Corte di Cassazione Penale sez. II 15/5/2009 n. 20515; Pres. Esposito A.

Redazione 15/05/09
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RITENUTO IN FATTO

Con sentenza in data 6 giugno 2007, la Corte di appello di Milano, in riforma della sentenza del Giudice delle indagini preliminari presso il Tribunale della stessa città in data 12 luglio 2002, e a seguito di giudizio di rinvio da parte di questa Corte, condannava F. A. alla pena di anni due, mesi quattro di reclusione per il delitto di peculato in concorso.

La Corte territoriale ricostruiva preliminarmente la vicenda processuale portata al suo esame rilevando che l’imputato era stato chiamato a rispondere del delitto di peculato perchè, nella sua qualità di membro e Presidente del collegio sindacale della soc. Simec p.a., aveva sistematicamente omesso di rilevare le frodi che emergevano dalla contabilità sociale, così consentendo agli amministratori della stessa società e, segnatamente, a tale C., deceduto per suicidio, B.G., Be.

P. e G.L., di dilatare artificiosamente i costi della gestione di una discarica, gestione che era sostanzialmente l’unico oggetto sociale, per ottenere dall’AMSA la liquidazione di una tariffa di volta in volta maggiore di quella predeterminata nella concessione; così appropriandosi di denaro pubblico per un importo non inferiore a L. 150 miliardi pari alla differenza tra quanto anticipatamente corrisposto dall’AMSA a titolo di compenso alla concessionaria SIMEC per il servizio di smaltimento dei rifiuti solidi urbani – società, quest’ultima, sulla quale gravava l’obbligo di rendiconto annuale alla Regione Lombardia del reale costo del servizio stabilito nella Convenzione – e quanto avrebbe dovuto invece esserle corrisposto sempre sulla base alla Convenzione, nel caso in cui fosse stato presentato, come dovuto, un rendiconto reale.

Ciò posto, la Corte territoriale ricostruiva la vicenda processuale rilevando che il primo giudice, adito con il rito abbreviato, aveva mandato assolto l’imputato per gli episodi di distrazione di cui alla rubrica con formula ampia, ritenendo del tutto assenti gli elementi di responsabilità contestati: in altri termini, ad avviso del primo giudice, il F. non aveva in alcun modo, istigato, ispirato o rafforzato la volontà di coloro che avevano materialmente posto in essere la condotta di peculato per distrazione e, per l’effetto, doveva ritenersi del tutto assente l’elemento soggettivo del reato.

Avverso tale decisione proponeva appello il pubblico ministero che si doleva, in particolare, a) della assoluta evidenza della natura distrattiva di molte delle operazioni poste in essere, b) della sicura consapevolezza da parte del F., della natura distrattiva delle operazioni, per avere lo stesso partecipato a tutte le sedute del collegio sindacale, c) della necessità di un controllo effettivo da parte del Collegio sindacale circa la gestione della società la cui unica attività doveva essere la costruzione e gestione della discarica in questione.

La Corte territoriale confermava la decisione del primo giudice affermando, tra l’altro, che la qualità di membro del collegio sindacale non comportava anche il controllo in ordine all’eventuale rispetto da parte degli amministratori della società, degli obblighi relativi alla citata Convenzione.

A seguito di ricorso del Procuratore generale, questa Corte, con sentenza 19 gennaio 2006, annullava con rinvio la predetta decisione osservando che il controllo del collegio sindacale si articolava in tre momenti fondamentali, il ricognitivo, il valutativo e il dinamicocomminatorio, il secondo dei quali era sicuramente un controllo di legalità che, seppure non poteva sostituirsi ai criteri di opportunità e convenienza individuati nella gestione dagli amministratori, tuttavia non poteva limitarsi al mero riscontro formale dell’attività stessa.

In altri termini, la Corte affermava che la sentenza impugnata non si era affatto posta il problema del perchè potessero essere sfuggite al Presidente del collegio sindacale "attività macroscopicamente illecite, quali affari estranei all’attività sociale, operazioni simulate, acquisizioni ad alto prezzo e dismissioni subitanee e ravvicinate a prezzo vile".

La Corte territoriale, in qualità di giudice di rinvio, delimitava in via preliminare l’ambito di cognizione del nuovo giudizio osservando che dovevano ritenersi già congruamente esaminate, e, per l’effetto, sottratte a qualsivoglia sindacato, sia la questione concernente la stessa configurabilità del delitto di peculato, sia la questione concernente l’asserita, apparente, imprecisa contestazione del delitto medesimo, sia, infine, quella relativa al contenuto dei doveri gravanti sui sindaci: si tratta, osservava la Corte territoriale, di questioni che, esplicitamente o implicitamente, la Corte di cassazione aveva definito e che, per l’effetto, non dovevano essere riesaminate in sede di rinvio.

Ciò premesso, la Corte territoriale individuava l’oggetto del proprio giudizio nell’accertamento della sussistenza o meno dell’elemento soggettivo del reato di peculato con particolare riferimento alla risposta alla domanda "se i sindaci non avessero ricevuto nel corso della gestione sottoposta al loro controllo, allarmi tanto gravi da dover chiedere chiarimenti agli amministratori".

Nell’affrontare tale tematica, il giudice di appello analizzava approfonditamente alcune operazioni poste in essere dalla società evidenziando, per ciascuna di esse, il carattere artificioso e fraudolento della attività di gestione e l’entità delle distrazioni operate dagli amministratori della società.

Nel concludere la rassegna delle principali distrazioni commesse, rilevava, infine, la Corte territoriale che le citate operazioni erano state sistematiche e la relativa spoliazione della società aveva assunto, pertanto, caratteri strutturali.

In conclusione, la Corte affermava che il F., dal semplice esame delle operazioni condotte dalla SIMEC, doveva ricevere allarmi tanto gravi da imporre la richiesta di chiarimenti agli amministratori o a chi di fatto operava per conto della società.

La determinazione della pena veniva fissata come da dispositivo.

Avverso tale sentenza propongono ricorso per cassazione i difensori dell’imputato deducendo violazione di legge e mancanza e/o contraddittorietà della motivazione, con sei specifici motivi di ricorso.

In particolare, dopo aver ricostruito la vicenda processuale, con il primo motivo, la difesa deduce la nullità della sentenza perchè fondata su un presupposto di diritto del tutto erroneo, che l’annullamento, cioè, fosse solo parziale e che, di conseguenza, il giudizio di rinvio non potesse riguardare, in particolare, la qualificazione giuridica del fatto e la correttezza della contestazione: rileva sul punto il ricorrente che il F., sia in primo che in secondo grado, era stato assolto con formula pienamente liberatoria e che di conseguenza lo stesso non aveva avuto alcun interesse a proporre appello, anche incidentale, prospettando le relative questioni, avverso le sentenze di assoluzione.

Ne consegue che, non essendo utilmente richiamabile la giurisprudenza in materia di formazione progressiva del giudicato che concerne solo ipotesi di annullamento parziale di sentenze di condanna, mentre nel caso di specie l’annullamento attingeva una sentenza di proscioglimento, il giudizio di rinvio doveva necessariamente ritenersi esteso a tutto ciò che aveva concretamente formato oggetto della originaria devoluzione.

Con un secondo motivo, logicamente consequenziale all’accoglimento del primo, i difensori dell’imputato chiedono la nullità della sentenza per omessa o erronea motivazione in ordine alla ricostruzione del fatto: se la vicenda processuale si fosse sviluppata lungo i binari fattuali tracciati dalla Corte territoriale, doveva ritenersi configurabile non già il reato di peculato ma quello di truffa, atteso che l’erogazione di somme non dovute sarebbe stata conseguita tramite gli artifizi e raggiri di cui all’imputazione.

Viceversa, ad avviso della difesa, la tariffa applicata era quella indicata in sede di presentazione ed approvazione del progetto di discarica e non era soggetta ad alcuna revisione e l’unica ipotesi di rideterminazione della tariffa medesima era legata allo scostamento dei parametri che avevano concorso al calcolo della stessa.

Quanto, poi, al successivo periodo caratterizzato dalla proroga della Convenzione, la Corte, pur a fronte di provvedimenti amministrativi contingibili ed urgenti che avevano escluso il presupposto su cui si fondava l’accusa di peculato, e cioè la sussistenza di un obbligo di rendicontazione, aveva ritenuto ugualmente configurato il reato di peculato.

Con il terzo motivo, la difesa deduce la nullità della sentenza per erronea applicazione dell’art. 314 cod. pen.: il delitto di peculato presuppone, infatti, quale antecedente imprescindibile della condotta, che il pubblico ufficiale abbia il possesso del bene, possesso conseguito legittimamente per ragione di ufficio o di servizio.

Viceversa, nella specie, la Corte territoriale aveva affermato che la SIMEC, attraverso l’artificiosa lievitazione dei costi di gestione della discarica e la fraudolenta esposizione di passività inesistenti, aveva potuto chiedere tariffe sempre maggiori con aumenti sempre concessi dall’AMSA, organismo quest’ultimo che, in presenza di costi inesistenti, aveva fatto affluire nelle casse della concessionaria somme non dovute: pertanto, prosegue il ricorrente, secondo la stessa ricostruzione dei fatti operata in sentenza, mancherebbe il presupposto necessario per la stessa sussistenza del delitto di peculato e cioè il previo legittimo possesso del denaro.

Con un quarto motivo, il ricorrente deduce la nullità della sentenza per violazione dell’art. 40 cpv. c.p..

Per ritenere sussistente il concorso dei sindaci nel reato di peculato commesso dagli amministratori della società, con specifico riferimento a una concessione ottenuta da un ente pubblico, occorre che l’attività di (omesso) controllo riguardi quelle violazioni (degli amministratori) che possano determinare la perdita dell’attività di impresa a seguito della revoca della concessione:

occorre in altri termini verificare se le violazioni indicate fossero di tale natura da comportare una revoca del provvedimento di concessione e, quindi, da ricadere nell’obbligo di controllo del sindaco. Tale giudizio di merito, demandato dalla Cassazione al giudice di rinvio, sarebbe stato completamente eluso dalla Corte territoriale che avrebbe dovuto analizzare le violazioni contestate per stabilire se fossero di tale natura da determinare la revoca della concessione.

Inoltre, prosegue il ricorrente, sarebbe stata omessa ogni indagine per valutare in concreto tali violazioni.

Con un quinto motivo, si deduce la mancanza, contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione con specifico riferimento al nesso di causalità tra le omissioni rilevate e il reato ritenuto in sentenza: poichè la responsabilità penale del sindaco non può affermarsi in ragione del mancato esercizio dei doveri di controllo, ma solo nella misura in cui l’omesso controllo abbia avuto una diretta incidenza, un contributo causale nella commissione del reato, era necessario un approfondito esame, del tutto mancante nella sentenza di rinvio, dell’eventuale nesso tra il ritenuto omesso controllo e i fatti delittuosi attribuiti agli amministratori.

Sarebbe stato cioè necessario, prosegue il ricorrente, accertare se i sindaci, esercitando i loro poteri, avrebbero potuto impedire, con probabilità vicina alla certezza, le condotte degli amministratori.

Con il sesto ed ultimo motivo, il ricorrente deduce l’erronea applicazione degli artt. 42 e 43 cod. pen.: premesso che la responsabilità del sindaco concorrente nel reato degli amministratori con la propria condotta omissiva, sussiste solo laddove si accerti la consapevolezza che con il proprio silenzio si agevola la consumazione del reato, nella specie l’esame della Corte territoriale sarebbe stata del tutto carente con riferimento all’altro requisito essenziale per la sussistenza del dolo consistente nella indebita percezione di denaro versato da AMSA a SIMEC e cioè di una somma di denaro pubblico di cui la SIMEC non poteva validamente disporre: in altri termini, prosegue il ricorrente, se anche il F. avesse potuto rendersi conto che la SIMEC si depauperava a dismisura, non si può da ciò solo concludere per la sua consapevolezza del fatto illecito.

CONSIDERATO IN DIRITTO

Il ricorso è infondato.

Va premesso, con ciò trovando soluzione i primi tre motivi di ricorso, che, a norma dell’art. 624 c.p.p., comma 1, se l’annullamento non è pronunciato per tutte le disposizioni della sentenza, questa ha autorità di cosa giudicata nelle parti che non hanno connessione essenziale con la parte annullata. In altri termini, al giudice di rinvio è attribuito potere decisorio soltanto sui "punti" che hanno formato oggetto dell’annullamento e su quelli ai medesimi inscindibilmente connessi, per la necessaria interdipendenza logico-giuridica fra le diverse statuizioni, ma non sulle parti non annullate (come, nel caso in esame, la qualificazione giuridica dei fatti) e su quelle non in connessione essenziale con le parti annullate. Di riflesso, è consentita l’impugnazione della sentenza del giudice di rinvio soltanto in relazione ai punti annullati – e a quelli in rapporto di connessione essenziale con essi – e non decisi dalla Corte di cassazione, ovvero per inosservanza dell’obbligo di uniformarsi alla sentenza di annullamento per ciò che concerne tutte le questioni di diritto con essa decisa (Sez. 1, Sentenza n. 4882 del 21/03/1996, Rv. 204637).

Questa Corte ha, altresì, affermato che il giudicato parziale interno rende intangibili le statuizioni della sentenza da esso coperte, e prevale rispetto a qualsiasi causa di non punibilità, comprese le vicende estintive del reato (Sez. 3, Sentenza n. 974 del 26/11/2003, Rv. 227678).

E tale regola non soffre eccezioni nel caso in esame sol perchè, come rileva il ricorrente, l’imputato, sia in primo che in secondo grado, era stato assolto con formula pienamente liberatoria e, di conseguenza, non aveva alcun interesse a proporre appello, avverso le sentenze di assoluzione: la portata generale della richiamata disposizione e la possibilità per l’imputato, di proporre appello incidentale e di prospettare le relative questioni nel giudizio di merito, non consentono una diversa interpretazione della norma.

Per l’effetto, si osserva che caso in esame, la Corte di Appello, quale Giudice di rinvio, si è correttamente uniformata alla sentenza di annullamento parziale di questa Corte, escludendo dal proprio esame a) la questione concernente l’asserita imprecisione della contestazione del delitto di peculato, b) la correttezza della qualificazione giuridica del fatto, e, infine, c) il contenuto dei doveri gravanti sui sindaci.

Quanto al primo profilo, questa Corte ha, infatti, ritenuto "speciosa" la doglianza inerente alla supposta diversità tra la contestazione e la condotta omissiva impropria successivamente contestata al F., trattandosi semplicemente di "diverse modalità della condotta".

Quanto al secondo profilo, questa Corte ha ricordato che le appropriazioni di somme da parte degli amministratori della società concessionaria che via via si mascheravano con gli artifizi contabili, integrano gli estremi oggettivi del delitto di peculato.

Quanto, infine, al terzo profilo, è sufficiente osservare che questa Corte, dopo aver ricordato il contenuto dei doveri gravanti sui sindaci (ricognitivo, valutativo e dinamico-comminatorio) ha escluso che il sindaco debba svolgere solo una attività di mero riscontro formale dell’attività degli amministratori ed ha, viceversa, riaffermato che i controlli, anche mediante l’ausilio di tecnici, deve essere tanto più penetrante quanto più inusuali e atipiche siano le condotte dell’amministrazione controllata.

In conclusione va confermato l’assunto che al giudice di rinvio spettava solo l’onere di accertare la sussistenza dell’elemento soggettivo del reato di peculato contestato al F., di accertare cioè se i sindaci, come già rilevato in premessa, non avessero ricevuto nel corso della gestione sottoposta al loro controllo allarmi tanto gravi da imporre la richiesta di chiarimenti agli amministratori.

Ciò premesso, questa Corte osserva, analizzando gli altri motivi di ricorso che possono essere congiuntamente esaminati perchè concernenti tutti la sussistenza dell’elemento psicologico del reato da parte dell’imputato, che la Corte territoriale ha specificamente analizzato i comportamenti degli amministratori della società (cfr. pp. 7-12) con specifico riferimento ad alcune delle operazioni emerse nel corso della verifica fiscale cui fu sottoposta all’epoca la società ad opera del Nucleo regionale della Polizia tributaria della Guardia di Finanza concludendo, del tutto condivisibilmente, che il solo esame superficiale delle operazioni suddette avrebbe manifestato, in modo palese, lo sperpero e la pretestuosa distrazione di denaro della SIMEC: in particolare tali connotati, la macroscopicità delle irregolarità documentali e contabili e la sistematicità delle stesse, non potevano certo sfuggire al F., dottore commercialista, chiamato a far parte di Consigli di amministrazione anche di altre, e importanti società che, conclude sul punto la Corte territoriale, "non può non avere afferrato il senso reale delle operazioni, sistematiche e reiterate, per lo più neanche particolarmente complesse, che determinarono perdite per la società e profitti stratosferici per società composte da persone ben note ad esso sindaco".

Ne consegue che la Corte ha accertato, con una indagine di fatto la cui valutazione, se effettuata, come nella specie, con rigore logico e assoluta aderenza al dato processuale, non è censurabile in questa sede, la sicura consapevolezza da parte del F. dei comportamenti illeciti posti in essere dagli amministratori della società.

In altri termini, la Corte ha risposto affermativamente al quesito "se i sindaci avessero ricevuto allarmi tanto gravi da imporre la richiesta di ogni chiarimento agli amministratori della società".

Resta solo da accertare, vertendosi in tema di concorso per comportamento omissivo, se il sindaco aveva l’obbligo giuridico di impedire l’evento a mente dell’art. 40 cpv cod. pen., perchè, in caso di risposta affermativa al quesito, consegue automaticamente la responsabilità del F. nella vicenda in esame, non essendo certo necessario il "previo accordo" tra il sindaco e l’amministratore della società, ma apparendo affatto sufficiente la consapevolezza, da parte dell’autore del reato, di poter contare sull’inerzia o sul silenzio di chi è preposto per legge al controllo e, in capo al partecipe, la consapevolezza che il proprio silenzio servirà ad agevolare la consumazione del reato.

Con specifico riferimento ai reati fallimentari, questa Corte ha già affermato (Sez. 5, Sentenza n. 15850 del 26/06/1990, Rv. 185890) che dal disposto dell’art. 2403 c.c. e art. 2404 c.c., comma 2, si deduce che il sindaco, anche individualmente nell’esercizio dei suoi poteri di controllo e di vigilanza, ha il dovere di intervenire tutte le volte in cui gli amministratori della società (facendo od omettendo) violino la legge generale ed in particolare la legge penale. Ne consegue che nel caso in cui un sindaco abbia conoscenza di attività distrattive poste in essere da amministratori, egli ha il dovere di intervenire per impedirne la realizzazione e, in mancanza, deve essere ritenuto responsabile a titolo di concorso del delitto di bancarotta fraudolenta per distrazione eventualmente commesso.

Orbene, in via generale, questo collegio osserva, ha liminarmente, che i sindaci debbono rispondere a titolo di concorso commissivo ed omissivo, in quanto titolari di una funzione di controllo, e, in tale qualità, devono ritenersi obbligati ex lege ad impedire la commissione di un reato, secondo l’espressa previsione dell’art. 40 c.p., comma 2.

Nè dubbi possono sussistere in ordine all’ammissibilità astratta del concorso di un componente del collegio sindacale con l’amministratore di una società: la struttura unitaria del reato che trae origine dal concorso materiale o morale, non preclude, ma consente di considerare l’extraneus compartecipe nel reato proprio, e tale concorso può realizzarsi compiutamente anche attraverso una omissione, sia essa occasionale che sistematica.

Sulla problematica dei limiti del controllo del collegio sindacale, questa Corte si è già espressa, (cfr. sentenza del 26.6.1990 ric. ******* ed altri), espressamente affermando che la responsabilità degli amministratori e dei sindaci, allorquando è conseguente ad un comportamento omissivo legato all’assunzione di rischi anomali, discende dall’art. 2392 c.c., norma che impone agli amministratori di adempiere i doveri imposti dalla legge e dall’atto costitutivo con la diligenza del mandatario, obbligo espressamente richiamato dall’art. 2407 c.c. in relazione ai sindaci di una società.

Come, peraltro, già affermato anche da questa Corte con la sentenza di annullamento, l’obbligo di vigilanza dei sindaci e del collegio sindacale non è limitato al mero controllo contabile, ma deve anche estendersi al contenuto della gestione, ricomprendendo anche il cd.

"controllo di legalità" e cioè la rispondenza dei dati acquisiti ai parametri previsti dalla legge, controllo che, pur non potendo spingersi sul terreno della opportunità e della rischiosità dell’attività di gestione – di stretta competenza degli amministratori – non può certo limitarsi al controllo meramente estrinseco e formale dell’attività degli amministratori e non può certo trascurare i doveri che fanno capo agli amministratori medesimi.

In altri termini gli stessi hanno il potere-dovere di chiedere agli amministratori notizie sull’andamento delle operazioni quando queste possono suscitare, per le modalità della loro scelte o della loro esecuzione, perplessità e dubbi, e tali poteri devono essere tanto più analitici e penetranti quando circostanze specifiche o particolari ragioni di sospetto lo richiedano.

Il controllo sindacale, quindi, se non investe, in forma diretta, le scelte imprenditoriali, neppure si esaurisce in una mera verifica formale, quasi a ridursi ad un riscontro contabile nell’ambito della sola documentazione messa a disposizione dagli amministratori, ma comprende il riscontro tra la realtà e la sua rappresentazione, e abilita i sindaci a chiedere notizie sull’andamento delle operazioni, a ricevere denunce da parte dei soci su fatti censurabili nell’esercizio dell’impresa, e li obbliga a riferire nella relazione al bilancio sui concreti ed effettivi risultati dell’esercizio sociale.

Non può, quindi, fondatamente contestarsi che l’ordinamento imponga ai sindaci l’obbligo di impedire che gli amministratori compiano atti contrari alla legge e dannosi per la società fermo restando, come già affermato, che i controlli devono essere tanto più analitici quanto più gravi ed evidenti sono i segnali di "sospetto" (cfr., Sez. 5, Sentenza n. 8327 del 22/04/1998, Rv. 211368, nonchè, da ultimo, Sez. 5, Sentenza n. 17393 del 13/12/2006, Rv. 236630).

Nel caso di specie, la Corte territoriale ha, invece, accertato, con motivazione del tutto scevra da vizi logici, che l’imputato F. non solo non ha esteso la sua doverosa attività di controllo alla gestione dell’azienda, nel senso suindicato, ma non ha effettuato neppure il più semplice esame delle operazioni condotte dalla SIMEC con la conseguenza che, "se estraneo al disegno distrattivo, doveva sicuramente ricevere allarmi tanto gravi da imporre la richiesta di ogni chiarimento agli amministratori".

Il fatto che abbia omesso qualsiasi attività volta ad ostacolare "il grossolano depauperamento della SIMEC da parte di società costituite ad hoc e gestite di fatto dagli stessi amministratori della SIMEC non consente di qualificare la sua condotta diversamente dalla consapevole partecipazione".

Peraltro, come già affermato da questa Corte in sede di annullamento della prima sentenza, il concorso per comportamento omissivo da parte di chi, trovandosi in posizione di garanzia, ha l’obbligo giuridico di impedire un evento, non richiede alcun previo accordo essendo sufficiente … la consapevolezza che il proprio silenzio servirà ad agevolare la consumazione" del reato.

Alla luce di quanto sopra, consegue automaticamente il rigetto degli altri motivi di ricorso e, segnatamente, di quello concernente la asserita insussistenza del nesso di causalità tra le omissioni rilevate e il reato ritenuto in sentenza per la mancata diretta incidenza del mancato esercizio dei poteri di controllo nella commissione del reato: sulla base dei principi di diritto affermati può affermarsi che il nesso tra l’accertato omesso controllo e i fatti delittuosi attribuiti agli amministratori è, infatti, in re ipsa, involge un giudizio di fatto, ampiamente, analiticamente e del tutto condivisibilmente delibato dalla Corte territoriale e non più riproponibile in sede di legittimità.

Al rigetto del ricorso consegue la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali.

P.Q.M.

rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.

Redazione