Corte di Cassazione Penale sez. III 9/9/2009 n. 34870; Pres. Lupo E.

Redazione 09/09/09
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OSSERVA

1. Provvedimento impugnato e motivi del ricorso – La sentenza impugnata ha confermato la decisione del Tribunale di Firenze di condannare l’odierno ricorrente per il reato di violenza sessuale (art. 609 bis c.p.) che sarebbe da lui stato commesso nei confronti della ex fidanzata ( O.M.).

Secondo l’accusa, l’uomo era passato a trovarla a casa con una scusa;

avevano chiacchierato e l’uomo aveva chiesto e mangiato della frutta, poi le aveva chiesto di far salire un amico che aspettava in macchina. La ragazza aveva rifiutato obiettando che l’abbigliamento che indossava al momento non era consono (un top ed una minigonna) ma, a quel punto, l’imputato aveva preso a fare apprezzamenti su di lei a toccarla ed a chiederle di avere un rapporto. A fronte del diniego della donna, "l’aveva trascinata in camera da letto, – scacciando con una pedata il cane, un innocuo cucciolone di sei mesi – l’aveva gettata sul letto e, sovrastandola con il proprio corpo, costretta a subire un rapporto sessuale, malgrado la ragazza avesse pianto, si fosse divincolata e l’avesse implorato di smettere".

Secondo la querela in seguito sporta, dopo che l’uomo aveva lasciato l’appartamento, la ragazza si era asciugata con un asciugamano, poi consegnato agli inquirenti, sul quale furono trovate tracce di liquido seminale. Il giorno successivo ai fatti, la querelante si era confidata con il proprio fidanzato dell’epoca insieme al quale si era recata a casa dell’imputato per una spiegazione. Non lo avevano trovato ma, incontrati colà i genitori di F.S. – all’epoca la compagna dell’imputato – tutti insieme erano andati a denunciare il fatto dai Carabinieri.

L’imputato, dopo aver negato in un primo tempo ogni cosa in sede di s.i.t. dai CC, aveva poi ammesso l’accaduto sostenendo di essere stato invitato dalla donna che lo aveva cercato accennandogli di essere in crisi con il proprio ragazzoni che quando lui era andato a trovarla vi era stato un rapporto del tutto consenziente.

Avverso tale decisione, hanno proposto ricorso l’imputato ed il suo difensore deducendo:

1) violazione di legge penale e processuale in quanto: a) erroneamente – con riferimento all’art. 192 c.p.p. – è stata ritenuta attendibile la persona offesa e fondandosi l’accusa solo sulle sue parole ed in assenza di qualsivoglia riscontro esterno (es. certificati attestanti lesioni); b) si asserisce tautologicamente che la p.o. non avrebbe avuto alcun motivo per calunniare; c) non sono state valutate le peculiarità del reato e la decisione è stata fondata su quanto "unilateralmente appreso"; non sono stati considerati adeguatamente riscontri oggettivi come l’assenza di lesioni (non confermate nella visita) censurando il fatto che la Corte abbia definito questo dato "neutro";

2) mancata assunzione di una prova decisiva come i tabulati telefonici dai quali dimostrare chi avesse "promosso" l’incontro;

3) mancanza o manifesta illogicità della motivazione perchè i giudici di merito, pur avendo ritenuto di dover interpretare i presenti fatti alla luce delle dinamiche interpersonali tipiche dei "giovani moderni" "soliti ad avere relazioni sentimentali con rapporti sessuali, allacciate e sciolte senza dare troppa importanza a ciò", hanno poi emesso sentenza di condanna.

Il ricorrente conclude invocando l’annullamento della sentenza impugnata.

MOTIVI DELLA DECISIONE

2. Il ricorso è infondato e deve essere respinto.

Al di là della denominazione formale data al vizio denunciato dal ricorrente nel primo motivo, deve rilevarsi che, nei contenuti, si mira a chiedere al giudice di legittimità una rilettura degli atti probatori per pervenire ad una diversa interpretazione degli stessi più favorevole alla tesi del ricorrente, la qual cosa equivale ad una censura in punto di fatto e non inerente ad errori di diritto o vizi logici della decisione impugnata.

Ed infatti, l’error in procedendo – tale è nominalmente il motivo dedotto – ricorre per far valere un vizio procedimentale che dia luogo, ad esempio, ad una inutilizzabilità, alla violazione di una regola nell’ammissione o nell’assunzione di una prova o persino ad un travisamento della prova (avere il giudice di merito fondato la decisione su una prova inesistente).

Al contrario, qui il ricorrente punta a mettere in discussione il tipo di lettura che i giudici di merito hanno dato degli atti e cioè, detto in altri termini, a porre in discussione l’affermazione di attendibilità della persona offesa e la valutazione delle risultanze processuali.

Ciò, però, non attiene al rispetto delle regole di assunzione della prova bensì alla loro valutazione, che è cosa diversa e va inquadrata nel controllo della motivazione cui è tenuto il giudice di legittimità.

In tale ottica, però, valgono i principi più volte affermati da questa S.C. in base ai quali la censura di diritto può riguardare soltanto la logica della chiave interpretativa; se, quindi, nella decisione impugnata, ricorrono termini o argomenti che trovano una spiegazione coerente con il contesto ipotizzato, se le ragioni sono sostenute da elementi di fatto acquisiti in atti e se, in sostanza, il giudice del merito ha "fotografato" correttamente la realtà sulla scorta di quanto accertato, la verifica del provvedimento gravato si deve intendere esaurita positivamente non potendo estendersi ad una valutazione della prova "al punto da optare per la soluzione che si ritiene più adeguata alla ricostruzione dei fatti, valutando, ad esempio, l’attendibilità dei testi o le conclusioni di periti o consulenti tecnici (sez. 4^, 17.9.04 n., cricchi, rv. 229690).

Trasferendo tali principi nel caso in esame, deve osservarsi che nessuna delle critiche che il ricorrente muove – nel primo e nel terzo motivo – al ragionamento motivazionale della Corte è fondato.

In primo luogo, va smentita con fermezza l’asserzione del ricorrente secondo cui la decisione sarebbe stata adottata solo "su quanto unilateralmente appreso".

Invero, la decisione in esame si segnala, in primo luogo, per la completa e puntuale ricostruzione del susseguirsi degli eventi e, quindi, per una scrupolosa disamina delle emergenze processuali.

Tra queste, è indubbio che le parole della querelante costituiscano la "base" della decisione; tuttavia esse non sono state affatto recepite acriticamente ma, al contrario, sono state vagliate in dettaglio, valutate sia sotto il profilo della loro attendibilità intrinseca sia nell’ottica delle dichiarazioni difensive dell’imputato e delle deposizioni di soggetti diversi ( F. S., F.S., B.A. e la CT psicoioga).

Si è trattato di una verifica oggettiva dei fatti quali emergono, da un lato, dalle parole della querelante e, dall’altro, da quelle delle persone diversamente coinvolte ed anche di una verifica logica.

Di qui, l’attenta disamina circa l’esistenza di possibili ragioni di astio – ipotizzate dalla difesa dell’imputato – che avessero potuto portare la querelante a calunniare l’imputato. La ricerca è stata scrupolosa (ff. 5 e 6) ed è stata svolta argomentando con lucidità e coerenza attraverso dati fattuali desunti dal comportamento tenuto dalla querelante dopo la violenza denunciata (come riferiti da un’amica) ed attraverso considerazioni consequenziali quali, ad esempio il rilievo che non ha senso sostenere che la ragazza avesse accusato falsamente l’imputato per aver dovuto sostenere un rapporto "non protetto" dal momento che, se fosse vera la tesi dell’imputato secondo cui il congresso carnale sarebbe stato consenziente (anzi, addirittura stimolato da una telefonata – invito della ragazza), "ella avrebbe avuto agio di chiedere al partner di usare il condom, ovvero si sarebbe premunita per evitare il rischio di gravidanza (assumendo la pillola ad hoc) e dunque non avrebbe avuto motivo di avere rancore alcuno nei confronti del partner" (f. 6).

Sempre per citare a titolo esemplificativo uno dei tanti giusti argomenti svolti nella sentenza per giustificare la credibilità annessa alla p.o., merita di essere evocato quello censurato dal ricorrente (nel terzo motivo) come espressione di contraddittorietà della sentenza.

L’affermazione secondo cui "i giovani moderni" … "sono soliti ad avere relazioni sentimentali con rapporti sessuali, allacciate e sciolte senza dare troppa importanza a ciò" va letta, innanzitutto, nel contesto in cui viene formulata e, cioè, per dare il giusto "peso" all’ipotesi di una gelosia del compagno della querelante (altra astratta causa, per la stessa, di mentire onde "giustificare" un rapporto consenziente con il S.). In secondo luogo, va rilevato che l’osservazione – che rispecchia correttamente un comune modo di sentire attuale delle fasce giovanili – non legittima in ogni caso censure di contraddittorietà perchè la disinvoltura nell’intrecciare rapporti sessuali da parte di ambo i sessi non deve mai far perdere di vista la necessità che ciò avvenga consensualmente,sì da non risolversi in un sopruso di una parte sull’altra.

La sentenza in esame, da qualunque profilo la si voglia esaminare, è ineccepibile.

Da correttamente conto anche delle leggere discordanze nel racconto della vittima ma, giustamente, le supera evidenziando che si tratta di "punti secondari" (f. 6) come ad esempio – aveva citato l’appellante (f. 4) – la descrizione di abiti che indossava al momento del fatto. Agevole dare ragione ai giudici di merito sia perchè, effettivamente, è del tutto insignificante l’abbigliamento della ragazza (dovendosi ritenere ormai pacifica la libertà per ognuno di indossare ciò che si vuole e dovendosi escludere che un abbigliamento potenzialmente seduttivo della donna "giustifichi" in alcun modo un abuso sessuale) sia perchè, opportunamente, la Corte valorizza il fatto che la parte lesa "ha sempre mantenuto costante e fermo il punto focale della sua accusa, id est, l’essere stata costretta ad un coito da lei non consentito" (f. 6).

Un ulteriore punto che merita risposta alle deduzioni del ricorrente afferisce il fatto che la Corte abbia definito "neutro" il dato dell’assenza di lesioni.

E’ chiaro che anche questa affermazione va contestualizzata: nel momento in cui la Corte dopo ampio ragionamento – nel corso del quale mostra di tenere in debito conto anche le ragioni dell’imputato al punto da vagliare scrupolosamente l’accusa proprio nell’ottica di una potenziale validità della tesi della calunnia – e, quindi, considerate anche tutte le altre emergenze (testimonianze e ct.), perviene al convincimento della credibilità della querelante, ovvia è la conclusione che sia ininfluente la circostanza che, a seguito di visita medica, sulla vittima non siano state riscontrate lesioni nè generiche nè specifiche.

Le prime non avrebbero avuto ragion d’essere perchè nello stesso racconto della vittima non risulta essere stata espletata una costrizione fisica tale da giustificare tracce (quali graffi, ematomi o simili); ella infatti ha riferito di essere stata "trascinata in camera da letto" dove è stata "sovrastata dal peso e dalla forza dell’uomo" rispetto al quale la sua difesa si era risolta nel piangere, scalciare e divincolarsi.

Non va poi giustamente dimenticato che la vittima non era alla prima esperienza sessuale (aveva avuto una relazione con lo steso imputato e ne aveva una in atto con B. all’epoca del fatto) corretta quindi è la considerazione della Corte che la visita ginecologica ha evidenziato uno status quo "compatibile, sia, con un rapporto consenziente, sia, con un coito avente le modalità riferite dall’interessata".

Per altro verso, non deve tralasciarsi neanche di osservare che esiste una consulenza tecnica psicologica che assevera il fatto che è incontestato che la ragazza "oltre ad essere stata sottoposta ad un trattamento psicoterapeutico dalla psicoioga S., è stata seguita da uno psichiatra (dott. P.) dal (omissis) per uno stato ansioso, con spunti depressivi, riferito come reattivo alla violenza sessuale subita".

La inevitabile conclusione della piena correttezza della motivazione della decisione impugnata, cui le considerazioni che precedono conducono, è supportata infine dal rilievo che neanche il secondo motivo di ricorso può trovare accoglimento. La asserita "decisività" della prova invocata risente infatti dello stesso pregiudizio con cui il ricorrente ha cercato di valorizzare l’abbigliamento (verosimilmente succinto) della vittima quasi che esso potesse costituire una causa di giustificazione del gesto violento posto in essere dall’imputato. Analogamente, è tanto poco decisivo stabilire chi abbia telefonato per primo tra l’imputato e la vittima e chi abbia sollecitato l’incontro che, anche ammesso che fosse stata la ragazza a fare la telefonata, ciò non avrebbe in alcun modo autorizzato l’imputato ad una iniziativa di tipo sessuale poi chiaramente non voluta dalla querelante (trascinata in camera da letto, spogliata con violenza e sovrastata con il corpo dell’imputato). Questa S.C. ha ripetutamente affermato, infatti, (Sez. 3^ 21.9.07, ***********, Rv. 237930; Sez. 3^ 24.2.04, ********, Rv. 228687).

Che il consenso agli atti sessuali deve perdurare nel corso dell’intero rapporto senza soluzione di continuità, con la conseguenza che integra il reato di cui all’art. 609 bis la prosecuzione di un rapporto nel caso in cui il consenso originariamente prestato venga meno "in itinere" a seguito di un ripensamento o della non condivisione delle forme o modalità di consumazione dell’amplesso. Di ciò deve assolutamente tener conto l’altro soggetto non potendo invocare a propria discolpa un consenso iniziale.

Qui, poi, non si discute neanche di consenso iniziale al rapporto ma solo di una telefonata – eventualmente – fatta dalla ragazza verso l’imputato. Premesso che i tabulati potrebbero, semmai solo provare ciò e non anche il suo contenuto, nuovamente deve dirsi che, anche ipotizzando che nel corso di tale conversazione la querelante avesse lasciato intendere al S. una propria "disponibilità", di certo essa non persisteva più nel momento in cui l’uomo presentatosi a casa ha fatto le proprie avances.

Tanto basta ed avanza per legittimare l’esclusione di ogni "decisività" nella prova (acquisizione dei tabulati telefonici) invocata dal ricorrente.

Nel respingere il ricorso, segue, per legge, la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali nonchè alla rifusione delle spese della parte civile che liquida in Euro 3.000,00 oltre spese generali ed accessori di legge.

Va, invece, accolta la richiesta di correzione dell’errore materiale avanzata dalla parte civile disponendosi la rettifica della sentenza impugnata nel senso che la data di nascita dell’imputato S. E. è quella del (omissis).

P.Q.M.

Visti gli artt. 637 e seg. c.p.p. rigetta il ricorso e condanna al pagamento delle spese processuali nonchè alla rifusione delle spese della parte civile che liquida in Euro 3.000,00 oltre spese generali ed accessori di legge; dispone correggersi la sentenza impugnata nel senso che la data di nascita dell’imputato S.E. è quella del (omissis).

Redazione