Corte di Cassazione Penale sez. V 17/12/2008 n. 46454; Pres. Amato A.

Redazione 17/12/08
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FATTO

Con sentenza in data 8 gennaio 2007 la Corte d’Appello di Brescia, in ciò confermando la decisione (invece riformata in altre parti) assunta dal giudice dell’udienza preliminare presso il Tribunale di Mantova in esito al giudizio abbreviato, ha riconosciuto P. A. e F.A. responsabili, in concorso tra loro e con altri, del delitto di cui alla L. 31 dicembre 1996, n. 675, art. 35, commi 1 e 3 per avere trattato illecitamente i dati personali di K.M.C., traendoli dal tabulato del traffico telefonico sulla sua utenza attraverso l’accesso alla rete informatica TIM; ed il solo P. del delitto, in continuazione col precedente, di cui all’art. 615 ter c.p., comma 1 e comma 2, nn. 1) e 3), per essersi introdotto abusivamente nel sistema protetto da misure di sicurezza inerente al sito internet della TIM, aggirando il sistema di protezione con l’uso di una password personalizzata dell’utente; ha quindi confermato la loro condanna alle pene di legge e al risarcimento dei danni in favore della TIM, costituitasi parte civile.

Hanno proposto separati ricorsi il P. e la F., il primo per il tramite del difensore, affidandoli rispettivamente a sei e due motivi.

Col suo primo motivo il P. ripropone in questa sede l’eccezione di inutilizzabilità delle intercettazioni telefoniche, per carenza di motivazione sulla necessità di utilizzare allo scopo impianti non appartenenti alla dotazione della Procura della Repubblica, ma noleggiati presso terzi.

Col secondo motivo, in ipotesi di rigetto della precedente eccezione, solleva questione di legittimità costituzionale della norma di cui all’art. 268 c.p.p., comma 3, in riferimento all’art. 15 Cost..

Col terzo motivo il P. nega che agli atti vi sia la minima prova della causazione di un nocumento ai danni dell’utente K., titolare dei dati personali desunti dai tabulati: donde l’insussistenza del reato, così come oggi descritto dalla L. 30 giugno 2003, n. 196, art. 167.

Col quarto motivo lo stesso ricorrente, ancora in riferimento al delitto di illecito trattamento dei dati personali, invoca la clausola di riserva "salvo che il fatto costituisca più grave reato", stante la contemporanea condanna ex art. 615 ter c.p..

Col quinto motivo deduce vizio di motivazione circa la prova di colpevolezza in ordine al predetto reato ex art. 615 ter c.p..

Col sesto motivo, infine, denuncia totale carenza di motivazione in ordine al diniego dell’attenuante di cui all’art. 114 c.p., comma 3.

La F., col primo motivo articolato in tre censure, deduce: 1) l’estraneità del fatto rispetto alla previsione della norma di cui alla L. 31 dicembre 1996, n. 675, art. 35, all’epoca vigente, essendosi solo successivamente incriminata l’illegittima captazione di dati personali inerenti al traffico telefonico; 2) l’insussistenza di qualsiasi nocumento a carico della K.; 3) la non configurabilità del reato nel caso di specie, in cui i dati non sono stati destinati alla comunicazione sistematica o alla diffusione, giusta la previsione della L. 30 giugno 2003, n. 196, art. 5, comma 3.

Col secondo motivo la stessa ricorrente contesta la legittimazione all’azione risarcitoria in capo al gestore del servizio telefonico.

DIRITTO

Affrontando secondo l’ordine logico le molteplici questioni sollevate dai motivi posti a base dei ricorsi, viene per prima in considerazione l’eccezione di inutilizzabilità delle intercettazioni telefoniche, illustrata dal ricorrente P. nel suo primo motivo. Con essa si denuncia l’utilizzo di impianti diversi da quelli installati nella Procura della Repubblica, senza che nel provvedimento autorizzativo fossero esplicitate le eccezionali ragioni di urgenza che lo avrebbero consentito; a confutazione della linea argomentativa addotta in proposito dalla Corte d’Appello, secondo cui si sarebbe trattato di impianti installati nella Procura della Repubblica, ancorchè noleggiati presso terzi, osserva il ricorrente che la legittimità delle intercettazioni è determinata non dal luogo nel quale è situato l’impianto, ma dalle garanzie di affidabilità tecnica date dall’incardinamento nella struttura dell’ufficio giudiziario.

La censura è priva di fondamento.

Una volta acquisita, come criterio interpretativo della norma di cui all’art. 268 c.p.p., comma 3, la ratio legis secondo la quale solo gli impianti di intercettazione installati presso la Procura della Repubblica offrono le garanzie di tutela della riservatezza, a motivo delle modalità di scelta secondo determinate specifiche tecniche, dell’accesso limitato al solo personale autorizzato, della possibilità di costante controllo da parte del magistrato, non vi è motivo per ritenere eseguita in deroga alla disposizione codicistica l’acquisizione e l’installazione di un impianto solo perchè attuata in base a un negozio giuridico (locazione di cose mobili) diverso da quello di compravendita ordinariamente utilizzato. L’assunto del ricorrente rivela la sua inconsistenza là dove mostra di identificare il concetto di "installazione" dell’impianto presso la Procura della Repubblica con quello di "appartenenza" all’Amministrazione della Giustizia, nel senso della titolarità del diritto dominicale: il che non è giuridicamente predicabile.

Le considerazioni fin qui svolte rendono conto, al contempo, della manifesta infondatezza della questione di legittimità costituzionale dell’art. 268 c.p.p., comma 3, se interpretato nel senso or ora indicato: poichè la tutela delle esigenze di garanzia della riservatezza è assicurata in egual misura dalle modalità di installazione a raffronto, non è ipotizzabile alcuna lesione del diritto alla libertà e alla segretezza delle comunicazioni quando l’acquisizione dell’impianto sia effettuata a seguito di locazione da parte di terzi.

Venendo ora alla disamina dell’imputazione posta a base della condanna di ambedue gli imputati odierni ricorrenti, facente riferimento al reato di cui alla L. 31 dicembre 1996, n. 675, art. 35, corre l’obbligo di riconoscere la fondatezza del rilievo mosso dalla F. con la terza censura del suo primo motivo.

E’ stato accertato dal giudice di merito che l’accesso ai dati personali di K.M.C. conservati nel sistema informatico della TIM, in una col successivo trattamento degli stessi (consistito nell’estrarre le informazioni sul traffico telefonico da e verso le utenze di terzi), è stato effettuato dal P., nell’interesse della F., per una sola volta e allo scopo di raccogliere prove circa l’infedeltà del marito della committente, C.N.. Tale modo di atteggiarsi della fattispecie rende utilmente invocabile la clausola limitativa introdotta dal D.Lgs. 30 giugno 2003, n. 196, art. 5, comma 3, secondo cui "il trattamento di dati personali effettuato da persone fisiche per fini esclusivamente personali è soggetto all’applicazione del presente codice solo se i dati sono destinati ad una comunicazione sistematica o alla diffusione"; esula, infatti, nel caso concreto, la destinazione dei dati raccolti alla comunicazione sistematica o alla diffusione, mentre è di tutta evidenza la riconducibilità della condotta a fini esclusivamente personali della F., nel cui interesse il trattamento dei dati è stato eseguito.

La richiamata clausola di limitazione, estendendo la sua portata all’intera disciplina del D.Lgs. 30 giugno 2003, n. 196 (cosiddetto "codice della privacy"), opera anche in riferimento al reato di cui alla L. 31 dicembre 1996, n. 675, art. 35, attesa la continuità normativa con la disposizione attualmente vigente di cui all’art. 167 dello stesso D.Lgs. (Cass. 5 marzo 2008, Amorosi e altro; Cass. 26 marzo 2004, Modena); ne deriva l’esclusione di responsabilità degli imputati, stante la difformità del fatto rispetto alla previsione della norma incriminatrice.

Neppure potrebbe ipotizzarsi una diversa conclusione sotto il profilo della più intensa tutela riservata dal codice ai dati sensibili, non potendosi intendere come rivelatrice della "vita sessuale" – da intendersi come complesso delle modalità di soddisfacimento degli appetiti sessuali di una persona – la relazione amorosa fra una donna e un uomo sposato.

La sentenza impugnata va pertanto annullata senza rinvio, per insussistenza del fatto, relativamente all’imputazione fin qui esaminata, che nel contesto di quel provvedimento è riferita al capo n. 14. Resta assorbita ogni altra censura formulata da ambedue i ricorrenti in ordine a tale imputazione.

La residua imputazione di cui all’art. 615 ter c.p. è presa in osservazione dal quinto e dal sesto motivo del ricorrente P..

Si duole costui che la Corte d’Appello non abbia espresso nella motivazione le ragioni poste a base del giudizio di responsabilità a suo carico, nè abbia riconosciuto applicabile l’attenuante di cui all’art. 114 c.p..

In ordine alla prima di tali censure vi è solo da rimarcare, ad evidenziarne l’infondatezza, che dalla ricostruzione in fatto operata nella sentenza emerge che l’intrusione nel sistema informatico della TIM è stata attuata personalmente dal P., attraverso il computer dell’ufficio presso l’agenzia investigativa dello S. (di cui egli era alle dipendenze); così chiaramente individuato il contributo materiale alla consumazione del reato, la Corte di merito non ha mancato di considerare che l’operazione di accesso illegale così condotta si è sviluppata attraverso un costante contatto telefonico fra il P. e lo S., il quale ha fornito al dipendente le indicazioni che gli erano necessarie e inoltre, lungi dal dare assicurazioni circa il consenso dell’interessata (di cui non è emersa traccia dall’ascolto integrale della telefonata) si è invece vantato dell’astuzia con la quale era riuscito a "intortare" la K. per impossessarsi della sua password. Su tali premesse fattuali è del tutto consequenziale il giudizio conclusivo di piena consapevolezza, da parte del P., della clandestinità ed illegittimità dell’operazione che andava compiendo.

Non sussiste, pertanto, il denunciato vizio di omessa motivazione.

Quanto alla mancata applicazione dell’attenuante di cui all’art. 114 c.p., comma 3, la motivazione si trae per implicito dal complessivo tessuto argomentativo della decisione impugnata. Sono ivi descritti i rapporti fra lo S. ed il P. (quest’ultimo assunto proprio in considerazione delle sue attitudini informatiche) come rapporti di piena e concorde collaborazione, mentre non si riscontra che in nessun modo sia stata accertata la formulazione, da parte dello S., di minacce di licenziamento in caso di inottemperanza alle sue disposizioni: in mancanza di che non può configurarsi l’attenuante invocata sul solo presupposto del rapporto di dipendenza lavorativa (V. Cass. 20 novembre 2003, ******** ed altri).

La sentenza impugnata resiste, pertanto, alle censure mossele dal P. in riferimento alla condanna per il reato di cui all’art. 615 ter c.p..

Traendo le conclusioni da quanto fin qui statuito, devesi provvedere allo scomputo, dalla pena irrogata al P., dell’aumento per la continuazione apportato consequenzialmente alla ritenuta responsabilità – qui esclusa – L. 31 dicembre 1996, n. 675, ex art. 35: aumento che nella sentenza risulta determinato in giorni cinque di reclusione, ridotti a tre in conseguenza della riduzione di pena per la scelta del rito.

Resta ferma per entrambi gli imputati (malgrado il proscioglimento della F. dall’imputazione ex art. 615 ter c.p. per mancanza di querela) la condanna agli effetti civili in favore della TIM, s.p.a., peraltro con esclusivo riferimento al risarcimento dei danni – anche all’immagine – derivatile dalla violazione del suo sistema informatico.

P.Q.M.

la Corte annulla senza rinvio la sentenza impugnata, limitatamente al capo n. 14 dell’imputazione nei confronti della F. e del P., perchè il fatto non sussiste, eliminando, quanto a quest’ultimo, il relativo aumento di pena per la continuazione, pari a giorni tre di reclusione. Rigetta nel resto il ricorso del P..

Redazione