Corte di Cassazione Penale sez. V 28/4/2010 n. 16507

Redazione 28/04/10
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Svolgimento del processo
S.F., a seguito di giudizio abbreviato, era stato condannato con sentenza, emessa dal Gup del tribunale di Roma il 24 novembre 2000, alla pena di 30 anni di reclusione, in applicazione dell’art. 442 c.p.p., per i reati di omicidio,tentato omicidio, maltrattamenti in famiglia, possesso illegale di arma da fuoco.

In quello stesso giorno, entrava in vigore il D.L. n. 341, il cui art. 7 comma 1, con disposizione, definita di interpretazione autentica, stabiliva: a) nell’art. 442, comma 2, ultimo periodo, l’espressione "pena dell’ergastolo" deve intendersi riferita all’ergastolo senza isolamento diurno;

b) all’art. 442, comma 2, è aggiunto, in fine, il periodo "Alla pena dell’ergastolo con isolamento diurno, nei casi di concorso di reati e di reato continuato, è sostituita quella dell’ergastolo".

Il p.m. proponeva impugnazione, ritenendo applicabile alla fattispecie di reato continuato contestata la norma così come modificata e la corte di assise di appello di Roma,con sentenza emessa il 10 gennaio 2002, condannava lo S. alla pena dell’ergastolo. In particolare, la corte territoriale riteneva che, in base all’art. 8, del D.L. citato, il ricorrente avrebbe potuto ritirare la richiesta di rito alternativo e ottenere così il rito ordinario.

Lo S. proponeva ricorso per cassazione, che veniva rigettato con sentenza n. 2592 emessa il 25.9.2002 dalla prima sezione penale, depositata il 20.1.2003. Il ricorso ex art. 625 bis c.p.p., veniva poi dichiarato inammissibile con sentenza n. 42218, emessa dalla quinta sezione penale il 14.5.2004.

La Grande Camera della Corte Europea per i diritti dell’uomo, in seguito al ricorso presentato da S.F., ha deciso, con sentenza emessa l’11 settembre 2009, che lo Stato italiano ponga fine alla violazione degli artt. 6 e 7, della Convenzione e assicuri che la pena dell’ergastolo inflitta al ricorrente sia sostituita con una pena non superiore a quella della reclusione di anni trenta.

La Corte Europea ha accolto il ricorso in base alle seguenti argomentazioni:

l’art. 7 della Convenzione, che stabilisce il principio del divieto di applicazione retroattiva della legge penale, incorpora anche il corollario del diritto dell’accusato a trattamento penale più lieve.

Per giungere a questa affermazione, la Corte ha utilizzato il metodo comparativo, richiamando la Convenzione statunitense per i diritti dell’uomo, la Carta Europea dei diritti fondamentali, lo Statuto della Corte Penale Internazionale e la giurisprudenza della stessa Corte.

Fatta tale premessa, ha stabilito che l’art. 442 c.p.p., nella parte in cui concorre a determinare la pena irrogabile, è norma di diritto sostanziale e non processuale e,come tale, è soggetta al principio della irretroattività a danno dell’imputato.

Sotto l’aspetto strettamente procedurale,la Corte Europea, in merito alla pubblicazione degli atti legislativi e alla data della loro entrata in vigore, ha ricordato che il R.D. 7 giugno 1923, n. 1252, prevede che la Gazzetta Ufficiale sia pubblicata dal Ministero della Giustizia e che la pubblicazione "si farà tutti i giorni non festivi nelle ore pomeridiane". Atteso che il Gup del tribunale di Roma ha deciso nella mattina del giorno 24, prima quindi che il decreto legislativo fosse pubblicato sulla G.U. e prima dunque che entrasse in vigore, correttamente il giudice aveva applicato la vecchia disciplina in tema di determinazione della pena irrogabile.

La Corte ha ritenuto che anche l’art. 6 sul processo equo è stato violato, in riferimento alla disciplina del giudizio abbreviato. Chiedendo l’adozione di questa procedura, l’imputato rinuncia ad alcune garanzie nella prospettiva di un vantaggio in sede di condanna. Dal testo in vigore al momento della richiesta del rito abbreviato, lo S. poteva legittimamente aspettarsi che la pena dell’ergastolo sarebbe stata sostituita dalla reclusione di durata non superiore a trenta anni.

Questa legittima aspettativa è stata delusa, causa del decreto legge n. 341 del 24 novembre 2000 e della sua applicazione non solo ai nuovi richiedenti, ma anche alle persone che, come lo S., avevano formulato la richiesta ed erano stati giudicati in primo grado, prima dell’entrata in vigore della nuova normativa. La Corte non ha ritenuto legittimo modificare con effetto retroattivo, incidente sulla pena, una norma processuale rispetto alla quale si era formata legittima aspettativa di ottenere, a seguito di rinuncia ad alcune garanzie processuali, un vantaggio in caso di condanna. Pertanto ha richiamato l’art. 46 della Convenzione Europea dei diritti dell’uomo – CEDU – intitolato "Forza vincolante ed esecuzione delle sentenze", che, tra l’altro, prevede: 1. I paesi contraenti si impegnano a conformarsi alle sentenze definitive dei processi in cui sono parti; 2. La sentenza definitiva è trasmessa al Comitato dei Ministri che ne sorveglia l’esecuzione, atteso che dal sistema convenzionale deriva l’obbligo di dare esecuzione alle sentenze della Corte Europea. Pertanto, considerate le circostanze particolari della causa e la necessità di porre fine alla violazione degli artt. 6 e 7 della Convenzione, la Corte ritiene che lo Stato convenuto deve assicurare che la pena dell’ergastolo inflitta al ricorrente sia sostituita con una pena conforme ai principi enunciati, ossia con una pena non superiore alla reclusione di anni trenta Lo S. ha presentato ricorso straordinario ex art. 625 bis c.p.p., chiedendo la revoca della sentenza n. 2592/2003 e la riformulazione della decisione attraverso la procedura che si riterrà opportuna(secondo l’orientamento indicato dalla sentenza S.U. n. 16104 del 27.3.2002) e cioè, nel caso in esame, alternativamente:

rinvio ad altra sezione della corte di assise di appello per riformulare la condanna contestata; immediata pronuncia di questa Corte, in attuazione della decisione della Corte Europea, di sostituzione della pena dell’ergastolo con pena non superiore a trenta anni.

Motivi della decisione
Il ricorso merita accoglimento in relazione alla richiesta come da ultimo articolata. E’ noto che l’art. 46 della Convenzione Europea dei diritti dell’uomo (CEDU), intitolato "Forza vincolante ed esecuzione delle sentenze", stabilisce una precisa e inequivoca "obbligazione giuridica" per gli Stati contraenti, di conformarsi – sotto il controllo del Comitato dei Ministri – alle sentenze definitive della Corte pronunciate nelle controversie in cui sono parti. L’indirizzo del nostro ordinamento di recepire le decisioni della Corte di Strasburgo e di uniformarsi ad esse può dirsi stabilmente confermato dal legislatore, attraverso a) il D.P.R. n. 289 del 2005, che, ad integrazione del t.u. sul casellario giudiziale, ha inserito il D.P.R. n. 313 del 2002, art. 19, commi 2 bis e 2 ter, prevedendo l’iscrizione dell’"estratto delle decisioni adottate dalla Corte Europea dei diritti dell’uomo nei confronti dello Stato italiano, concernenti i provvedimenti giudiziali e amministrativi definitivi delle autorità nazionali già iscritti…"; b) la L. n. 12 del 2006, recante "Disposizioni in materia di esecuzione delle pronunce della Corte Europea dei diritti dell’uomo". E’ anche noto che questo obbligo di dare esecuzione alla sentenza 11.9.2009, è da considerare di risultato, nel senso che è riservata agli Stati la scelta dei mezzi per adeguarsi ai principi in essa formulati, come ha ribadito il Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa con la raccomandazione R (2000) 2, secondo cui "spetta alle competenti autorità dello Stato condannato decidere quali misure siano più appropriate per assicurare una restituito in integrum, tenendo conto dei mezzi disponibili nell’ordinamento interno".

Rilevato che non è previsto nella legislazione una procedura e un provvedimento ad hoc, sorge l’interrogativo di come addivenire alla sostituzione della pena.

Al di là dell’istituto della restituzione in termine di cui all’art. 175 c.p.p., l’ordinamento non prevede forme di riapertura del processo nel caso di violazione di diritti fondamentali, accertata dalla Corte di Strasburgo e va tenuto conto che non è possibile risolvere il problema con applicazioni analogiche che sono incompatibili con il principio di tassatività delle impugnazioni. Alcune pronunce della Corte hanno ritenuto di poter superare l’ostacolo, negando l’intangibilità del giudicato (sez. 1^ n. 32678/06, Somogyi, in Cass. pen. 2007, n. 282.8., p.1011; sez. 1^ 22.9.2005, *********, RV 232115), o suggerendo il ricorso straordinario ex art. 625 bis c.p.p., con applicazione analogica dell’impugnazione straordinaria (sez. 6^ n. 45807 del 12.11.2008, ********, in Cass. pen. 2009, p.1457) o il ricorso al giudice dell’esecuzione, che dichiari ex art. 670 c.p.p., l’ineseguibilità del giudicato (sez. 1^ n. 2800 dell’1.12.2006, ******, ivi 2007,n. 428 n. 2, p. 1441) o effettui una pronuncia interlocutoria che affermi l’insussistenza del titolo fondante la detenzione, alla luce della pronuncia del giudice Europeo,che rappresenta un fatto sopravvenuto, ostativo all’eseguibilità della condanna e che determina l’illegittimità del titolo esecutivo interno (Trib. Roma 25.9.2006, in Cass. pen., 2007, n. 123, p. 268).

Secondo l’ultima decisione della S.C.,qui citata (sez. 1^ n. 2800, ******),l’accertata violazione dell’art. 6 comporta il doveroso riconoscimento che la sentenza di condanna ha perduto l’efficacia di titolo legittimo di detenzione a norma dell’art. 5, par. 2, lett. a), della stessa convenzione "chiaro essendo che evidenti ragioni di coerenza in tema dell’ordinamento impediscono di considerare legittima una detenzione fondata su una sentenza di condanna pronunciata in un giudizio nel quale siano state poste in essere violazioni delle regole del giusto processo accertate dalla Corte Europea, si da rendere non equitable non soltanto la procedura, ma anche la pronuncia di condanna. La conclusione non è altro che il corollario del riconoscimento del diritto alla rinnovazione del processo derivato dalla sentenza della Corte, dalla quale, correlativamente, discende per lo Stato e per i suoi organi(compresi quelli investiti del potere giurisdizionale) l’obbligo positivo di ripristinare una procedura rispondente alla legalità sancita dalla Convenzione, allo specifico fine di eliminare le conseguenze pregiudizievoli verificatesi in dipendenza della violazione accertata". Nel caso in esame, la questione si pone in maniera diversa rispetto a quella esaminata dalle citate sentenze: l’iniquità della decisione non attiene al profilo di formazione della prova in contraddittorio, o dell’accertamento della responsabilità penale o della qualificazione giuridica dei fatti; non si sostiene cioè che il giudice avrebbe dovuto giudicare in maniera differente o che l’imputato avrebbe potuto difendersi diversamente, se fossero stati rispettate le garanzie processuali fondamentali.

La non equità riguarda solo il trattamento sanzionatorio e, comunque, anche nel caso in esame sussistono le ragioni di coerenza interna dell’ordinamento, che impediscono di considerare legittima la quantificazione della sanzione inflitta allo S. con una sentenza di condanna pronunciata in un giudizio nel quale sia stata violata una regola del giusto processo, accertata dalla Corte Europea. Nel caso in esame,quindi, sussiste, da un lato, per lo S. il diritto a una modifica della pena,da determinare secondo la legalità della Convenzione; dall’altro, per lo Stato e,specificamente, per gli organi investiti del potere giudiziario, l’obbligo positivo di determinare una pena rispondente alla legalità sancita dalla Convenzione, allo specifico fine di eliminare le conseguenze pregiudizievoli scaturite dalla violazione accertata. Questa violazione può avere riflessi sul regime carceralo in genere e in tema di applicazione delle misure alternative (ad esempio, a norma dell’art. 50 dell’ordinamento penitenziario, il condannato all’ergastolo può essere ammesso al regime di semilibertà solo dopo aver espiato 20 anni di pena).

Nel caso del ricorrente S., non è quindi necessario che si proceda a un nuovo giudizio di merito, essendo sufficiente una modifica della pena, nel senso indicato dalla sentenza.

La procura generale presso questa Corte ha trasmesso gli atti alla procura generale presso la corte di appello di Roma, "per quanto di competenza", nell’evidente prospettiva di sollecitare il giudice dell’esecuzione all’adempimento dell’obbligo di conformarsi alla decisione della Corte Europea.

Affidare al giudice dell’esecuzione il compito di sostituire la pena inflitta con la sentenza 10.1.2002 della corte di assise di appello di Roma è pienamente conforme alla normativa vigente. Ritiene comunque la Corte che, in ossequio al principio dell’economia dei mezzi processuali e allo speculare principio costituzionale della ragionevole durata del procedimento, si possa evitare questa ulteriore fase, a fronte dell’estrema chiarezza della sentenza della Corte di Strasburgo e dell’esigenza di dare immediato riconoscimento all’efficacia nel nostro ordinamento della normativa e delle decisioni delle istituzioni Europee.

Pertanto, questa Corte, preso atto dell’iniquità e dell’ineseguibilità del giudicato per il fatto nuovo costituito dalla sentenza della Corte dei diritti dell’uomo,pronunciata il 17 settembre 2009, che ha accertato che la sua formazione è avvenuta in violazione dei principi ex artt. 6 e 7 della Convenzione; preso atto della conseguente esigenza di provvedere all’immediata caducazione della decisione viziata e della immediata modifica della pena inflitta con sentenza 10.1.2002 della Corte di assise di appello di Roma, revoca in parte qua la sentenza di questa Corte n. 2592/03 del 25.9.2002, che ha formato il giudicato, e annulla senza rinvio la sentenza della corte di assise di appello di Roma emessa il 10.1.2002, limitatamente al trattamento sanzionatorio nei confronti di S.F., che determina in anni trenta di reclusione.

P.Q.M.
Revoca la sentenza di questa Corte n. 2592/03 del 25.9.2002; annulla senza rinvio la sentenza della corte di assise di appello di Roma in data 10.1.2002, limitatamente al trattamento sanzionatorio nei confronti di S.F., che determina in anni trenta di reclusione.

Così deciso in Roma, il 11 febbraio 2010.

Redazione