Corte di Cassazione Penale sez. IV 16/1/2009 n. 1786; Pres. Brusco C.G.

Redazione 16/01/09
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MOTIVI DELLA DECISIONE

1. La Corte d’assise di Napoli ha affermato la responsabilità degli imputati indicati in epigrafe, agenti della Polizia di Stato, in ordine ai reati di omicidio preterintenzionale in danno di E. S. ed a quello di falso in atto pubblico; e li ha altresì condannati al risarcimento del danno nei confronti delle costituite parti civili.

La pronunzia è stata parzialmente riformata dalla Corte d’assise d’appello che ha adottato pronunzia assolutoria perchè il fatto non sussiste in ordine al reato di falso ed ha riqualificato il reato di omicidio preterintenzionale in quello di omicidio colposo; ed ha conseguentemente rideterminato la pena.

La Corte d’assise ha ritenuto provato che gli imputati, nel corso delle travagliate operazioni volte a bloccare l’E. dopo il suo arresto, abbiano dato corso ad un deliberato pestaggio dal quale sono derivate lesioni personali sfociate nell’evento letale.

Il Giudice d’appello ha diffusamente riconsiderato l’intero materiale probatorio pervenendo alla conclusione che nel corso degli accadimenti non vi furono iniziative dolose, ma solo comportamenti imperiti nell’uso della forza per immobilizzare l’arrestato.

In sintesi estrema la ricostruzione dei fatti proposta dal giudice d’appello può essere tratteggiata nei seguenti termini.

Intorno alle sette del mattino l’E., in preda a delirio cocainico, saliva sul tetto di un capannone urlando e chiedendo aiuto a causa della presenza di cani in realtà inesistenti. Intervenne una pattuglia di polizia composta dagli agenti T.S. e C. F. che tentò di calmare il giovane. Improvvisamente, questi si lanciò dapprima sul tetto dell’auto di servizio e quindi aggredì il T.S. ferendolo. Lo stato di agitazione dell’ E. era tale che i due agenti non riuscirono ad averne ragione. Sopravvenne un’altra pattuglia composta dagli agenti I.A. e C.M. che diede manforte, sicchè si riuscì infine ad ammanettare il giovane ed a sistemarlo su un’auto di servizio. Le due auto si avviarono verso il Commissariato e ad esse se ne aggiunse un’altra con a bordo gli agenti M.A. e B.V.. Nel corso del tragitto l’E., con atto repentino, scalciò contro il vetro dell’auto infrangendolo e riuscì a proiettarsi all’esterno.

Tutti gli agenti si diressero a piedi verso l’arrestato bloccandolo.

In quel frangente sopraggiuse casualmente l’assistente D.N.C. che, libero dal servizio ed in abiti civili, si fermò ad aiutare i colleghi. Le operazioni per bloccare l’E., descritte per frammenti da diversi testi, si rivelarono drammaticamente concitate e difficili, poichè l’E. si mostrò animato da un’energia straordinaria. Nel corso dell’intervento gli agenti B. V., I.A. e M.A. si procurarono una corda con la quale, non senza fatica, legarono le gambe dell’arrestato. Infine sopraggiunse sul posto un’ambulanza con un medico a bordo che intervenne praticando un’iniezione di sostanze sedative e subito dopo constatò la morte.

La Corte d’assise d’appello, come si è accennato, ha escluso la presenza di condotte deliberatamente aggressive degli agenti ed ha ritenuto, invece, che gli imputati "si sono limitati a spiegare un’azione necessariamente violenta per la fortissima resistenza incontrata, tendente, ad immobilizzare la vittima": un intervento sicuramente "sopra le righe" e quindi colposo.

Si è in particolare ritenuto che tutti gli imputati, nel corso dell’operazione protrattasi per oltre dieci minuti, si siano avvicendati per immobilizzare con procedure non appropriate il giovane, che si trovava prono per terra. In particolare, il D.N. C., accovacciato, bloccò il torace della vittima premendo con le ginocchia sulla schiena, così esercitando una forza incongrua determinata anche dal suo peso di circa 90 chilogrammi.

Tali condotte violente sono state ritenute eziologicamente rilevanti in relazione all’evento letale. La Corte, sulla base delle diverse consulenze tecniche esperite ed alla luce dell’esame autoptico, è giunta ad individuare due decisivi fattori causali. Si è in primo luogo appurato che la vittima versava in uno stato di intossicazione acuta cocainica, desunto dalla presenza della sostanza nei liquidi biologici e dai sintomi tipici quali eccitabilità, allucinazioni, abnorme incremento della forza muscolare, attacchi di panico, alternanza di stati di agitazione e di remissività; ma si è escluso che tale condizione abbia avuto un ruolo eziologico decisivo, pur avendo negativamente influenzato l’effetto dei fattori traumatici. Un fattore eziologico letale è stato individuato in un trauma polmonare evidenziato dall’autopsia, dovuto ad asfissia meccanica acuta determinata dal blocco della respirazione. Un altro fattore decisivo è stato identificato in un traumatismo cranio-encefalico. L’autopsia ha pure rivelato due focolai emorragici contrapposti indicativi di genesi da contraccolpo: un urto determina l’oscillazione della testa che cagiona a sua volta un urto dal lato opposto. Un traumatismo di tale genere causa perdita di coscienza e successivamente, in un arco di tempo piuttosto breve, la morte. Esso, pur essendo da solo sufficiente a determinare la morte, ha nel caso di specie interagito sinergicamente con l’asfissia, anticipando l’arresto cardiocircolatorio.

Il blocco respiratorio è stato determinato dalla abnorme pressione esercitata dal D.N.C. sulla schiena dell’ E. per immobilizzarlo. L’eziologia del danno encefalico è stata ricostruita sulla base della deposizione di una teste che ha riferito di un agente che bloccò la nuca dell’ E. con un piede. Questi, che sino a quel momento si era agitato in modo convulso, smise di gridare e cominciò a rantolare. La parte compressa dall’agente corrisponde all’area della lesione nucale riscontrata in autopsia: il contraccolpo viene spiegato con l’impatto al suolo che certamente vi fu, atteso che in quel momento la vittima si dimenava con forza. Il trauma cranico determina perdita di coscienza e ciò spiega la cessazione improvvisa dell’attività motoria del giovane riferita dalla teste. Non vi è dubbio, conclude la Corte, che il trauma cranico fu prodotto dall’azione immobilizzante dei poliziotti.

La Corte stessa reputa che tutti gli agenti a turno cooperarono con il D.N.C. nel bloccare a terra l’E.. Tale condotta era in sè scriminata dalla causa di giustificazione dell’adempimento del dovere, essendovi necessità di bloccare il giovane arrestato e poi evaso. Tuttavia gli agenti superarono il vincolo di proporzione: non vi era necessità di ridurre il giovane all’assoluta impotenza, di bloccargli il torace e la testa e di adoperare i piedi per tenerlo immobile al suolo. Solo nel corso dell’intervento fu compreso che l’unica cosa da fare era legare le gambe, azione che venne compiuta dagli agenti B.V., I.A. e M.A.. La condotta descritta, nel complesso inappropriata, trova spiegazione, secondo la Corte di merito, nella carenza di addestramento del personale che, tuttavia, non elide l’obbligo di agire con prudenza, diligenza e buon senso. Si configura, quindi, un eccesso colposo nell’esecuzione dell’azione scriminata, rilevante ai sensi dell’art. 55 c.p..

E’ da escludere, argomenta ancora la Corte, che si sia in presenza di errore scusabile. Tutti gli agenti, tranne D.N.C. che intervenne in un secondo momento, erano consapevoli di non avere a che fare con un criminale e che si trattava non di sottomettere un avversario riottoso, ma di evitare solo che l’E. si allontanasse. Sarebbe stato sufficiente un pò di buon senso per comprendere che non era necessario bloccare al suolo il giovane per conseguire tale scopo. Dunque, la condotta in discussione è da ritenersi colposa per imperizia. Essa coinvolge la responsabilità di tutti gli imputati essendosi in presenza di cooperazione colposa rilevante ai sensi dell’art. 113 c.p.. Infatti gli agenti concordemente dettero corso a modalità d’immobilizzazione non necessarie e si servirono di tecniche pericolose per l’incolumità della persona da bloccare. Senza questa decisione, le condotte dei singoli, che materialmente cagionarono le lesioni mortali, non avrebbero potuto compiersi.

Riqualificato il fatto, la Corte ha rideterminato la pena. A tal fine si è considerato che il fatto presenta rilevante gravità: la vittima era un giovane nel fiore degli anni e, se pure assuntore di cocaina, di buona salute ed incensurato. D’altra parte l’inconsueta vicenda, svoltasi davanti ad un pubblico numeroso, con le sue connotazioni tra il tragico ed il grottesco, ha recato discredito all’immagine delle forze dell’ordine.

Più grave delle altre viene reputata la condotta del D.N.C..

Costui, superiore per età e grado, assunse la direzione delle operazioni pur non essendovi obbligato ed è l’unico la cui condotta evidenzia una sicura azione lesiva consistita nell’irrazionale compressione del torace.

Quanto all’attenuante cosiddetta generica, la Corte conferma la valutazione del primo giudice quanto alla possibilità di ravvisarla;

tuttavia ritiene che essa non possa condurre alla diminuzione di pena nella misura massima consentita, così controvertendo la valutazione del Tribunale che aveva invece ridotto la sanzione nella misura di un terzo in considerazione dell’incensuratezza ed in relazione alla particolare situazione in cui gli agenti si erano trovati ad operare.

Tale ponderazione viene ridimensionata, poichè l’incensuratezza è una qualità dovuta per gli agenti di polizia. D’altra parte, la particolare situazione evidenzia un’inadeguata preparazione tecnica degli agenti che è proprio il principale elemento di colpa.

In conclusione il giudice individua per D.N.C. una pena base di quattro anni ed otto mesi di reclusione, ridotta a quattro anni per effetto delle attenuanti generiche. Per gli altri imputati la pena base è di tre anni e sei mesi di reclusione, ridotta a tre anni per effetto dell’attenuante indicata.

2. Ricorrono per cassazione tutti gli imputati.

2.1. Il difensore di C.F. deduce cinque motivi.

2.1.1. Con il primo motivo si lamenta vizio della motivazione. La sentenza, si afferma, ha accertato che la vittima, sebbene arrestata ed ammanettata, riuscì a sfondare il vetro dell’auto ed a fuggire, con una condotta priva di senso. L’anomalia e l’eccezionalità della situazione avrebbe dovuto condurre ad escludere qualunque responsabilità degli agenti. A costoro la pronunzia finisce con l’attribuire la presunta disorganizzazione dell’amministrazione della pubblica sicurezza, nonchè il fatto che nessuno degli imputati avesse seguito dei corsi per apprendere tecniche di immobilizzazione dell’avversario. Nella situazione descritta l’evento si sarebbe comunque verificato, anche in presenza di una situazione di diligenza massima.

La sentenza reca inoltre un vuoto motivazionale, in quanto omette di considerare la specifica questione dedotta in appello relativa all’esistenza della causa di giustificazione prevista dall’articolo 53 cod. pen., sia per ciò che attiene alla situazione necessitante sia per ciò che riguarda la reazione necessitata. Tale omissione ha consentito di imboccare frettolosamente la strada dell’eccesso colposo.

Un ulteriore vizio di motivazione riguarda la condanna di tutti gli imputati, senza distinzione alcuna; e senza attribuire una specifica condotta illecita a ciascuno di essi, ma solo sulla base di congetture.

2.1.2 Con il secondo motivo si lamenta la mancata ammissione di perizia medico-legale, già richiesta nel giudizio di primo grado. La Corte non ha esaurientemente motivato sul punto.

2.1.3 Con il terzo motivo si lamenta la reformatio in peius in assenza di impugnazione della pubblica accusa, dovuta al fatto che le attenuanti generiche, già concesse dal primo giudice con conseguente riduzione della pena nella misura di un terzo, hanno dato luogo, nella pronunzia d’appello, ad una diminuzione di pena inferiore a quella massima.

2.1.4 Con il quarto motivo si lamenta la mancanza di valutazione della questione, dedotta in appello, riguardante l’applicabilità dell’art. 116 cod. pen..

2.1.5 Il quinto motivo deduce violazione di legge per ciò che attiene alla determinazione della pena. La corte, nel valutare la gravità del reato, ha tenuto in considerazione solo l’entità del danno, omettendo di considerare i fattori indicati nell’art. 133 c.p., nn. 1 e 3. Una diffusa motivazione sarebbe stata richiesta tanto più che la pronunzia determina una pena che si discosta moltissimo dal minimo edittale.

2.2. Il difensore di M.A. prospetta diverse questioni non collocate entro specifici motivi di ricorso. Esse possono essere sintetizzate nei seguenti termini.

2.2.1 La prima deduzione lamenta il mancato compimento di una perizia medico-legale che avrebbe consentito di appurare la reale causa della morte, costituita da ipossia da sforzo determinato dalla ripetuta scalata di un edificio per resistere agli agenti che tentavano di fermarlo. La Corte d’appello ha dato a tale richiesta una risposta non esaustiva sul piano motivazionale; tanto più che i consulenti di parte ignoravano gli accadimenti afferenti allo sforzo in questione.

La medesima questione viene prospettata sotto il profilo della mancanza di motivazione in ordine al motivo d’appello che riconduceva l’evento alla detta ipossia da sforzo.

2.2.2 La seconda deduzione riguarda alcune considerazioni sulla cosiddetta sindrome della morte da custodia.

2.2.3 La terza censura riguarda l’affermato concorso colposo dell’imputato. La Corte ha omesso di considerare che il M. A. era lontano dagli altri agenti, si era dato alla ricerca di una fune per legare il giovane arrestato e teneva una condotta non solo legittima ma addirittura dovuta. L’azione dell’imputato non ha avuto alcuna efficienza causale. Essa avrebbe potuto, al più, essere considerata una partecipazione di minima importanza. La Corte d’Appello ha omesso di esaminare le censure in proposito esposte con specifico motivo di ricorso.

Parimenti, si afferma ancora, non si configura il profilo subiettivo della cooperazione colposa: l’imputato non sapeva nè poteva sapere del comportamento colposo degli altri.

2.2.4 Il quarto motivo attiene alla determinazione della pena.

Illogicamente la Corte ha ritenuto non valutabile l’incensuratezza degli imputati nella particolare situazione in cui hanno agito. Il M.A., in particolare, ha agito, come ammesso dalla stessa Corte, per sopperire alle mancanze dell’amministrazione della pubblica sicurezza procurandosi una corda indispensabile per legare le gambe dell’arrestato. La stessa Corte, inoltre, non ha tenuto conto del grado della colpa.

2.2.5 Il quinto argomento critico riguarda l’esistenza della colpa:

la Corte è in contraddizione con se stessa, avendo riconosciuto l’insufficiente addestramento delle forze di polizia.

2.3. il difensore di B.V., C.M., C.F., D.N.C., I.A. deduce tre motivi.

2.3.1 Il primo motivo prospetta violazione di legge e vizio della motivazione per ciò che attiene all’individuazione dell’eccesso colposo nell’adempimento del dovere. Infatti, nel caso di specie, si configura la causa di giustificazione di cui all’art. 53 c.p., che legittima il pubblico ufficiale all’uso di mezzi di coazione fisica necessari al fine di respingere una violenza o di vincere una resistenza all’autorità. Essa legittima l’uso di armi o di strumenti di coazione fisica in presenza di violenza o resistenza, elementi estranei al cono di operatività dell’art. 51 c.p., per il quale la condotta del soggetto passivo non ha rilevanza.

Con riferimento a tale distinta causa di giustificazione non si configura un eccesso colposo. I limiti per l’agire scriminato sono individuati nei requisiti della necessità e della proporzione.

Nessun dubbio vi è sulla necessità di usare mezzi di coazione fisica nel caso in esame. Ma parimenti non si configura il superamento del limite della proporzione. A tale riguardo la Corte d’appello commette un errore prospettico quando afferma che per immobilizzare l’E., già ammanettato, sarebbe stato sufficiente impedirgli anche l’uso delle gambe. L’errore consiste nell’aver affidato il giudizio sul requisito della proporzione ad una valutazione operata ex post. In sostanza, i giudici hanno ritenuto sproporzionati i mezzi di coazione adottati perchè l’E. era deceduto; mentre in realtà andava verificato se, rispetto alla concreta situazione, gli strumenti di coazione fisica adottati fossero congrui con la situazione di rischio che si erano trovati a dover affrontare. Infatti, il giovane era una persona violenta, manifestava una forza al di fuori di limiti comuni, accentuata dalla recente assunzione di sostanze stupefacenti. In tale situazione occorre considerare che nessuno degli agenti fece uso di armi o di oggetti contundenti e che la morte avvenne a causa della prolungata azione di costringimento della cassa toracica, senza che, peraltro siano state riscontrate lesioni alle costole a dimostrazione che la condotta non fu esorbitante.

Pure censurabile è la valutazione dei giudici d’appello in ordine al carattere colposo delle condotte. Essa opera una indiscriminata attribuzione a tutti gli imputati della medesima condotta colposa, trascurando che fu solo il D.N.C. ad operare lo schiacciamento del dorso della E.. Quanto alla posizione di quest’ultimo è la stessa Corte a ritenere la natura non colpevole dell’azione, giacchè tale agente non era consapevole di non avere a che fare con un criminale.

2.3.2 Con il secondo motivo si prospetta violazione di legge e vizio della motivazione nell’applicazione dell’art. 113 cod. pen..

L’imputazione colposa richiede in ogni caso la violazione, da parte di ciascun imputato, di una regola cautelare; ed occorre altresì un atteggiamento psicologico consistente nella consapevolezza di contribuire all’azione od omissione altrui che sfocia nella produzione dell’evento non voluto, come ritenuto dalla giurisprudenza di legittimità.

La Corte ha ritenuto che tutti gli imputati decisero senza alcun dissenso di attuare modalità di immobilizzazione non necessarie e di servirsi di tecniche pericolose per l’incolumità della persona da bloccare. Questa condotta collettiva si pone quindi come condizione sine qua non dell’evento morte. Ma tale argomentazione attiene alla causalità materiale e nulla dice in ordine ai profili dell’agire colposo, ovvero della violazione individuale della regola cautelare.

Il carattere apparente, se non contraddittorio, della motivazione si apprezza particolarmente con riferimento alla condotta degli agenti I.A. e B.V. che si limitarono a tentare di immobilizzare l’E. legandogli le caviglie con una corda fornita dal conducente di un furgone in transito, condotta che rappresentava, secondo quanto ritenuto dalla stessa Corte, l’unico doveroso comportamento da tenere nella circostanza. Nei confronti di tali imputati va dunque esclusa una condotta colposa.

Sotto altro profilo, rilevante per tutti gli imputati, l’erronea applicazione dell’art. 113 cod. pen., è ravvisatale nell’assoluta carenza di ogni riferimento all’elemento psicologico ovvero alla sussistenza in capo a ciascun imputato, della consapevolezza di cooperare nella determinazione dell’evento non voluto.

2.3.3 IL terzo motivo di ricorso attiene alla determinazione della pena. Al riguardo si ravvisa violazione di legge e vizio della motivazione; tanto più ove si consideri che la sanzione è stata determinata in misura prossima ai limiti massimi edittali.

La sentenza, al riguardo, fa esclusivo riferimento al parametro della gravità del danno, a causa della giovane età ed incensuratezza della vittima e per il considerevole danno all’immagine delle forze dell’ordine arrecato per via delle connotazioni tragiche e grottesche della vicenda. Tali parametri, individuati per fornire apparente giustificazione all’estrema severità del trattamento sanzionatorio, sono incongrui ed illogici. Senza dubbio il grado di specificità della motivazione deve essere commisurato all’entità della sanzione inflitta. A tale riguardo l’unico parametro utilizzato, quello della gravità del danno, è del tutto incongruo. Lo è con riferimento alle dinamiche grottesche ed al danno all’immagine delle forze dell’ordine, che non sono persona offesa del reato. Lo è con riferimento all’età ed all’incensuratezza della vittima. Il concetto di danno va riferito alla lesione o messa in pericolo del bene giuridico tutelato dalla norma penale, mentre non ha rilievo alcuno il profilo civilistico, di guisa che sotto questo aspetto le condizioni personali della vittima non concorrono alla valutazione di gravità dell’evento. Nè è fondata l’opzione etica di fondo secondo la quale il bene vita per un incensurato o un giovane può essere ritenuto di maggior valore o pregio del medesimo bene per un soggetto gravato da precedenti penali o anziano.

Con riguardo alla posizione del D.N.C. l’aggravamento del trattamento sanzionatorio si basa sul fatto che questi assunse la direzione delle operazioni, pur non essendovi obbligato, poichè non era comandato in servizio e si trovava per caso a transitare sul luogo del fatto, e perchè si tratta dell’unico degli imputati la cui condotta va sicuramente oltre un generico concorso, essendosi individuata una personale azione lesiva. La spontaneità dell’intervento, al contrario, qualifica la condotta del D.N. C. in senso estremamente positivo. Il contributo causale, d’altra parte, è ravvisabile in qualunque condotta punibile; e non può essere quindi utilizzato come elemento di qualificazione di gravità ai fini della sanzione. Al contrario, si deve sottolineare che la condotta dell’agente fu una mera concausa dell’evento. A ciò si aggiunga che, per quanto è espressamente affermato in sentenza, il grado della colpa di costui è sensibilmente inferiore rispetto a quello degli altri agenti, in quanto era l’unico che non era consapevole di non avere a che fare con un criminale. Tale decisiva circostanza viene viceversa ignorata in punto di determinazione della pena.

A ciò è da aggiungere in linea generale che nel corpo della motivazione si sottolineano più volte circostanze e modalità del fatto che connotano in senso non tu negativo i comportamenti degli agenti e che, viceversa sono inspiegabilmente ignorate al momento dell’irrogazione delle sanzioni. Ci si riferisce all’inidoneità dell’addestramento ed alla insufficienza delle dotazioni; al ruolo eziologico dell’intossicazione acuta da cocaina; alle condizioni soggettive degli agenti ed allo stato di incensuratezza che la Corte apoditticamente ritiene una qualità dovuta per gli agenti di polizia e che sembra quasi ridondare a loro carico.

2.4. Il difensore di T.S. deduce quattro motivi.

2.4.1 Il primo motivo prospetta mancanza della motivazione e mancata assunzione di una prova decisiva. Si evidenzia, in particolare, che la Corte d’appello ha omesso qualunque motivazione in ordine al motivo con il quale si prospettava che l’imputato non avrebbe potuto partecipare alle condotte lesive in quanto impegnato a notiziare la centrale operativa e per far chiamare un’ambulanza usando la radio di servizio. Tale ipotesi era accreditata dalla circostanza che l’imputato aveva lasciato tracce di sangue nell’auto di servizio, mentre analoghe tracce non sono state rinvenute nel luogo in cui accaddero i fatti; dalla distanza tra l’auto ed il luogo dell’immobilizzazione dell’ E.; dalle deposizioni testimoniali che escludevano un concorso globale di tutti gli agenti operanti. In relazione a tale prospettazione la difesa chiedeva altresì la rinnovazione del dibattimento in appello affinchè venisse disposta perizia per stabilire la durata della trasmissione via radio compiuta dall’imputato, al fine di escludere che costui avesse avuto il tempo di comunicare e quindi partecipare all’azione illecita. La Corte d’appello, pur dando atto in sentenza della deduzione, ha radicalmente omesso di motivare in proposito e di delibare la richiesta di nuova prova.

2.4.2 Il secondo motivo di ricorso prospetta violazione della legge penale e segnatamente dell’art. 113 cod. pen.. La Corte omette di considerare che per aversi la cooperazione colposa non basta che uno dei concorrenti sappia di contribuire, con la propria condotta, a creare lo stato di fatto dal quale è derivato l’evento. Quando non risulti dimostrata l’esistenza di una univoca direzione di volontà, è da ritenersi escluso il concorso nel delitto colposo. Il nesso di cooperazione viene altresì meno quando, pur avendo le singole volontà una stessa direzione, tuttavia venga meno il nesso causale tra le condotte di alcuno e l’evento dannoso. Fatte tali premesse si considera che la pronunzia d’appello conviene che non tutti i poliziotti presenti sul luogo si adoperarono ad immobilizzare l’E.; che mancano elementi per identificare ed attribuire a ciascuno dei poliziotti la finalizzazione di singoli atti e che, anzi, dalla prova dichiarativa emerge che i soggetti che si adoperarono ad immobilizzare la vittima non erano tutti indistintamente ma solo alcuni. Non si dubita neppure che il ricorrente, invece di adoperarsi ad immobilizzare l’arrestato, fosse intento a comunicare con la centrale di polizia via radio; e che l’operazione di polizia si concluse nell’arco di 11 minuti. Ciò posto è evidente che i giudici non hanno neppure tentato di dimostrare l’esistenza di una coordinazione tra l’imputato e chi immobilizzava o colpiva l’E. ed hanno quindi arbitrariamente desunto l’esistenza di un presunto ma di fatto inesistente accordo tra il ricorrente e le altre persone coinvolte nei fatti. Si sarebbe invece dovuto concludere che il T.S. non diede luogo ad alcuna azione consapevolmente coordinata verso la produzione dell’evento.

2.4.3 Con il quarto motivo si prospetta che l’eccesso nell’esercizio di una causa di giustificazione trova applicazione solo nell’ambito dei reati dolosi e non, invece, nell’ambito di quelli colposi come quello ritenuto dalla Corte d’appello. In ogni caso il dubbio sull’esistenza di una scriminante va risolto in favore dell’imputato e non in suo danno.

2.4.4 Il quarto motivo attiene alla determinazione della pena. Si evidenzia in particolare che il primo giudice aveva concesso le attenuanti generiche determinando la riduzione della pena nella misura massima; mentre il giudice d’appello ha ritenuto che le stesse attenuanti dovessero comportare una diminuzione della sanzione in misura inferiore a quella massima, con ciò violando il giudicato formatosi sul punto, in assenza di impugnazione da parte dell’accusa pubblica. D’altra parte, la pena è stata determinata in modo omogeneo ed indiscriminato nei confronti di tutti gli imputati violando il principio di personalizzazione ed individualizzazione della sanzione; senza tenere conto della diversità dei comportamenti tenuti e della diversa intensità della colpa.

2.5 Le parti civili hanno presentato una memoria.

3. Il primo motivo di ricorso proposto da T.S. è fondato ed assorbente.

I ricorsi proposti dagli altri imputati sono fondati per ciò che attiene al trattamento sanzionatorio; ed infondati per il resto.

3.1. Per ciò che attiene all’imputato T.S., occorre rilevare che, effettivamente, nell’atto d’appello era stato diffusamente prospettato un motivo afferente all’assenza di un qualunque contributo alla vicenda illecita, essendo il ricorrente lontano dal luogo in cui si compiva il contrasto fisico, e trovandosi invece all’interno dell’auto di servizio. In coerenza con tale deduzione si richiedeva l’assunzione di nuova prova.

La Corte d’assise d’appello ha completamente mancato di rispondere a tale motivo di gravame. Nè, d’altra parte, una pertinente motivazione può inferirsi per implicito dalla trama complessiva dell’argomentazione. Anzi, sul punto pare di poter cogliere una incoerenza interna della motivazione. Da un lato, sembra darsi credito ad acquisizioni probatorie che descrivono il coinvolgimento attivo di tutti gli imputati e dall’altro, alla pagina 44, si attribuisce attendibilità ad una relazione di servizio nella quale vengono indicati come partecipi nell’azione di immobilizzazione dell’ E. tutti gli agenti tranne il ricorrente T.S..

Si versa quindi in una situazione di mancanza della motivazione.

D’altra parte, il motivo in questione, riguardando la stessa partecipazione al fatto illecito, è assorbente. Si impone quindi l’annullamento della sentenza, per la parte relativa al ricorrente in questione, con rinvio alla Corte d’appello di Napoli per nuovo esame.

3.2. Per ciò che riguarda gli altri ricorsi occorre premettere che tutti gli imputati propongono, oltre al resto, tre cruciali questioni che possono essere quindi esaminate unitariamente. Esse riguardano:

1) la erronea individuazione, quale scriminante, della causa di giustificazione dell’adempimento del dovere in luogo di quella di cui all’art. 53 cod. pen. e comunque l’assenza di una condotta esorbitante; 2) l’applicazione dell’art. 113 cod. pen., essendosi mancato di individuare specifiche condotte colpose analiticamente attribuibili a ciascun agente; 3) i criteri utilizzati per la determinazione del trattamento sanzionatorio.

3.2.1. La prima questione è infondata. La Corte d’assise d’appello riconduce effettivamente la condotta degli imputati alla causa di giustificazione dell’adempimento del dovere in relazione alla necessità di bloccare la fuga del giovane dopo l’arresto. Tuttavia, pur in presenza di una formale enunciazione in tal senso, tutta l’argomentazione si inscrive, di fatto, all’interno delle coordinate segnate dal richiamato art. 53 c.p.. Infatti, da un lato si fa riferimento alla veste di pubblico ufficiale degli agenti; dall’altro si richiama diffusamente l’esercizio della coazione fisica per vincere la resistenza violenta del giovane evaso. Dunque non vi è dubbio che il giudice dell’impugnazione abbia inteso riferirsi alla causa di giustificazione di cui al predetto art. 53 c.p., che, come unanimemente ritenuto e del resto agevolmente desumibile dallo stesso tenore della norma ("al fine di adempiere un dovere del proprio ufficio"), costituisce una forma qualificata di adempimento del dovere.

D’altra parte occorre pure considerare che la Corte ha configurato una condotta colposa in luogo di quella preterintenzionale originariamente ritenuta, in applicazione dell’art. 55 cod. pen..

Tale norma, che nella più accreditata letteratura viene ritenuta espressione di un principio generale dell’ordinamento penale, trova sicura applicazione, stante il tenore letterale della disposizione, nell’ambito delle due cause di giustificazione di cui si discute.

In conclusione la sentenza è tutta incentrata, per ciò che attiene alla qualificazione della responsabilità, sul colposo superamento del vincolo di proporzione tra la violenza usata e l’entità della violenta resistenza della vittima. E l’evocazione dell’una o dell’altra causa di giustificazione è irrilevante nell’economia del giudizio; tanto più che, come si accennato, nel ponderare la violazione del vincolo di proporzione non si è mancato di considerare il contesto pubblicistico ed il ruolo dell’autorità di polizia.

3.2.2. Per ciò che attiene all’applicazione dell’art. 113 cod. pen., i ricorsi prospettano una questione assai delicata e complessa. La pronunzia d’appello descrive l’azione congiunta di sei o sette agenti nei confronti dell’evaso e, a seguito di una serrata valutazione critica di alcune deposizioni testimoniali, perviene a ritenere che la violenza esercitata non fu il frutto di una volontaria deliberazione congiunta, ma di un colpevole malgoverno dell’azione di ritenzione del fuggitivo. Nonostante la analitica descrizione dei comportamenti ultronei, la Corte non giunge ad individuare specifiche condotte analiticamente attribuibili a ciascuno degli agenti, che indossavano la divisa d’ordinanza. L’unico imputato di cui è stata individuata la condotta specifica è il D.N.C. che, essendo in abiti borghesi, è stato oggetto di puntuale osservazione da parte dei testi presenti alla scena. Occorre allora chiedersi se l’applicazione dell’art. 113 cod. pen., consenta l’affermazione della cooperazione illecita anche degli agenti che, in ipotesi, si siano astenuti dal porre in essere personalmente le condotte violente ed esorbitanti cui si è fatto cenno.

A tale questione la Corte di assise d’appello da una risposta affermativa. Essa, dopo aver dato conto di condotte esorbitanti protratte per un lungo lasso di tempo, culminate nelle azioni specificamente lesive (la pressione sulla cassa toracica e lo schiacciamento della testa sul terreno), afferma che gli agenti "decisero senza dissenso alcuno di attuare modalità d’immobilizzazione non necessarie e di servirsi di tecniche pericolose per l’incolumità della persona da bloccare. Senza questa decisione, le condotte dei singoli, che materialmente cagionarono le lesioni mortali, non avrebbero potuto verificarsi".

Tale approccio argomentativo chiama implicitamente in causa da un lato l’art. 55 cod. pen., e dall’altro, soprattutto, l’art. 113 cod. pen., cui, evidentemente, si attribuisce un ruolo estensivo dell’incriminazione nell’ambito delle situazioni di cooperazione colposa, rispetto al modello di imputazione monosoggettiva.

Quanto all’applicazione dell’art. 55 cod. pen., la pronunzia appare palesemente immune dalle censure che vengono prospettate da alcune difese. Invero, la sentenza, sulla base di numerose deposizioni testimoniali, perviene a ritenere, con argomentazione immune da vizi logici, che la condotta degli agenti fu macroscopicamente esorbitante rispetto alla situazione data. In effetti, sebbene il giovane evaso agisse in modo fortemente reattivo, non può trascurarsi che egli era ammanettato e circondato da almeno sei agenti pubblici. In una situazione del genere, come correttamente ritenuto dal giudice di merito, il prudente governo della forza connessa all’azione congiunta di tante persone avrebbe dovuto senz’altro evitare condotte estreme ed inutili come quella di comprimere la cassa toracica fino al blocco della respirazione; o di schiacciare la testa con il piede calzato, determinando il danno emorragico letale in sede cranica.

Occorre piuttosto chiedersi quale sia la natura dell’imputazione per eccesso colposo nella gestione della situazione riconducibile alla causa di giustificazione; anche per rispondere alla prospettazione difensiva secondo cui si sarebbe in presenza di una forma di imputazione soggettiva incompatibile con la disciplina della cooperazione colposa, di cui all’art. 113 c.p..

L’eccesso colposo nelle scriminanti si inserisce all’interno della figura tradizionalmente denominata colpa impropria, che compendia situazioni in cui si configura un errore sull’esistenza di una scriminante, addebitabile ad un atteggiamento colposo; o in cui i limiti della scriminante vengono superati, a causa di un atteggiamento interiore rimproverabile a titolo di colpa. Tali contingenze sono disciplinate dall’art. 55 c.p.c e art. 59 c.p.c., comma 4.

In particolare l’eccesso colposo, di cui all’art. 55 c.p., è previsto solo per le scriminanti di cui agli artt. 51, 52, 53 e 54 cod. pen.. Tuttavia, come si è già accennato, da più parti è stato condivisibilmente osservato che la norma costituisce l’espressione di principi generali dell’ordinamento penale desumibili delle disposizioni in tema di dolo, colpa, errore sul fatto, errore sulle scriminanti; e che quindi essa è applicabile senza dubbio a tutte le cause di giustificazione. Si tratta di una situazione strutturalmente simile a quella della erronea, colposa supposizione dell’esistenza di una causa di giustificazione. La differenza è che l’errore non verte sull’esistenza della situazione scriminante che effettivamente si configura, ma riguarda la sua valutazione e gestione. A tale proposito in letteratura si è soliti individuare due distinte situazioni. Una riguarda l’errore di valutazione sui presupposti e sui limiti fattuali della giustificazione: si tratta del cosiddetto errore motivo. L’altra situazione si configura, invece, quando l’agente, pur non errando sui limiti della scriminante, tiene un atteggiamento che colposamente eccede rispetto ai limiti della giustificazione: si tratta del cosiddetto errore inabilità. In ambedue le situazioni, sia pure sotto profili diversi, si eccede erroneamente rispettò ai limiti fattuali di una scriminante di cui esistono i presupposti.

L’eccesso colposo è stato studiato quasi esclusivamente in riferimento alla legittima difesa ed a tale contesto si riferiscono gli esempi classici dell’agente che potendosi difendere tramortendo l’aggressore, crede erroneamente che occorra sopprimerlo; o di quello che, volendo tramortire colpisce l’avversario con una forza che si rivela letale. Si tratta di analisi che può essere trasposta nell’ambito qui considerato, in cui pure si discute della misura di violenza che l’ordinamento consente.

In tali situazioni, pur essendosi in presenza di condotta sorretta dal dolo di lesioni, il fatto è addebitato a titolo di colpa allorchè è possibile muovere all’agente un rimprovero. Nella dottrina più risalente la presenza della volontà dell’evento ha condotto a ritenere che si fosse in presenza di un reato doloso che viene dalla legge trattato come un reato colposo. Si tratta di un approccio diffusamente presente nella giurisprudenza, specialmente in quella più risalente.

Tale tesi è stata però oggetto di recise critiche ed è da tempo tramontata in letteratura. Si è infatti osservato, del tutto condivisibilmente, che il rimprovero che viene mosso all’agente non è di aver voluto l’evento ma di averlo cagionato con un atteggiamento interiore imprudente, negligente.

Qui, tuttavia, si configura qualche particolarità. Infatti non si è in presenza della classica configurazione della colpa definita dall’art. 43 c.p.: una condotta che determina un evento che non si è voluto e si verifica a causa di negligenza, imprudenza o imperizia.

Il rimprovero che viene mosso all’agente che eccede rispetto ai limiti della scriminante non ha a che fare direttamente con l’atteggiamento interiore in rapporto all’evento. Il rimprovero viene senza dubbio riferito all’archetipo della colpa ma riguarda per l’appunto la gestione trascurata, mal ponderata, dei poteri conferiti dalla causa di giustificazione. Da questo punto di vista ha senso parlare di colpa impropria; purchè sia chiaro che, pur essendosi in presenza di condotta volontariamente lesiva, manca la colpevolezza dolosa e si configura un atteggiamento interiore che, per i suoi connotati di negligenza o imprudenza, può essere ricondotto alla figura della colpa.

Riconosciuta la natura realmente colposa del rimprovero, sembra senz’altro escluso che vi siano ragioni pregiudizialmente ostative all’applicazione dell’art. 113 c.p., prospettata dalle difese.

Occorre tuttavia chiarire quale sia la reale portata della norma in questione nell’ambito delle fattispecie d’evento a forma libera come quella di cui all’art. 589 c.p.. In proposito in dottrina vengono sostenute, con diverse sfumature, due tesi di fondo. Secondo l’una l’art. 113 c.p., eserciterebbe una mera funzione di modulazione di disciplina, nell’ambito di situazioni nelle quali già si configura la responsabilità colpevole sulla base dei principi generali in tema di imputazione oggettiva e soggettiva: orientamento determinato, al fondo, dal timore che applicazioni disinvoltamente estensive possano vulnerare il principio di colpevolezza.

L’altra tesi, invece, reputa che la disciplina della cooperazione colposa eserciti una funzione estensiva dell’incriminazione rispetto all’ambito segnato dal concorso di cause colpose indipendenti, coinvolgendo anche condotte atipiche, agevolatrici, incomplete, di semplice partecipazione, che per assumere concludente significato hanno bisogno di coniugarsi con altre condotte.

Tale ultimo indirizzo è implicitamente accolto nella giurisprudenza di questa Corte. Esso è senz’altro aderente alle finalità perseguite dal codificatore che, introducendo la disciplina di cui si discute, volle troncare le dispute esistenti in quell’epoca, esplicitando la possibilità di configurare fattispecie di concorso anche nell’ambito dei reati colposi.

Tale indirizzo interpretativo trova pure sicuro conforto nella disciplina di cui all’art. 113 c.p., comma 2 e art. 114 cod. pen., che prevedono, nell’ambito delle fattispecie di cooperazione, l’aggravamento della pena per il soggetto che abbia assunto un ruolo preponderante e, simmetricamente, la diminuzione della pena per l’agente che abbia apportato un contributo di minima importanza. Tale ultima contingenza, evocando appunto condotte di modesta significatività, sembra attagliarsi perfettamente al caso di condotte prive di autonomia sul piano della tipicità colposa e quindi non autosufficienti ai fini della fondazione della responsabilità colpevole.

Riconosciuto il ruolo estensivo dell’incriminazione svolto dall’art. 113 c.p., occorre prendere atto che, pur dopo molte dispute, il confine tra la fattispecie di cooperazione colposa e quella in cui si configura il concorso di cause colpose indipendenti è spesso incerto.

L’effetto estensivo si configura senz’altro nei reati commissivi mediante omissione, quando vi sia l’apporto di soggetto non gravato dell’obbligo di garanzia.

Una situazione analoga si può configurare quando la regola cautelare violata attiene all’obbligo di prevenire altrui condotte colpose:

rientrano in tale ambito i casi di scuola dell’affidamento dell’auto a conducente totalmente inesperto e privo di patente; e quello dell’omessa custodia dell’arma carica che, così, viene imprudentemente maneggiata da persona impreparata. In tutti tali casi traspare l’esigenza di una lettura integrata delle condotte colpose, anche per verificare la realizzazione nell’evento del rischio cautelato dalla regola di diligenza.

Meno definita appare la vasta area in cui è presente una condotta che, priva di compiutezza, di fisionomia definita nell’ottica della tipicità colposa se isolatamente considerata, si integra con altre dando luogo alla fattispecie causale colposa. Mentre la condotta tipica da luogo alla violazione della regola cautelare eziologica, quella del partecipe, come ritenuto da autorevole dottrina, si connota per essere pericolosa in una guisa ancora indeterminata. A tali condotte viene solitamente attribuita valenza in chiave agevolatrice.

A tale ambito sembrano riferirsi non solo l’intitolazione dell’art. 113 c.p., che evoca il concetto di cooperazione colposa distinto da quello di concorso doloso; ma anche i lavori preparatori, quando si parla di scientia maleficii, di consapevolezza di concorrere con la propria all’altrui azione, di fascio di volontà cooperanti nel porre in essere il fatto incriminato.

Così definito il contesto, si pone il cruciale problema di individuare il fattore che fa per così dire da collante tra le diverse condotte, delineandone la cooperazione. Tale elemento di coesione viene ritenuto di tipo psicologico, tanto dalla dottrina prevalente che dalla giurisprudenza: si tratta della consapevolezza di cooperare con altri.

E’ però discusso se tale consapevolezza debba estendersi sino a cogliere il carattere colposo dell’altrui condotta. Le contrastanti tesi espresse al riguardo presentano il fianco a qualche critica.

Semplificando al massimo i termini di un dibattito ricco di sfumature: la tesi della mera consapevolezza dell’altrui condotta sembra implicare il rischio di creare un’indiscriminata estensione dell’imputazione. D’altra parte richiedere la consapevolezza del carattere colposo dell’altrui comportamento reca il rischio opposto di svuotare la norma e di renderla inutile, giacchè una tale consapevolezza ben potrebbe implicare un atteggiamento autonomamente rimproverabile.

D’altra parte, se la problematica non eccedesse le necessità di approfondimento richieste dal processo in esame, sarebbe pure lecito chiedersi se il tratto psicologico in esame (la consapevolezza di cui si è detto) sia proprio indefettibile e tipico, fondante. Le situazioni nelle quali le condotte in cooperazione non sono concomitanti aprono qualche dubbio in proposito. Di certo, comunque, le preoccupazioni di eccessiva estensione della fattispecie di cooperazione connesse alla mera consapevolezza dell’altrui condotta concorrente non sono certo prive di peso. Esse pare possano essere arginate solo individuando con rigore, sul piano fenomenico, le condotte che si pongono tra loro in cooperazione. Occorre cioè che il coinvolgimento integrato di più soggetti sia imposto dalla legge, da esigenze organizzative connesse alla gestione del rischio, o almeno sia contingenza oggettivamente definita senza incertezze e pienamente condivisa sul piano della consapevolezza. In tali situazioni, l’intreccio cooperativo, il comune coinvolgimento nella gestione del rischio giustifica la penale rilevanza di condotte che, come si è accennato, sebbene atipiche, incomplete, di semplice partecipazione, si coniugano, si compenetrano con altre condotte tipiche.

In tutte tali situazioni ciascun agente dovrà agire tenendo conto del ruolo e della condotta altrui. Si genera così un legame ed un’integrazione tra le condotte che opera non solo sul piano dell’azione, ma anche sul regime cautelare, richiedendo a ciascuno di rapportarsi, preoccupandosene, pure alla condotta degli altri soggetti coinvolti nel contesto. Tale pretesa d’interazione prudente individua, sembra a questa Corte, il canone per definire il fondamento ed i limiti della colpa di cooperazione.

La stessa pretesa giustifica la deviazione rispetto al principio di affidamento e di autoresponsabilità, insita nell’idea di cooperazione colposa.

Tale ordine di idee si rinviene, ad esempio, in alcune prese di posizioni di questa Corte, che hanno tratteggiato le ragioni che, in nome della cooperazione come modello di doveroso accrescimento dell’efficienza delle cautele, possono giustificare il coinvolgimento anche di soggetti che, nell’ambito di una determinata organizzazione, svolgono un ruolo subalterno e meno qualificato e che, conseguentemente, facilmente svolgono nei fatti un ruolo meno significante. E’ stata così enunciata, ad esempio, la necessità di un rapporto reciprocamente critico-dialettico tra primario ed assistente ospedaliero, nonostante la posizione subordinata e meno qualificata di quest’ultimo; che ha comunque il dovere di manifestare l’eventuale dissenso rispetto alle scelte terapeutiche (da ultimo Cass. 4^, 17/11/1999, Rv. 215443).

Alla luce di tali principi la pronunzia di merito non appare censurabile per ciò che attiene all’applicazione dell’art. 113 c.p..

Si è visto che la Corte ha correttamente ravvisato una patente, rimproverabile violazione del limite di continenza nella gestione delle procedure di immobilizzazione del fuggitivo. Come si è già evidenziato, le condotte specificamente incaute e drammaticamente lesive sono state individuate da un lato nella non necessaria immobilizzazione a terra della vittima ammanettata, accompagnata dalla incongrua protratta pressione sulla gabbia toracica sino alla completa inibizione della respirazione; e dall’altro nella altrettanto inutile pressione violenta sul capo, al punto da determinare la già descritta lesione cranica, anch’essa letale. Tali condotte, peraltro, sono espressione di un approccio complessivamente altamente incauto che ha caratterizzato tutta l’azione, lungamente protratta, degli agenti. Tale impropria scelta di azione coinvolge la sfera di responsabilità di tutti gli agenti, proprio alla luce della loro convergente attività che senza dubbio da corpo al contesto fattuale di cooperazione che, come si è visto, radica l’ambito di applicazione della colpa di concorso. In breve, la consapevolezza di agire in cooperazione imponeva a ciascuno non solo di operare per proprio conto in modo appropriato, ma anche di interrogarsi sull’azione altrui se del caso agendo per regolarla moderandola. Tale azione è mancata in tutti gli agenti e per tutti, dunque, si configura la colpa concorsuale che, come pure si è detto, abbraccia tutte le condotte, non solo quelle tipiche (lo schiacciamento della testa, la compressione del torace) ma anche quelle di comune partecipazione agevolatrice.

La valutazione in questione non consente distinzione neppure per gli agenti che hanno agito per legare le gambe del giovane evaso. Tale azione, infatti, costituisce solo un frammento della protratta condotta illecita che (secondo quanto insindacabilmente ritenuto in fatto dal giudice di merito) è ancor più inutilmente proseguita senza dissenso alcuno, sino al gesto finale della compressione del capo in terra che ha determinato la cessazione di qualunque reazione della vittima, avendo cagionato la letale lesione emorragica intracranica.

3.2.3. E’ invece fondato il motivo di ricorso afferente alla determinazione della pena, prospettato da tutte le difese, sia pure con diverse sfumature.

Come si è visto, la Corte ha determinato la pena base, per tutti gli imputati, in misura assai elevata, ben lontana dal minimo edittale e per D.N.C. addirittura vicinissima al massimo. Tale severa valutazione si fonda su due argomenti: la giovane età della vittima ed il discredito per l’immagine delle forze dell’ordine.

La prima valutazione ha delicate implicazioni di principio. Come è noto l’art. 133 cod. pen., individua, tra i fattori che devono orientare la discrezionalità del giudice, la gravità del danno.

Tale dizione chiama in causa l’entità della lesione del bene giuridico protetto dalla norma incriminatrice. Sul presupposto che tale entità sia in concreto graduabile, è dunque razionale che possa prendersi in esame la gravità del pregiudizio subito dalla vittima anche in connessione con la sua età. Un ambito in cui viene tipicamente ammessa una considerazione del genere è, ad esempio, quello dei reati sessuali: l’età immatura, infatti, ben può generare un più grave danno allo sviluppo della personalità.

Per il bene della vita tale genere di ponderazione appare assai ardua per l’evidente ragione che si è in presenza di pregiudizio non graduabile. La vita è in sè oggetto di rigorosa protezione; ed assai pericoloso sarebbe un modello commisurativo che si ispirasse all’età, alle condizioni di salute o ad altre qualità della persona. Da tale modello, infatti, discenderebbe che, proporzionalmente, l’entità della sanzione potrebbe essere determinata in misura minima nei confronti di persone anziane, malate, minorate. Tali soggetti, allora, si troverebbero esposti a minore protezione; con conseguenze allarmanti sia sul piano dei principi che per la concreta esposizione a rischi maggiori di categorie di persone che, viceversa, richiedono accresciuta, solidale difesa.

Oltre a ciò, in una più ampia prospettiva, non si può mancare di considerare che proprio la minore capacità di difesa delle categorie di cui si discute può connotare di maggiore gravità l’illecito e giustificare una sanzione più rigorosa.

Di tale ordine di idee si rinviene traccia in una disposizione cruciale come l’art. 41 cpv. cod. pen., che, nell’escludere che cause preesistenti possano "interrompere" il nesso causale, si è ispirato ad un’antica tradizione che considera irrilevanti, ai fini della spiegazione giuridica dell’evento, le patologie della vittima che possano aver favorito l’evoluzione del processo eziologico.

Conclusivamente, si può affermare che la commisurazione della pena fondata, nella elevata misura che si è detta, esclusivamente sull’età della vittima è fuori dal sistema di orientamento della discrezionalità giudiziaria delineato dall’ordinamento penale.

Pure criticabile è l’altro fattore utilizzato: il discredito per le forze dell’ordine. Non vi è dubbio che il richiamo dell’art. 133 c.p., alla gravità del danno faccia riferimento non solo a quello derivante, con relazione di diretta immediatezza, dalla lesione del bene protetto, nel caso di specie la vita umana; ma anche a quello che a sua volta discende dalla perdita della vita: si pensi, ad esempio, al caso in cui la morte interrompa la realizzazione di un’opera socialmente importante. Tuttavia tale ponderazione del danno nelle sue espressioni indirette non può neppure estendersi oltre misura, sino a comprendere pregiudizi che si collocano in una dimensione remota rispetto all’atto lesivo. A tale limite sembra approssimarsi, in un caso di omicidio colposo, la considerazione del danno all’immagine subito dal soggetto che governa l’attività delle persone che quel danno hanno cagionato.

Ma ciò che più conta è che la motivazione, a tale riguardo, mostra un grave errore logico per incoerenza interna dell’argomentazione. La sentenza, infatti, è intessuta di pesanti, insistiti rilievi critici nei confronti dell’amministrazione dell’Interno sia per il deficit di addestramento del personale, sia per la mancata fornitura alle pattuglie di dotazioni che vengono ritenute essenziali. In un tale quadro, che delinea l’evento come frutto anche delle indicate carenze, la scelta di fondare l’esemplarità della sanzione sul pregiudizio all’immagine subito dall’autorità di polizia appare logicamente incoerente. L’evento, così come descritto dalla pronunzia di merito, costituisce frutto anche di carenze addestrative; sicchè appare logicamente dissonante valutare il caso in termini di particolare gravità per via del pregiudizio all’immagine subito dall’ente responsabile dell’addestramento, visto che (secondo la ponderazione della Corte d’appello) quel discredito è la conseguenza inevitabile di una trascurata gestione del dovere di formazione del personale che grava sulla Polizia.

La motivazione sulla pena appare infine censurabile per omissione;

poichè trascura la ponderazione dei parametri previsti dall’art. 133 cod. pen., comma 2, relativo alla personalità dell’imputato ed alla sua "capacità a delinquere". E’ vero che la motivazione sulla determinazione della pena può ben essere stringata, limitandosi a richiamare fattori della vicenda illecita che vengono ritenuti di decisivo rilievo; ma, tanto più quando ci si discosta da ponderazioni di routine, non si può mancare si prendere in esame uno dei versanti del modello di valutazione legale, quello appunto afferente alla persona del condannato. Tale onere motivazionale va adempiuto tanto più quando il fatto, così come ritenuto e descritto nella sentenza, mostra fattori che, per come prospettati, appaiono non privi di significato. Risalta, allora, il silenzio su una circostanza lungamente tratteggiata: la immotivata, incontrollabile aggressività e reattività della vittima, indotta dalla condizione di alterazione che si è detta, e tradottasi anche nel ferimento, privo di giustificazione, dell’agente T.S. intervenuto per primo. Si tratta di una contingenza idonea a riverberarsi sulla valutazione della colpevolezza degli agenti, quantomeno sotto il profilo delle particolari difficoltà connesse alla gestione di una situazione tanto inusuale e pericolosa.

Pure privo di giustificazione è il silenzio sulla incensuratezza e sulla meritevolezza di pena anche nella prospettiva rieducativa, considerati i curricula personali al servizio della collettività. A tali questioni la Corte fa in verità un cenno nel contiguo ambito, pure esso pertinente alla commisurazione della pena, relativo all’entità della diminuzione della sanzione per effetto delle attenuanti generiche. Pure qui, però, la pronunzia erra. Il primo giudice, come si è sopra accennato, aveva ridotto la pena in misura massima, considerando l’incensuratezza e la difficoltà dell’intervento. La Corte d’appello riconsidera la questione nell’ambito della differente, meno grave fattispecie ritenuta.

Tuttavia essa non solo trascura di considerare tali fattori, sia pure nel nuovo contesto di illiceità, così venendo meno all’obbligo di motivare la revisione critica della precedente valutazione; ma soprattutto propone argomenti nuovi che appaiono censurabili:

l’irrilevanza dell’incensuratezza e la gravità della colpa dovuta all’inadeguata preparazione. Gli errori logici e giuridici sono diversi.

E’ vero che l’osservanza della legge è un dovere, e non solo per gli agenti di polizia; ma il fatto di attenersi in concreto a tale dovere operando nel rispetto della legge ed anzi al suo servizio non è certo irrilevante. Ancora, è vero che per un agente di polizia il rispetto della legge penale è un dovere che ha una valenza rimarcata e quasi ovvia. Tuttavia non è scontata la scelta esistenziale (che sta a monte di tale rafforzato dovere) di porsi professionalmente al servizio della legge e contro il crimine, tanto più quando non risulti che tale scelta, non priva anche di positiva connotazione etica, non sia mai stata in precedenza vulnerata con comportamenti illeciti o comunque irrispettosi dei doveri dell’Ufficio. Dunque, sotto tale profilo la valutazione è ad un tempo illogica e contrastante con l’art. 133 cod. pen., comma 2.

Un’analoga radicale censura colpisce l’altro argomento. La sentenza descrive comportamenti ingiustificatamente aggressivi protratti per un lungo lasso di tempo, che considera contrari ad un basilare canone di prudenza ed avvedutezza: in ciò radica la colpa. Si cade dunque in una grave incoerenza interna quando, per determinare la pena, si considera come principale elemento di colpa il deficit di addestramento. L’incoerenza diventa addirittura macroscopica e sorprendente se si considera da un lato che l’addestramento è dovere dell’ente da cui il personale di polizia dipende e che il suo deficit non può essere posto a carico dell’agente, che ne è anzi in certo modo la vittima; e dall’altro che, nella situazione data; il giudice ha positivamente ritenuto accertata una grave carenza nell’istruzione, particolarmente in ordine alle tecniche di immobilizzazione idonee ad evitare pericoli per le persone trattenute. Anche qui, dunque, il vizio logico si coniuga con l’errore giuridico nella lettura del concetto normativo di colpa.

Infine una specifica censura coglie la valutazione della posizione del D.N.C., cui è stata irrogata la pena più elevata: la Corte, come correttamente dedotto, omette senza giustificazione di considerare da un lato la spontaneità dell’intervento e dall’altro la mancanza di informazioni sulla personalità della vittima e sulla particolare alterazione psico-fisica da cui era in quel momento affetta.

In conclusione il punto della decisione inerente alla determinazione della pena deve essere annullato con rinvio, ai fini di una completa riconsiderazione del tema alla luce dei principi sopra espressi.

4. Quanto sin qui esposto risponde a tutti i motivi di ricorso proposti dall’avv. Cricri con unico atto nell’interesse degli imputati B.V., C.M., C.F., D.N.C. e I.A.; nonchè a parte dei motivi proposti nell’interesse degli altri imputati.

Restano da esaminare le seguenti deduzioni.

4.1 Per ciò che attiene ai motivi proposti dal codifensore di C.F.:

4.1.1 Con riferimento al motivo sintetizzato sub 2.1.1., del tutto correttamente la Corte d’appello ha ritenuto che, pur in presenza di carenze nell’addestramento, l’ordinaria prudenza avrebbe comunque scongiurato l’esito drammatico, sicchè non viene meno una condotta colpevole eziologicamente rilevante.

4.1.2. Quanto alla mancata ammissione della perizia medica (2.1.2.), con apprezzamento immune da vizi logici e non sindacabile nella presente sede di legittimità, la Corte d’assise d’appello ha ritenuto (pag. 11) che tale indagine non fosse necessaria alla luce delle esaustive acquisizioni disponibili.

4.13 La deduzione di violazione del divieto di reformatio in peius (2.1.3.) è infondata. E’ ben vero che, come ritenuto anche dalla Sezioni unite, tale principio, nel giudizio d’appello, riguarda non solo l’entità complessiva della pena, ma tutti gli elementi autonomi che concorrono alla sua determinazione (Sez. Un. 7/09/2005, Rv.

232066). Tuttavia, occorre considerare che, come ripetutamente ritenuto anche recentemente da questa Corte, quando in appello, in accoglimento di deduzione difensiva, il fatto venga diversamente e più favorevolmente qualificato, la nuova configurazione della sfera dell’illiceità giustifica una rinnovata autonomia di giudizio da parte del giudice sia per quanto attiene alla ponderazione tra le circostanze ai sensi dell’art. 69 cod. pen., con conseguente possibilità di ritenere equivalente una circostanza dal primo giudice ritenuta prevalente (Cass. 5^, 22 maggio 1998, rv. 213974;

Cass. 2^, 28 maggio 2008, rv. 240618), sia per quanto riguarda l’entità della diminuzione di pena dovuta ad una circostanza attenuante. In tale contingenza, infatti, si delinea un diverso scenario d’illiceità che può giustificare una differente valutazione di circostanze già considerate nel precedente contesto, che, naturalmente, deve essere adeguatamente motivata.

4.1.4 Il motivo sub 2.1.4 difetta di specificità non essendo esplicitato a cosa concretamente si riferisca la lamentata violazione dell’art. 116 cod. pen..

4.2. Per ciò che riguarda il ricorso nell’interesse di M. A.:

4.2.1 I motivi sub 2.2.1. e 2.2.2. sono inammissibili poichè tentano di introdurre impropriamente nella presente sede di legittimità la riconsiderazione del merito che è stato oggetto, da parte della Corte d’assise d’appello, della ricostruzione sopra esposta, che appare ampiamente articolata ed immune da vizi logici.

4.2.2 Quanto al motivo sub 2.2.3., la Corte d’appello ha analizzato la complessiva rilevante gravità delle condotte, pervenendo implicitamente ad escludere che, in tale contesto, alcuna di esse abbia avuto un peso minimo.

4.2.3. Infine in relazione al motivo sub 2.2.5. afferente all’insufficiente addestramento, si richiama quanto esposto a proposito di analogo motivo presentato dall’imputato C.F. (4.1.1.).

5. Dalla vittoria delle parti civili quanto alla responsabilità degli imputati C.F., I.A., C.M., M. A., **** e D.N.C., ed alla conseguente fondatezza della pretesa risarcitoria, discende la condanna di costoro al pagamento delle spese delle medesime parti civili che appare equo liquidare come in dispositivo.

P.Q.M.

Annulla la sentenza impugnata nei confronti di T.S. e rinvia per nuovo esame alla Corte d’appello di Napoli, altra sezione.

Annulla la medesima sentenza nei confronti di C.F., I.A., C.M., M.A., B.V., e D.N.C. limitatamente al trattamento sanzionatorio e rinvia sul punto alla medesima Corte.

Rigetta nel resto i ricorsi di tali ultimi imputati che condanna al pagamento delle spese in favore delle parti civili ***** ed R.A. che liquida in complessivi Euro 5.000,00 oltre I.V.A. e C.P.A. come per legge.

Redazione