Corte di Cassazione Penale sez. III 13/10/2009 n. 39718; Pres. Onorato P.

Redazione 13/10/09
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OSSERVA

1) Con sentenza del 21.10.2008 la Corte di Appello di Venezia confermava la sentenza del GIP del Tribunale di Venezia in data 25.10.2005, con la quale B.E., previo riconoscimento della circostanza attenuante di cui all’art. 609 bis c.p., u.c. e delle circostanze attenuanti generiche ed applicata la diminuente per la scelta del rito, era stato condannato alla pena di mesi 10 di reclusione per il reato di cui all’art. 609 bis c.p. in danno di Bo.Ba.; pena sospesa.

Dopo aver richiamato la ricostruzione della vicenda operata dal GIP (la Bo. era stata assalita improvvisamente mentre era intenta, nel locale in cui lavorava, alla mescita del vino al tavolo, dove con alcuni amici sedeva il B., il quale mettendole le mani sui glutei l’aveva attirata a sè facendola sedere sulle sue ginocchio, afferrandole e palpeggiandole i seni), riteneva la Corte che non vi fosse stato alcun uso distorto dei poteri, riconosciuti al giudice dall’art. 441 c.p., comma 5, nell’acquisizione delle dichiarazioni testimoniali della parte offesa. Secondo la Corte territoriale infatti l’art. 441 c.p., comma 5 introduce nel rito abbreviato, al pari di quanto previsto per il dibattimento dall’art. 507 c.p.p., un meccanismo a tutela dei valori costituzionali di legalità che presiedono all’esercizio dell’azione penale. Il principio dispositivo ha nel processo soltanto una funzione espansiva del potere della parti ma non preclusiva dell’accertamento dei fatti.

Tanto premesso, riteneva la Corte assolutamente attendibile la versione dei fatti fornita dalla parte offesa, la quale, se avesse avuto intenti calunniatori, non si sarebbe di certo azzardata a presentare querela citando come testimoni i presenti (amici dell’imputato), i quali avrebbero potuto smentirla.

Non attendibili apparivano, invece, le dichiarazioni dei predetti i quali, contraddittoriamente, avevano palesemente cercato di ridimensionare il gesto dell’amico, precisando che si era trattato di uno scherzo.

Infine, secondo la Corte territoriale, non c’era dubbio alcuno che la condotta posta in essere dall’imputato rientrasse nella nozione di atto sessuale, inteso in senso oggettivo, come aggressione alla sfera sessuale del soggetto passivo.

2) Propone ricorso per cassazione il B., a mezzo del difensore, denunciando con il primo motivo la violazione di legge in relazione all’art. 178 c.p.p., lett. c) o art. 191 c.p.p. ovvero sollevando questione di illegittimità costituzionale dell’art. 441 c.p.p., comma 5.

Una lettura costituzionalmente orientata di tale norma non può che far ritenere che il giudice possa esercitare i poteri di integrazione probatoria soltanto se necessario. Una diversa lettura violerebbe il principio del giudice terzo ed imparziale e contrasterebbe con gli artt. 24, 11 e 3 Cost..

Secondo la proposta interpretazione dell’art. 441 c.p.p., comma 5 non può che competere al giudice di appello il controllo del requisito della necessità di acquisizione dei nuovi elementi probatorii con possibile alternativa sanzione processuale di nullità ex art. 178 c.p.p. oppure di inutilizzabilità ex art. 191 c.p.p. del materiale acquisito.

Non c’è dubbio che la contraddittorietà probatoria rilevata dal GIP per disporre l’esame della parte offesa, lungi dal costituire motivo per esercitare i poteri di cui all’art. 441 c.p.p., comma 5, avrebbe dovuto portare all’assoluzione dell’imputato.

Non prevedendo tale norma il diritto alla controprova, una diversa (rispetto a quella proposta) interpretazione non si sottrarrebbe alla eccepita incostituzionalità.

Con il secondo motivo denuncia il vizio di mancanza, manifesta illogicità e contraddittorietà della motivazione. Con i motivi di appello era stata dedotta la completa inattendibilità della parte offesa e, per contro, la piena attendibilità dei testi in ordine alle modalità della condotta posta in essere dal B.; la motivazione della sentenza tace completamente su tali rilievi. Non vi è prova di palpeggiamenti dei glutei e dei seni.

Con il terzo motivo deduce la violazione di legge ed il vizio di motivazione in relazione all’art. 609 bis c.p.. Non qualsiasi contatto con zona erogena costituisce atto sessuale.

A seguito del gesto scherzoso del ricorrente che attirò a sè la p.o. vi fu solo un contatto glutei-ginocchio che palesemente non può essere qualificato come atto sessuale.

Con il quarto motivo denuncia il vizio di motivazione in ordine alla ritenuta sussistenza dell’elemento psicologico del reato. Non vi fu alcuna coartazione della libertà di autodeterminazione sessuale, avendo l’imputato agito con intento scherzoso (tale atteggiamento esclude il fine di concupiscenza).

Chiede, pertanto, l’annullamento della sentenza impugnata.

3) Il ricorso è infondato e va, pertanto, rigettato.

3.1) Quanto all’eccezione di nullità e/o inutilizzabilità del materiale acquisito dal GIP a seguito della disposta integrazione probatoria, venendo denunciata la violazione di norme processuali il giudice di legittimità è giudice anche del fatto.

Tanto premesso, rileva, innanzitutto, il Collegio che il ricorrente parte da un presupposto erroneo e cioè che le affermazioni della Bo., contenute nell’atto di querela, fossero state smentite dai testi.

Il Gip, nel disporre l’integrazione probatoria evidenziava che la Bo. non era stata sentita a s.i.t. in sede di indagini preliminari e che, comunque, appariva necessario esaminare la predetta, per la delicatezza della contestazione, essendo emerse "circostanze non propriamente collimanti con quanto illustrato nell’atto di querela".

La presenza di circostanze non collimanti non significava ovviamente che vi fosse un contrasto insanabile, tale da giustificare una pronuncia assolutoria ex art. 530 cpv. c.p.p. per contraddittorietà degli elementi probatori acquisiti.

L’inesistenza di siffatto presunto contrasto viene ribadita, come si vedrà meglio in seguito, dalla Corte territoriale, secondo cui i testi addotti dall’imputato non avevano affatto smentita la ipotesi accusatoria, essendo piuttosto le loro dichiarazioni evasive (soprattutto in ordine alle frasi pronunciate dal B.) e contrastanti tra di loro.

Essendo utilizzabili tutti gli atti legittimante acquisiti nella fase delle indagini preliminari, non c’è dubbio alcuno che potesse essere valutato come fonte di prova il contenuto dell’atto di querela, che, come si è visto, non era stato affatto smentito dall’altro materiale probatorio acquisito.

La decisione di disporre la integrazione probatoria ex art. 441 c.p.p., comma 5, lungi dal "danneggiare" l’imputato, si risolveva quindi in una indubbia garanzia difensiva, venendo la Bo. sentita in contraddittorio, con la possibilità per la difesa di procedere al controesame della stessa e di far emergere, anche attraverso il meccanismo delle contestazioni, la inattendibilità del contenuto dell’atto di querela.

3.1.1) Ha evidenziato la Corte territoriale che l’art. 441 c.p.p., comma 5 introduce nel rito abbreviato un meccanismo analogo a quello previsto dall’art. 507 c.p.p. per il dibattimento a tutela dei valori costituzionali di legalità che presiedono all’esercizio dell’azione penale.

In relazione specificamente all’art. 507 c.p.p. la Corte Costituzionale, nel respingere l’eccezione di incostituzionalità di detta norma, assumeva "che i giudici rimettenti muovevano da una concezione alla stregua della quale il nuovo codice processuale non tenderebbe alla ricerca della verità ma solo ad una decisione correttamente presa in una contesa dialettica tra le parti, secondo un astratto modello accusatorio nel quale un esito vale l’altro, purchè correttamente ottenuto. E’ ben vero che l’esigenza di accentuare la terzietà del giudice – perciò programmaticamente ignaro dei precedenti sviluppi della vicenda procedimentali – ha condotto ad introdurre, di massima, un criterio di separazione funzionale delle fasi processuali, allo scopo di privilegiare il metodo orale di raccolta delle prove, concepito come strumento per favorire la dialettica del contraddittorio e la formazione nel giudice di un convincimento libero da influenze pregresse. Ma tale opzione metodologica non ha fatto trascurare che fine primario ed ineludibile del processo penale non può che rimanere quello della ricerca della verità, e che ad un ordinamento improntato al principio di legalità, nonchè al connesso principio di obbligatorietà dell’azione penale non sono consone norme di metodologia processuale che ostacolino in modo irragionevole il processo di accertamento del fatto storico necessario per pervenire ad una giusta decisione. Il potere conferito al giudice dall’art. 507 c.p.p. è, dunque, un potere suppletivo, ma non certo eccezionale. La configurazione del siffatto potere come eccezionale, e quindi da escludere in caso di decadenza o inattività delle parti, discende, nella logica presupposta dai giudici remittenti, dall’assunzione dell’immanenza del nuovo codice, come conseguenza della scelta accusatola, di un principio dispositivo in materia di prova. Si tratta, però, di un assunto che non trova riscontro nè nei principi della delega nè nel tessuto normativo concretamente disegnato nel codice. Il legislatore delegante ha cioè esattamente considerato, in armonia con l’eliminazione delle disuguaglianze di fatto posto dall’art. 3 Cost., comma 2, – che la parità della armi delle parti normativamente enunciata può talvolta non trovare concreta verifica nella realtà effettuale, sì che il fine della giustizia della decisione può richiedere un intervento riequilibrante del giudice atto a supplire alle carenze di taluna di esse, così evitando condanne o assoluzioni immeritate" (Corte Cost. 26 marzo 1993 n. 111, ******).

Anche la giurisprudenza di questa Corte, dopo alcune contrastanti decisioni, è ormai consolidata nel ritenere (pur alla luce della nuova formulazione dell’art. 111 Cost.) che il giudice possa esercitare il potere di disporre d’ufficio l’assunzione di nuovi mezzi prova, previsto dall’art. 507 c.p.p., anche con riferimento a quelle prove che le parti avrebbero potuto richiedere e non hanno richiesto, rimanendo comunque impregiudicata la facoltà della parti di richiedere l’ammissione di nuovi mezzi di prova ai sensi dell’art. 495 c.p.p., comma 2 (Cass. sez. un. n. 41281 del 17.10.2006). Tale decisione ribadisce il principio già enunciato dalle stesse sezioni unite con la sentenza n. 11227 del 6.11.1992, secondo cui l’esercizio del potere previsto dall’art. 507 c.p.p. può essere esercitato anche con riferimento alle prove che le parti avrebbero potuto richiedere e che alla ammissione della prova ex art. 507 c.p.p. il "giudice non potrebbe non far seguire l’ammissione anche delle eventuali prove contrarie".. Una interpretazione costituzionalmente orientata delle norme che prevedono poteri istruttori da parte del giudice comporta, invero, il riconoscimento del diritto alla prova contraria.

E difatti questa Corte, applicando tali principi al rito abbreviato, da un lato, ha ritenuto che "il potere integrativo istruttorio del giudice previsto dall’art. 441 c.p.p., comma 5 è esercitarle anche nel momento stesso in cui viene disposto il giudizio abbreviato, difettando una qualunque previsione in senso contrario e considerato che, sulla base degli atti, il giudice può sin dal primo momento valutare la necessità di acquisire ulteriori elementi necessari alla decisione" (Cass. sez. 6 n. 36236 del 7.7.2004, **********) e, dall’altro, ha affermato che all’imputato "che abbia richiesto il rito speciale senza integrazioni probatorie deve riconoscersi, nel caso in cui il giudice assuma d’ufficio nuovi elementi necessari alla decisione, il diritto alla controprova….. secondo una ragionevole analogia con l’interpretazione giurisprudenziale dell’art. 507 c.p.p." (Cfr. Cass. sez. 5 n. 11954 dell’8.2.2005, ******; cass., sez. 5 n. 19388 del 9.5.2006).

Una siffatta interpretazione costituzionalmente orientata dell’art. 441 c.p.p., comma 5 rende manifestamente infondata la denunciata incostituzionalità della norma. Peraltro la stessa Corte Costituzionale, nel dichiarare la manifesta inammissibilità della questione di legittimità costituzionale dell’art. 438 c.p.p., comma 5 sollevata con riferimento all’art. 111 c.p.p., comma 2 (nella parte in cui non prevede il diritto del PM. di chiedere l’ammissione di prova contraria nell’ipotesi in cui l’imputato abbia depositato il fascicolo delle investigazioni difensive e contestualmente formulato richiesta di giudizio abbreviato) ha "suggerito" di esplorare la concreta praticabilità delle soluzioni offerte dall’ordinamento al fine di porre rimedio alla denunciata anomala sperequazione tra accusa e difesa (cfr. ordinanza n. 245 del 2005). Ha evidenziato, invero, la Corte che "il remittente, nell’esprimere le ragioni per cui il potere di assumere, eventualmente anche d’ufficio, gli elementi necessari alla decisione, attribuito al giudice dall’art. 441 c.p.p., comma 5, non sarebbe idoneo a rendere la disciplina censurata conforme a Costituzione, trascura di considerare che nel nuovo giudizio abbreviato il potere di integrazione probatoria è configurato quale strumento di tutela dei valori costituzionali che devono presiedere l’esercizio della funzione giurisdizionale, sicchè proprio a tale potere il giudice dovrebbe far ricorso per rassicurare il rispetto di quei valori". 3.2) La L. 15 febbraio 1996, n. 66 ha unificato la congiunzione carnale violenta e gli atti di libidine previsti dalla normativa previgente nella nozione unitaria di atti sessuali, collocando detti reati tra i delitti contro la persona invece che tra quelli contro la moralità pubblica ed il buon costume. La sfera sessuale, quindi, diventa diritto della persona di gestire liberamente la propria sessualità, con la conseguenza che la condotta rilevante penalmente va valutata in relazione al rispetto dovuto alla persona ed all’attitudine ad offendere la libertà di determinazione della stessa. Non c’è dubbio, pertanto, come ribadito anche di recente da questa Corte (cfr. Cass. sez. 3 n. 28815 del 9.5.2008, *****) che "la ratio e la lettera della norma inducono a dare di atti sessuali una nozione "oggettiva", facendovi rientrare cioè tutti quegli atti che siano oggettivamente idonei ad attentare alla libertà sessuale del soggetto passivo con invasione della sua sfera sessuale. L’aggettivo sessuale attiene al sesso dal punto di vista anatomico, fisiologico o funzionale, ma non limita la sua valenza ai puri aspetti genitali, potendo estendersi anche a tutte le altre zone ritenute erogene dalla scienza non solo medica, ma anche psicologica, antropologica e sociologica (cfr. ex multis Cass. pen. sez. 3 n. 25112/2007; Cass. pen. sez. 3 11.1.2006 – *******; Cass. sez. 3 1.12.2000, *******;

Cass. sez. 3 n. 7772/2000, Calò). Sicchè nella nozione di atti sessuali debbono farsi rientrare tutti quelli che siano idonei a compromettere la libera determinazione della sessualità della persona e ad invadere la sua sfera sessuale (in questa facendo rientrare anche le zone erogene) con modalità connotate dalla costrizione (violenza, minaccia o abuso di autorità), sostituzione ingannevole di persona, ovvero abuso di inferiorità fisica o psichica. Tra gli atti idonei ad integrare il delitto di cui all’art. 609 bis c.p. vanno ricompresi anche quelli insidiosi e rapidi, purchè ovviamente riguardino zone erogene su persona non consenziente (come ad es. palpamenti, sfregamenti, baci)- cfr. Cass. pen. sez. 3 n. 549/2005. Per quanto riguarda l’elemento soggettivo è significativo che la normativa introdotta con la L. n. 66 del 1996 abbia eliminato ogni riferimento al concetto di libidine La relazione al codice con riferimento all’art. 521 c.p. faceva riferimento allo "sfogo dell’appetito di lussuria" e la dottrina prevalente riteneva atti di libidine quelli, diversi dalla congiunzione carnale, diretti ad eccitare la concupiscenza verso piaceri carnali, turpi per se stessi o per le circostanze in cui si cerca di provocarli, ovvero diretti a soddisfare tale concupiscenza. Peraltro già sotto l’imperio della disciplina previgente qualche pronuncia aveva ritenuto che nella previsione dell’art. 521 c.p. non fosse richiesto il fine di eccitare o soddisfare la propria libidine. "Tale fine è estraneo alla lettera ed allo spirito della norma, la quale ha per oggetto la tutela della libertà sessuale del soggetto costretto o indotto; onde è indifferente che chi costringe o induce lo faccia per lucro, per depravazione, per disprezzo, per immondo gusto dello spettacolo o per gioco, purchè egli agisca con la coscienza e volontà di costringere od indurre taluno a commettere atti di libidine su sè stesso, sulla persona del colpevole o su altri.." (cfr. Cass. pen. sez. 1, 25.11.1971 n. 843, ***** ed altri).

Tale pronuncia era in qualche modo anticipazione (con il riferimento alla libertà sessuale) e si inseriva nel dibattito culturale che avrebbe poi portato all’approvazione della nuova normativa.

Non c’è dubbio alcuno, allora, che l’elemento soggettivo del reato di cui all’art. 609 bis c.p. consista nella coscienza e volontà di compiere un atto lesivo della libertà sessuale della persona e di invadere la sua sfera sessuale senza il consenso della stessa (dolo generico). Irrilevante pertanto è il fine propostosi dal soggetto attivo che può essere diretto a soddisfare la sua concupiscenza, ma anche di altro genere (ludico o di umiliazione della vittima)". 3.2.1) Tanto premesso, i giudici di merito correttamente hanno ritenuto che la condotta posta in essere dal B. vada qualificata come atto sessuale.

Va ricordato che, pacificamente, nell’ipotesi di conferma della sentenza di primo grado, le due motivazioni si integrano a vicenda, confluendo in un risultato organico ed inscindibile al quale occorre far riferimento per giudicare della congruità della motivazione.

Allorchè quindi le due sentenze concordino nell’analisi e nella valutazione degli elementi di prova posti a fondamento delle rispettive decisioni, la struttura motivazionale della sentenza di appello si salda con quella, precedente per formare un unico complesso corpo argomentativo (cfr. ex multis Cass. sez. 1 n. 8868 del 26.6.2000 – *********).

Il GIP aveva già evidenziato che dalle dichiarazioni, pienamente attendibili della parte offesa, emergeva che la condotta posta in essere dal B. era consistita nel mettere le mani sui glutei della Bo. facendola sedere a forza sulle sue ginocchio e tenendola stretta a contatto con il suo corpo, e nell’afferrare e palpeggiare i seni della donna. Secondo il GIP l’aggressione alla sfera sessuale della Bo. era, oltre che dal l’oggettività della condotta, ulteriormente confermata dalle frasi pronunciate dall’imputato. Il B. aveva infatti esclamato "nessuno ha il coraggio di farlo, lo faccio io" e poi, dopo gli avvenuti palpeggiamenti, "Tutto qua? Non sei nemmeno un gran che, pensavo fossi meglio". Tali frasi trovavano spiegazione nella circostanza, pure emersa, che la Bo. si era sottoposta ad un intervento di tipo estetico al seno.

Dopo la disamina delle risultanze processuali, riteneva il GIP, con argomentazioni logiche e coerenti, che il B., avesse voluto mettersi in evidenza davanti agli amici, ponendo in essere la condotta descritta nel capo di imputazione per "verificare" gli esiti dell’intervento estetico.

La Corte di Appello ha confermato il giudizio di piena attendibilità della Bo. sottolineando, in particolare, che se la donna avesse voluto calunniare il B. per trarne "profitto", non "avrebbe dovuto collocare l’aggressione in un contesto del genere ed indicare degli amici di B. a riscontro delle false accuse".

E non ha affatto escluso che vi siano stati i palpeggiamenti al seno, essendosi limitata ad affermare che il B. "quantomeno ha palpeggiato i glutei della Bo." (pag. 9). Che vi siano stati i palpeggiamenti è confermato, anche secondo la Corte territoriale dalla frase sopra riportata, che non sarebbe stata pronunciata dall’imputato "se non avesse palpeggiato la donna" (pag. 13).

La Corte di merito ha, quindi, esaminato (anche comparativamente) le dichiarazioni dei testi, pervenendo, con argomentazioni corrette ed immuni da vizi logici, ad un giudizio di complessiva inattendibilità degli stessi. Ha infatti evidenziato che il contrasto tra le accuse della querelante e le dichiarazioni di Z., C., M. e Ma. non sono affatto insuperabili: essi infatti, tutti amici del B., sentiti dai carabinieri cercarono di ridimensionare la gravità del fatto, incorrendo però in contraddizioni ed inverosimiglianze. E significativo, peraltro, secondo la Corte territoriale che i testi sopraindicati non ricordino la frase pronunciata dall’imputato "fortemente allusiva ad un toccamento in zone erogene" (frase che, peraltro, neppure l’imputato ha escluso di aver pronunciato, limitandosi anche egli ad affermare di non ricordarla).

3.2.2) Con il ricorso viene sostanzialmente prospettata una diversa lettura delle risultanze processuali. Tali prospettazioni non tengono conto, però, che il controllo demandato alla Corte di legittimità va esercitato sulla coordinazione delle proposizioni e dei passaggi attraverso i quali si sviluppa il tessuto argomentativo del provvedimento impugnato, senza alcuna possibilità di rivalutare in una diversa ottica, gli argomenti di cui il giudice di merito si è avvalso per sostanziare il suo convincimento o di verificare se i risultati dell’interpretazione delle prove siano effettivamente corrispondenti alle acquisizioni probatorie risultanti dagli atti del processo. La Corte di legittimità ha, quindi, solo il compito di verificare che siano razionali le argomentazioni giustificative relative ai dati empirici assunti dai giudici di merito come elementi di prova, alle inferenze formulate ed ai criteri posti a sostegno dei risultati probatori.

Anche a seguito della modifica dell’art. 606 c.p.p., lett. e), con la citata L. n. 46 del 2006, il sindacato della Corte di Cassazione rimane di legittimità: la possibilità di desumere la mancanza, contraddittorietà o la manifesta illogicità della motivazione anche da "altri atti del processo specificamente indicati nei motivi di gravame", non attribuisce al giudice di legittimità il potere di riesaminare criticamente le risultanze istruttorie, ma solo quello di valutare la correttezza dell’iter argomentativo seguito dal giudice di merito e di procedere all’annullamento quando la prova non considerata o travisata incida, scardinandola, sulla motivazione censurata (cfr. Cass. pen. sez. 6 n. 752 del 18.12.2006; Cass. pen. sez. 2 n. 23419/2007 – *********).

3.2.3) Essendo sufficiente il dolo generico, non c’è dubbio alcuno che il ricorrente avesse, pienamente, la coscienza e volontà di compiere atti lesivi della libertà sessuale, come è reso evidente dalla più volte ricordata frase da lui stesso pronunciata.

E’ irrilevante, come si è visto, che nell’aggressione alla sfera sessuale della Bo. il B. si proponesse di soddisfare la propria concupiscenza sessuale o volesse semplicemente compiere un’azione "dimostrativa" in presenza degli amici. Sul punto, trattandosi di questione di diritto, va precisata ed integrata la motivazione della sentenza impugnata.

3.3) Al rigetto del ricorso segue la condanna alla spese processuali, nonchè alla rifusione delle spese sostenute in questa fase dalla costituita parte civile, che si liquidano, come da richiesta, in complessivi Euro 2.450,00 oltre accessori di legge.

P.Q.M.

Dichiara manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dedotta. Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali ed alla rifusione delle spese a favore della parte civile liquidate in complessivi Euro 2.450,00, oltre accessori di legge.

Redazione