Corte di Cassazione Penale sez. V 25/11/2008 n. 44032; Pres. Fazzioli E.

Redazione 25/11/08
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MOTIVI DELLA DECISIONE

Con decreto del 27.7.2007 il g.i.p. del tribunale di Milano disponeva il sequestro preventivo dei capitai gains realizzati da D. A.M., costituiti dalle somme di denaro ancora giacenti sul conto corrente intestato al medesimo D. (c.c. n. (omissis)), dagli strumenti acquistati con l’impiego di tali somme e custoditi nei dossiers abbinati al detto conto corrente ovvero anche per equivalente di altre somme, titoli e beni nella titolarità del D. sino alla concorrenza di Euro 3.617.296,70, in relazione al reato di concorso in manipolazione del mercato (art. 110 c.p., art. 112 c.p., comma 1, nn. 1 e 2, art. 81 cpv. c.p., D.Lgs. 24 febbraio 1998, n. 58, art. 185 (T.U.F.) come mod.to dalla L. n. 62 del 2005 e L. n. 262 del 2005), per cui il D. era indagato nell’ambito della nota vicenda della "scalata" alla banca Antonveneta.

Il tribunale del riesame di Milano, con ordinanza del 17.10.2007, in parziale riforma del suaccennato decreto, riduceva il sequestro preventivo, anche per equivalente, sino alla concorrenza della plusvalenza realizzata dal D. al netto della imposta sostitutiva ex L. n. 461 del 1997 (Euro 452.162,25) e confermava nel resto il medesimo decreto.

Il predetto tribunale riteneva che non potevano essere "scomputati" dal profitto del reato di manipolazione del mercato gli interessi versati dall’indagato alla Banca Popolare di Lodi per ottenere l’affidamento necessario per l’acquisizione dei titoli azionari oggetto di aggiotaggio: l’attività – i cui costi si sarebbe voluto scomputare dal profitto confiscabile -, pur essendo intrinsecamente lecita (sostanziandosi nella erogazione di un mutuo bancario nell’ambito dell’esercizio del credito da parte di un istituto autorizzato), ciò nondimeno risultava nella specie chiaramente ed inequivocabilmente orientata alla realizzazione dell’agire criminoso, in particolare, a creare le condizioni perchè la manipolazione di mercato avente ad oggetto il titolo "Antonveneta" potesse essere compiuta. Si trattava, dunque, di spese che riguardavano un’attività strumentale alla realizzazione dell’illecito ed in quanto tali, giusta la concreta finalizzazione ad uno scopo illecito, non erano meritevoli di alcuna tutela da parte dell’ordinamento, nè pertanto erano suscettibili di far discendere alcun vantaggio per il reo sul piano economico (sconto sui beni da confiscare).

Avverso la summenzionata ordinanza del tribunale del riesame di Milano il difensore del D. proponeva ricorso per cassazione.

Con i motivi, il predetto difensore deduceva:

1) Violazione di legge con riferimento alla ritenuta sussistenza del periculum in mora.

L’emanato provvedimento di sequestro sarebbe fondato, quanto ai requisiti formali e sostanziali inerenti le necessità cautelari, su un unico fatto nuovo correlato sul piano temporale al provvedimento stesso: l’operazione di disinvestimento posta in essere dal coindagato C.R..

Tale allegazione costituirebbe il solo elemento sopravvenuto rispetto ad un panorama investigativo, che, nelle sue precedenti e remote risultanze, non avrebbe determinato l’esigenza cautelare di cui si tratta. Nessuno tra i pregressi riscontri di indagine sarebbe stato mai ritenuto indice di necessità in ordine al disposto sequestro, ad onta dei richiesti presupposti d’urgenza e di pericolo attuale e concreto.

La nota difensiva della Banca Popolare Italiana, richiamata dal g.i.p. nel decreto di sequestro, sostanzierebbe una vera e propria, quanto irrituale, istanza cautelare.

Tuttavia, in detta nota non vi sarebbe nulla che attestasse o solamente alludesse ad un impiego illecito di plusvalenze realizzate.

Inoltre, risulterebbe palese ed oggettiva l’impossibilità che dal libero possesso del denaro sequestrato il reato potrebbe essere aggravato o protratto, stante l’esigua entità delle somme in questione, del tutto inadeguate ad alterare, se impiegate, il prezzo di strumenti finanziari. Nè il provvedimento in esame avrebbe delineato la possibilità di utilizzo del denaro stesso, al fine di agevolare o commettere altri diversi e specifici reati.

2) Mancanza assoluta di motivazione in ordine al periculum in mora.

L’affermazione del tribunale del riesame, secondo cui sul conto corrente riferibile al D., a molti mesi dalla riscossione dell’ingente plusvalenza, risulterebbe depositata una somma esigua, sarebbe infondata, posto che tale conto corrente sarebbe collegato ad un dossier titoli costantemente più che capiente rispetto al profitto derivante dall’operazione Antonveneta.

3) Violazione di legge in ordine al mancato scorporo delle competenze bancarie dal profitto oggetto del sequestro preventivo.

Le somme componenti le competenze bancarie costituirebbero non già il profitto del reato e cioè "il vantaggio economico ricavato per effetto della commissione del reato", ma rientrerebbero nel risultato lordo dell’operazione vale a dire nella nozione di prodotto del reato. Solo l’inammissibile sovrapposizione del concetto di "profitto" con quello di "prodotto" renderebbe estensibile il provvedimento di sequestro sul piano quantitativo fino a ricomprendere indebitamente le competenze bancarie, direttamente approdate, in esito all’operazione d’investimento, nella sfera giuridica della banca.

Il difensore del D. chiedeva, pertanto, l’annullamento dell’ordinanza impugnata per insussistenza dei presupposti e, comunque, nella parte in cui aveva incluso nell’ammontare da sottoporre a sequestro preventivo anche le "competenze bancarie" pagate dall’indagato.

Con memoria depositata il 7.7.2008 il predetto difensore insisteva per l’accoglimento del ricorso.

Il primo ed il secondo motivo del ricorso de quo sono infondati.

Il tribunale del riesame ha giustificato la sussistenza del periculum in mora con motivazione congrua ed immune da vizi logici ed errori giuridici.

In particolare, il suaccennato tribunale ha rilevato che il sequestro della plusvalenza illecitamente conseguita, costituente profitto del reato contestato, era necessario a fini special preventivi, per evitare che l’indagato ponesse in essere operazioni suscettibili di impedirne il recupero, conseguentemente determinando un aggravamento delle conseguenze del reato. Il rischio di una dispersione del profitto del reato era nella specie tanto più concreto se si considerava che esso era rappresentato da una somme di denaro, bene per definizione fungibile, facilmente trasferibile verso destinazioni ignote e agevolmente occultabile, o comunque impiegabile in altri investimenti, sì da sottrarlo alla giustizia. D’altra parte, sul conto corrente riferibile al D., a molti mesi dalla riscossione dell’ingente plusvalenza, risultava depositata una somma esigua, ad eloquente dimostrazione della estrema mobilità dei capitali nella disponibilità dell’indagato e dunque del concreto rischio di una loro dispersione. In ogni caso, anche prescindendo dalla possibilità di ravvisare nella specie i presupposti del sequestro preventivo tipico, cioè volto alla salvaguardia delle esigenze di natura special preventiva previste dall’art. 321 c.p.p., comma 1, doveva essere rimarcato come la somma costituente profitto del reato di manipolazione del mercato, oggetto del vincolo reale, fosse comunque assoggettata a confisca obbligatoria ai sensi del D.Lgs. 24 febbraio 1998, n. 58, art. 187 (T.U.F.) e dunque suscettibile di sequestro preventivo a norma dell’art. 321 c.p.p., comma 2.

Il terzo motivo del ricorso sottopone, sostanzialmente, all’esame di questa Suprema Corte la questione se il profitto del reato de quo, oggetto di sequestro preventivo finalizzato alla confisca, debba essere commisurato al lordo, cioè all’intero ricavo dell’illecito, ovvero al netto, cioè all’effettivo guadagno tratto dal reo, determinato sottraendo i costi sostenuti dal medesimo reo per la commissione del reato.

Al riguardo, deve essere rilevato che non è rinvenibile in alcuna disposizione legislativa una definizione della nozione di "profitto" nè tanto meno una specificazione del tipo di "profitto lordo" o di "profitto netto", ma il termine è utilizzato, nelle varie fattispecie in cui è inserito, in maniera meramente enunciativa, assumendo, quindi, un’ampia "latitudine semantica" da colmare in via interpretativa.

Nel linguaggio penalistico il termine ha assunto sempre un significato oggettivamente più ampio rispetto a quello economico o aziendalistico, non è stato cioè mai inteso come espressione di una grandezza residuale o come reddito di esercizio, determinato attraverso il confronto tra componenti positive e negative del reddito.

Recentemente, le Sezioni Unite di questa Suprema Corte hanno affermato che "il profitto del reato… va inteso come complesso dei vantaggi economici tratti dall’illecito e a questo strettamente pertinenti, dovendosi escludere, per dare concreto significato a tale nozione, l’utilizzazione di parametri valutativi di tipo aziendalistico".

"Il crimine", invero, "non rappresenta, in alcun ordinamento, un legittimo titolo di acquisto della proprietà o di altro diritto su un bene e il reo non può, quindi, rifarsi dei costi affrontati per la realizzazione del reato. Il diverso criterio del profitto netto finirebbe per riversare sullo Stato… il rischio di esito negativo del reato ed il reo e, per lui, l’ente di riferimento si sottrarrebbero a qualunque rischio di perdita economica" (Cass. Pen. SS.UU. 27.3.2008 dep. 2.7.2008, n. 26654, Rv. 239924).

La suaccennata nozione generale del "profitto", adottata delle Sezioni Unite, è in linea con la strategia internazionale, particolarmente dell’Unione Europea, che affida alla confisca dei "proventi del reato", intesi in senso sempre più ampio ed omnicomprensivo, il ruolo di contrasto alla criminalità economica ed a quella organizzata e, a tal fine, elabora strumenti funzionali alla promozione dell’armonizzazione delle legislazioni nazionali in materia.

Si muove in questa direzione la recente L. 25 febbraio 2008, con cui si è conferita delega al Governo per l’attuazione della decisione quadro 24.2.2005 dell’Unione Europea relativa alla confisca di beni, strumenti e proventi di reato (2005/212/GAI). L’art. 31, comma 1, lett. b), n. 1 della cit. legge chiarisce che per "proventi del reato" dovranno intendersi il prodotto ed il prezzo del reato, nonchè "il profitto derivato direttamente o indirettamente dal reato" o il suo impiego; la stessa disposizione al n. 3 impone la previsione della confisca per equivalente dei beni costituenti il prodotto, il prezzo o il profitto del reato.

E’ agevole osservare che il legislatore, nel disciplinare la confisca del profitto del reato, non opera alcuna distinzione fondata sul margine di guadagno "netto" ricavato dal reato e, anzi, menzionando specificamente il "profitto indiretto", da rilievo, ai fini dell’applicazione della misura ablativa, anche ai vantaggi indotti dal profitto direttamente acquisito per effetto della consumazione dell’illecito.

Alla stregua delle illustrate considerazioni, deve concludersi che il tribunale del riesame di Milano ha correttamente escluso che dal profitto del reato in esame dovessero essere detratte le "competenze bancarie" versate dal D..

Le censure formulate da quest’ultimo con il terzo motivo sono, perciò, infondate.

Pertanto, il ricorso dell’indagato deve essere rigettato, con le conseguenze di legge.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese del procedimento.

Redazione