte di quanto obiettivamente riferito e degli ulteriori dati evidenziati, è l’osservazione che tali dichiarazioni si riscontravano tra loro e che ad esse offrivano sostegno le conversazioni intercettate e i documenti sequestrati relativi al ricevimento da parte del ricorrente di vaglia di mantenimento ad opera della associazione, durante i periodi di sua detenzione.

Alle doglianze dell’appellante la Corte d’appello ha dato adeguata risposta osservando che non v’era alcun reale contrasto tra le dichiarazioni dei due collaboratori, che la loro credibilità e attendibilità era comprovata dagli altri fatti del procedimento e che con riferimento specifico al P. v’erano ulteriori riscontri estrinseci (i vaglia ricevuti); che le lievi discrasie erano giustificabili con i differenti quadri di riferimento; che l’imputato era rimasto libero per alcuni mesi, sufficienti a ritenere continuata la sua condotta partecipativa; che la ricezione dei vaglia postali offriva da sola buona prova della appartenenza al sodalizio;

che non era rilevante la mancata contestazione di singoli episodi delittuosi da iscrivere nei reati fine del sodalizio, essendo sufficiente a dimostrare la partecipazione la sua disponibilità ad agire per essa associazione, cui corrispondeva l’onere di questa di mantenerlo durante la detenzione; che era del tutto irrilevante il fatto che i vaglia ricevuti dal ricorrente non fossero stati spediti da quello specifico ufficio postale indicato dal De.Si., importando invece il fatto che i vaglia fossero stati spediti e ricevuti.

Il ricorso riproduce perciò per la gran parte deduzioni, attinenti alla valutazione del materiale probatorio, già vagliate.

Le censure relative alla circostanza che la sentenza di secondo grado si sarebbe nella sostanza rifatta a quella di primo appaiono all’evidenza infondate a fronte della rilevata aspecificità dei motivi d’appello e sono comunque generiche, non evidenziando argomenti decisivi non affrontati.

L’affermazione che Ce. e ****** sarebbero in contrasto tra loro presuppone una lettura delle dichiarazioni dei due in contrasto con quella offerta concordemente dei giudici del merito, perciò improponibile in questa sede.

L’assunto che l’attendibilità dei dichiaranti non sarebbe stata adeguatamente misurata è smentito dalla lettura delle sentenze ed è generico.

Infondata è, infine, la doglianza relativa alla insussistenza del reato contestato per una asserita carenza di elementi dimostrativi l’aggregazione e il contributo prestato, nonchè la consapevolezza del ricorrente; del tutto esatta apparendo all’opposto l’affermazione che la partecipazione consapevole è realizzata anche attraverso la dimostrata mera adesione al programma criminoso e la permanente, anche se generica, messa a disposizione dell’aderente per la realizzazione di detto programma.

11. Ricorso S..

Il ricorso appare infondato.

11.1. Il primo motivo di ricorso attiene alla, asserita, insufficienza del materiale probatorio posto a base della condanna per l’omicidio Gu..

Nel suo ambito vengono sviluppate doglianze con riferimento, da un lato, alla cosiddetta circolarità della prova; in relazione, dall’altro, alle contraddizioni esistenti tra le versioni dei dichiaranti.

Il primo aspetto è infondato.

Con riferimento alle dichiarazioni del mandante, Ce.Fi., la sentenza impugnata osserva che questo non s’era limitato a riferire delle modalità di esecuzione apprese dal Mo. da lui direttamente incaricato, ma che aveva precisato che dopo l’omicidio aveva mandato a S. "un biglietto per dirgli che non lo voleva punire per l’errore e lo perdonava", cosa che implicava diretta conferma del ruolo e del coinvolgimento e "un constatato" direttamente dal Ce. "atteggiamento dello S. che si è nascosto, condotta spiegabile solo con le motivazioni esposte da Ce.".

E plausibilmente ha attribuito a tale circostanza rilievo a fini "di superare il sospetto di un circuito informativo limitato al solo Mo.".

Altrettanto logicamente la Corte di merito ha osservato che, essendo il Ce. il capo della cosca e il mandante, non poteva non aver avuto esatta conferma di come si fosse svolto il fatto e verificato chi fossero le persone che avevano eseguito per altro sbagliando i suoi ordini.

Quanto alle dichiarazioni del De.Si., la Corte d’assise d’appello ha rimarcato che questo aveva appreso i fatti non solo dal Mo., ma anche dal Lo. (testualmente citando un brano delle dichiarazioni del collaboratore: "… i due mi riferirono che nell’esecuzione dell’omicidio venne commesso un errore…", non oggetto di specifica confutazione), così definitivamente smentendo la tesi della unicità della fonte sostenuta dalla difesa.

Con riferimento al secondo aspetto, che attiene alla attendibilità delle singole dichiarazioni e alla loro convergenza, le doglianze appaiono quindi interamente volte a confutare l’apprezzamento del significato attribuito a dette dichiarazioni dai giudici del merito e sono, comunque, manifestamente infondate giacchè ampia ed esauriente è la disamina contenuta nella sentenza impugnata delle "differenze" esistenti fra le dichiarazioni dei vari collaboratori relative alla presenza, anche, di uno o di entrambi i fratelli Sa., la spiegazione datane e la loro valutazione (in particolare osservandosi: che la presenza di altri appartenenti all’associazione rendeva quasi naturale che si fosse ipotizzato anche un loro coinvolgimento in funzione di basisti o "telecamere" – ovverosia vedette -; che la possibilità che l’indicazione di Sa.

P. fosse stato confusa con quella indistinta dei fratelli Sa., che tutti abitavano nella casa messa a disposizione per l’agguato, poteva incidere sulla prova del coinvolgimento di ciascuno dei fratelli Sa., ma non sulla posizione dello S., il quale era stato cercato e incaricato per fungere da vedetta, aveva fatto presente la circostanza della contiguità della casa di Sa. rispetto a quello della vittima – circostanza che spiegabilmente poteva essere stata tradotta o compresa, nel passaggio del racconto dalla fonte diretta all’altro sodale, quale indicazione che si era utilizzata come base la casa dei Sa. -, era stato secondo tutti, pacificamente, incaricato di svolgere il ruolo di vedetta e aveva già preventivamente ricevuto – a più stringente dimostrazione del suo coinvolgimento – anche l’incarico di occultare l’arma usata dal killer: circostanza questa non contestata).

Del tutto corretta appare perciò la conclusione che le differenze denunziate non potevano affatto condurre ad affermare la inattendibilità dei dichiaranti (in particolare del De.Si.) sullo specifico ruolo rivestito invece dallo S. giacchè, in sostanza, il fatto fondamentale da tutti narrato con chiarezza era che per l’operazione s’era fatto capo allo S., personalmente, e tramite lui all’abitazione dei fratelli Sa..

11.2. Infondato è anche il secondo motivo, che attiene all’affermata esistenza dell’aggravante della premeditazione.

La Corte d’assise d’appello ha ricondotto la "causa scatenante" dell’omicidio alla scoperta ad opera del Ce. del progetto di sequestro di una sua parente e di un agguato ai suoi danni, a seguito di tale notizia il Ce. avrebbe immediatamente dato incarico al Mo. e al Lo. di uccidere ****** (come detto fu per un errore esecutivo che si uccise il fratello Gu.

G.).

La premeditazione è ravvisata nel fatto che tra l’ordine e la sua esecuzione passarono alcuni giorni, impiegati a mettere a punto le modalità di realizzazione dell’agguato e un primo nonchè un secondo appostamento, dopo che il precedente era andato a vuoto.

Affermano conclusivamente i giudici del merito che non vi fu immediatezza tra l’ordine e la sua esecuzione, che l’esecuzione venne rinviata per "più giorni", suscitando anche la reazione del Ce.; e che "quando la preordinazione si protrae nel tempo dà luogo a premeditazione".

Sostiene la difesa del ricorrente che di giorni, invece, ne passarono solo due, e che si trattava soltanto del tempo di normale preordinazione, ovverosia strettamente occorrente per la riflessione e l’approntamento dell’esecuzione del delitto, deciso in un accesso "rabbioso" del Ce..

Osserva il Collegio che in realtà non rileva se tra l’ordine impartito dal Ce. e l’uccisione di Gu.Gi. intercorsero due giorni (come effettivamente parrebbe emergere da quanto riportato nella sentenza del Giudice dell’udienza preliminare a pagine 205 e 206) invece di tre.

E’ incontestato, infatti, che tutto era stato apprestato per il giorno precedente ma che il primo agguato era andato a vuoto perchè la vittima non s’era fatta vedere; Ce. s’adirò; il giorno successivo esecutori e basisti ripeterono l’appostamento e questa volta uccisero Gu.Gi., fratello della vittima designata.

Sicchè correttamente s’è ritenuto che il rinvio dell’esecuzione, necessitato o meno da fattori contingenti, aveva all’evidenza determinato una frattura nella realizzazione del proposito criminoso capace di indurre a quella "riflessione" protraentesi "più o meno lungamente nel tempo senza soluzione di continuità" che, "alimentando continuamente il proposito stesso, alla ricerca o in attesa dell’occasione di attuarlo" (**** n. 188), costituisce premeditazione.

Costituisce d’altro canto approdo consolidato che propria della premeditazione è appunto detta persistenza che sopraffà e supera inibizioni o ostacoli (cfr., per tutte Sez. 1^, n. 8974 del 13.6.1997, *******; n. 4678 del 29.10.1998, ******; 18.6.2003, Di ******; ovvero le comuni controspinte all’impulso criminogeno; di cui parla sez. 1^, n. 40237 del 10.10.2007, ******) sufficienti a far riflettere l’agente sulla decisone presa, consentendone il recesso (Cass. 1^, 8.10.1993 n. 10359, *****), e che, rendendo più difficile la preventiva difesa della persona contro la quale l’azione è diretta, giustifica la valutazione di maggiore pericolosità della condotta e l’aggravamento sanzionatorio (Relazione citata).

12. Ricorso V..

Il ricorso, con il quale si contesta ancora una volta la valutazione del materiale probatorio e che è per molti versi ripetitivo di prospettazioni difensive alle quali risulta data risposta sin dalla sentenza di primo grado, oltre che del tutto generico laddove si lamenta la non valutata attendibilità dei dichiaranti, appare nel suo complesso infondato.

Con riguardo alla sussistenza di elementi idonei a dimostrare la consapevole partecipazione del V. all’associazione al capo A), la sentenza impugnata ha difatti congruamente motivato ricordando, in premessa, che il Giudice dell’udienza preliminare aveva fondato la condanna sulle dichiarazioni di Vi.Fr. (il quale il 31 luglio 2002 aveva fornito un organigramma del clan *******, includendovi il V.), di ********* (che, parlando di quelli che operavano in (omissis) e di quanto accadeva quando egli stesso proteggeva la latitanza di Iv. e di V.C. facendo loro da vivandiere, aveva riferito di aver appreso da costoro che V.P. era loro affiliato con il grado di camorra e aveva rapinato una motocicletta ad un appartenente alle forze dell’ordine), di Ce.Fi. (che aveva anche lui indicato il ricorrente tra gli affiliati a V.C., assieme ad altri, dei quali pure aveva fatto i nomi), nonchè sui controlli di polizia, frequentissimi, che consentivano di ritenere uno stabile rapporto tra il ricorrente e quegli stessi individui indicati dal Ce..

Correttamente ha osservato quindi che le censure in ordine all’attendibilità intrinseca dei collaboratori non erano, neppure in quella sede, specifiche e che sul punto la motivazione del primo giudice era ampia e condivisibile; che il De.Si. era stato preciso ed esaustivo, essendosi spontaneamente corretto quando per la parziale omonimia di alcuni dei nominati era incorso in imprecisioni che non toccavano per altro il dato fondamentale, concernente il ricorrente, della sua sicura e formale appartenenza all’organizzazione mafiosa; che su tale aspetto altrettanto precise e inequivoche erano state le dichiarazioni del Ce. e del Vi.; che tutti i suddetti dichiaranti avevano contestualmente fornito chiare e coincidenti indicazioni degli altri componenti il gruppo, le quali avevano trovato in qualche modo conferma nelle frequentazioni attestate dai controlli di polizia.

Sicchè l’unica doglianza che non è generica, nè di fatto nè meramente confutativa, quella secondo cui agli elementi indicati dalla Corte d’appello non darebbero comunque dimostrazione di un contributo rilevante ai fini della configurabilità della partecipazione al reato associativo, appare all’evidenza infondata, condivisibile e conforme ai principi più volte enunziati da questa Corte essendo il rilievo che la indicazione dell’appartenenza o formale affiliazione, inequivocabilmente presupponendo una stabile messa a disposizione dell’opera dell’affiliato ai fini e per il programma dell’associazione, è sufficiente ad integrare la consapevole partecipazione all’organizzazione mafiosa mediante l’organico inserimento nella struttura organizzativa della stessa.

13. Ricorso Z..

Anche il ricorso dello Z. appare infondato e va rigettato.

La sentenza impugnata esaurientemente motiva osservando che lo Z. risultava essere partecipe all’associazione di stampo mafioso con ruolo minore, di supporto per ogni emergenza, e che tanto emergeva dalle dichiarazioni dei collaboratori Vi.Fr.

( Z. partecipava al sodalizio ed era titolare di una agenzia assicurativa), ****** (era assiduo frequentatore dell’officina del V. e fungeva da corriere del Ce.;

De.Si. aveva programmato che partecipasse ad un viaggio in Olanda per importare stupefacente e non era andato solo per un imprevisto improvviso), ********* (era un sodale, legato a Pe.Fe. con il quale spacciava cocaina e praticava l’usura; era disponibile a tutte le esigenze del gruppo, ad accompagnare Ce., a fornire automobili per il trasporto di stupefacente), Ce. (secondo cui non era formalmente affiliato e non spacciava, consumando solo cocaina, ma forniva assistenza all’organizzazione in vario modo, comunicando i movimenti dei sodali, fornendo auto, accompagnando Ce.F. all’aeroporto, affittando a suo nome una casa per ospitare il latitante Fr.Fa., facendo da intermediario per un rapina, per richiedere somme di denaro; era stato lui a ricevere il biglietto intimidatorio destinato a Ce.F.), ****** (che aveva confermato l’affitto delle automobili a suo nome, la disponibilità a consegnare la sua automobile per un viaggio in Olanda); era confermato dalla acclarata ricezione di uno dei vaglia di mantenimento e dal fatto che lo stesso Z. aveva confermato d’avere accompagnato il Ce. all’aeroporto (così sostanzialmente confermandone le dichiarazioni) dopo la riunione di Porto Cesareo alla fine dell’agosto 2002.

Del tutto corretta è quindi l’osservazione che gli argomenti difensivi (in particolare sulla mancata partecipazione alla riunione tra capi di Porto Cesareo, sull’assenza di contestazioni di singole attività delittuose, sulla mancanza di "formale" affiliazione secondo quanto riferito dal Ce.) non consentivano affatto di escludere un inserimento dello Z., seppure con funzioni minori ("a disposizione per ogni emergenza"), in "molteplici attività logistiche dell’associazione".

E plausibile è la conclusione, oggetto di confutazioni incentrate sulla considerazione parziale degli elementi esposti, che i comportamenti attribuiti allo Z. erano appieno rappresentativi di una consapevole ancorchè generica partecipazione all’organizzazione mafiosa.

14. Conclusivamente e riepilogando:

la sentenza impugnata deve essere annullata nei confronti di D. L. con rinvio per nuovo esame ad altra sezione della Corte d’assise d’appello di Lecce; deve essere annullata nei confronti di I. e C. limitatamente all’aggravante di cui al D.P.R. n. 309 del 1990, art. 80 contestata al capo C, con rinvio per nuovo esame sul punto ad altra sezione della Corte d’assise d’appello di Lecce; deve essere annullata nei confronti di T. limitatamente al capo F7 per non avere commesso il fatto, con eliminazione della relativa pena di otto mesi di reclusione (ferma l’assoluzione per il capo F8 pronunziata in udienza);

devono essere rigettati nel resto i ricorsi di I., C. e T.;

devono essere rigettati infine i ricorsi di Di.Sc., F., Fi., L., M., V. e Z., che – unici totalmente soccombenti – vanno condannati al pagamento in solido delle spese processuali del presente grado.

P.Q.M.

Annulla la sentenza impugnata nei confronti di D.L. e rinvia per nuovo esame ad altra sezione della Corte d’assise d’appello di Lecce.

Annulla la sentenza impugnata nei confronti di C. e I. limitatamente all’aggravante di cui al D.P.R. n. 309 del 1990, art. 80 contestata al capo C, e rinvia per nuovo esame sul punto ad altra sezione della Corte d’assise d’appello di Lecce.

Annulla senza rinvio la sentenza impugnata nei confronti di T. limitatamente al reato di cui al capo F7 per non avere commesso il fatto, ed elimina la relativa pena di otto mesi di reclusione;

Rigetta nel resto i ricorsi dei predetti imputati ( I., C. e T.).

Rigetta i ricorsi di Di.Sc., F., Fi., L., M., V. e Z., che condanna in solido al pagamento delle spese processuali.

Redazione