Corte di Cassazione Civile Sezioni unite 28/9/2009 n. 20730; Pres. Papa E.

Redazione 28/09/09
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SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

La Sezione disciplinare del Consiglio Superiore della Magistratura, con sentenza dell’8 gennaio 2009 ha dichiarato il ***********, giudice presso il Tribunale di Ancona ove era addetto al settore civile,responsabile degli illeciti disciplinari previsto dal R.D.Lgs. n. 511 del 1946, art. 18 e D.Lgs. n. 109 del 2006, art. 2, per avere tenuto comportamenti abitualmente e gravemente scorretti nei confronti dei difensori, in particolare non consentendo loro di effettuare alcuna attività ai sensi degli artt. 183 e 184 cod. proc. civ., ed invitandoli comunque a rassegnare le conclusioni, per poi dichiarare inammissibile o improcedibile o improponibile la domanda, così determinando grave e persistente tensione con il foro di Ancona; nonchè per avere nell’ambito di un procedimento di ricusazione per grave inimicizia proposto da un legale nei suoi confronti, adottato espressioni e mantenuto un tono argomentativo caratterizzati da carenza di misura ed equilibrio, nonchè da contrapposizione astiosa nei confronti del legale ricusante. Gli ha inflitto la sanzione della censura e ne ha disposto il trasferimento ad altra sede.

Ha osservato al riguardo: a) che detti comportamenti si erano ripetuti in più di 100 controversie, 93 delle quali venivano concluse con la formula appena indicata senza consentire l’instaurazione di un sostanziale contraddittorio, nonchè una qualsiasi attività istruttoria, e perciò obbligando le parti a proporre reclamo ovvero a rivolgersi alla Corte di appello; b) che tale modus operandi aveva provocato numerosi esposti da parte del foro di Ancona, era stato più volte censurato dalle decisioni emesse dalla Corte di appello a seguito di impugnazione di detti provvedimenti,e definito dal Presidente della Corte di appello non compatibile con le previsioni codicistiche degli art. 187 cod. proc. civ. ed art. 80 disp. att. cod. proc. civ.; c) che questi illeciti avevano determinato altresì una situazione di grave conflittualità del magistrato con il foro di Ancona, sicuramente pregiudizievole per il buon andamento dell’amministrazione della giustizia.

Il Dott. B. per la cassazione della decisione ha proposto ricorso per 7 motivi, illustrati da memoria. Il Ministero della Giustizia non ha spiegato difese.

MOTIVI DELLA DECISIONE

Con il primo motivo del ricorso, il ********, deducendo omessa e/o insufficiente motivazione, censura la decisione impugnata per non aver dato risposta all’eccezione di nullità dell’incolpazione per genericità ed indeterminatezza anche sotto il profilo temporale: a prescindere dal fatto che la stessa era stata modificata rispetto a quella originaria ove si menzionavano diversi esposti di avvocati, successivamente non più indicati. E conteneva altresì il riferimento anche al D.Lgs. n. 109, lett. ff), in origine non presente.

Con il secondo motivo, deducendo violazione del R.D.Lgs. n. 511 del 1946, art. 78, art. 2, comma 1, lett. c), d) e g) nonchè D.Lgs. n. 109 del 2006, art. 32, si duole che detta decisione non abbia compiuto alcun raffronto tra le disposizioni precedenti al D.Lgs. n. 109, e la normativa dallo stesso risultante malgrado la maggior parte dei comportamenti addebitati era antecedente a quest’ultima, e doveva quindi stabilirsi quale trattamento risultasse a lui più favorevole:

perciò a nulla rilevando che l’esposto fosse successivo alla nuova legge perchè quasi tutti i fatti contestati erano anteriori al marzo 2006.

Le suesposte censure sono in parte inammissibili ed in parte infondate. Inammissibili laddove il ricorrente ha lamentato di essere stato rinviato a giudizio per fatti diversi da quelli sui quali è stato sentito nel corso delle indagini preliminari,e comunque che nel corso del procedimento sarebbe stato modificato il capo di incolpazione rispetto a quello in origine notificato: senza indicare e riportare le modifiche suddette e comunque le differenze tra le due incolpazioni dato che soltanto la loro trascrizione avrebbe consentito alla Corte di Cassazione – alla quale è precluso, salva la denunzia di "error in procedendo", l’esame diretto dei fatti di causa – di delibare se ed in quali termini si erano verificate le denunciate modifiche. Anche perchè nel procedimento disciplinare a carico di magistrati si ha modificazione del fatto, dalla quale scaturisce la mancanza di correlazione fra l’addebito contestato e la sentenza, soltanto quando venga operata una trasformazione o sostituzione degli elementi costitutivi dell’addebito; e non quando gli elementi essenziali della contestazione formale restano immutati nel passaggio dalla contestazione all’accertamento dell’illecito, variando solo elementi secondari e di contorno. Ovvero quando ai primi si aggiungono altri elementi su quali l’incolpato abbia comunque avuto modo di difendersi nel procedimento (Cass. sez. un. 17935/2008; 227/2001; 358/1998).

D’altra parte, le Sezioni Unite hanno ripetutamente rilevato (Cass. 1051/2000) che ove venga contestata una condotta di tipo continuativo, articolantesi in una pluralità di episodi, l’enunciazione dell’addebito in termini sintetici, senza la specificazione di ciascuno di detti episodi, non spiega effetti invalidanti, qualora non manchi l’indicazione di elementi e circostanze idonei a porre l’incolpato in grado di conoscere con completezza le accuse e quindi di svolgere ogni opportuna difesa:

tanto più che per fatto contestato, in relazione alla detta "ratio" deve intendersi non solo quello indicato specificamente nel capo di incolpazione ma quanto risulta da tutto il complesso degli elementi portati a conoscenza dell’incolpato e sui quali lo stesso è stato messo in grado di difendersi.

E nel caso il ******** ha riconosciuto che agli esposti dei legali (ben individuati) nei suoi confronti in seguito ai quali è stato iniziato il procedimento disciplinare, erano allegati i relativi provvedimenti (oltre un centinaio) in cui detto magistrato aveva precluso la possibilità di svolgere qualsiasi istruttoria sia ai sensi dell’art. 183 cod. proc. civ., che dell’art. 184 cod. proc. civ., pur se richiesta concordemente dalle parti; e che 93 di essi (tra quelli allegati) erano stati definiti, tutti con la formula onnicomprensiva e sempre identica di "inammissibilità, improcedibilità, improponibilità, carenza di legittimazione ed interesse ad agire": anch’essa ritenuta dalla decisione impugnata "per lo più frutto di forzate interpretazioni delle norme processuali"; per cui proprio su dette incolpazioni egli ha impostato tutte le sue ampie ed articolate difese.

Nessun pregiudizio, infine gli è derivato dal fatto che detti provvedimenti siano stati in parte adottati durante la vigenza del R.D.Lgs. n. 511 del 1946, art. 18, poichè detta norma conteneva un precetto seppur compiutamente definito nella descrizione della condotta deontologicamente vietata, tuttavia enunciato secondo la formula della atipicità dell’illecito, non diversa da quella adottata in tema di illecito civile dall’art. 2043 cod. civ.; laddove il nuovo art. 2, ha introdotto una tipizzazione degli illeciti, ciascuno consistente in ben individuati comportamenti ancorati a particolari presupposti: Al lume dei quali sono state giudicate tutte le incolpazioni attribuite al ricorrente, che significativamente non ha saputo indicare quale effettivo pregiudizio gli sarebbe derivato dall’applicazione della nuova normativa.

Infondato è anche il terzo motivo, con cui egli deduce manifesta illogicità della motivazione per avere la decisione disciplinare ritenuto che i suoi provvedimenti di sostanziale inammissibilità delle azioni esaminate (di cui si è detto avanti) non comportavano necessariamente un aggravio di lavori e di costi per le strutture giudiziarie, costringendo gli interessati a proporre necessariamente l’appello, in quanto ben potevano costoro riproporre identica domanda davanti al giudice di primo grado: dato che proprio l’esercizio di tale ulteriore possibilità degli interessati in aggiunta a quelle indicate dalla Sezione disciplinare, di proporre reclamo al Tribunale ovvero di impugnare la decisione definitiva davanti ai giudici di appello, dimostra ulteriormente l’uso distorto delle norme processuali da parte del ********, la cui conduzione del processo ed i cui provvedimenti questo rendevano assolutamente incompatibile con il modello di "giusto processo regolato dalla legge" individuato dall’art. 111 Cost.: posto che costringevano le parti per instaurare effettivamente il contraddittorio e/o per svolgere l’attività istruttoria necessaria a documentare le loro richieste, a ricorrere necessariamente al giudice di appello ovvero a quello del reclamo; o in alternativa a riproporre identica azione davanti ad altro giudice per ottenere quella risposta che avrebbero avuto il diritto di conseguire dal giudice già adito in base alla loro prima domanda: con gli aggravi dei costi per essi e per l’ordinamento giudiziario, nonchè con il conseguente e giustificato stato di tensione con il foro di Ancona, ben evidenziati dalla Sezione disciplinare.

Con il 4^ motivo, il ********, deducendo violazione della L. n. 109 del 2006, art. 2, nonchè della L. n. 269 del 2006, art. 1, comma 3, censura la decisione impugnata per aver qualificato abnormi e cioè al di fuori del mondo del diritto i propri provvedimenti indicati nel capo di incolpazione, senza considerare: a) che la qualifica di abnorme non può essere attribuita ad una sentenza pronunciata su profili c.d. di rito; e che comunque i provvedimenti con cui il giudice istruttore invita le parti a precisare le conclusioni, adottati da numerosi giudici di merito, non rientrano in siffatta categoria; b) che d’altra parte, proprio il fatto che l’abnormità è stata desunta dal contrasto con le disposizioni degli artt. 183 e 184 cod. proc. civ., come interpretati da questa Corte, dimostra che erano percorribili altre vie interpretative, quale quella intrapresa da esso ricorrente,non tenuto ad uniformarsi all’interpretazione recepita dal Supremo Collegio: senza che per questo i suoi provvedimenti potessero essere dichiarati affetti da ignoranza o negligenza inescusabile o come comportamenti abitualmente o gravemente scorretti nei confronti delle parti e dei loro difensori.

Con il quinto, deducendo altre violazioni delle medesime norme di legge, censura la decisione impugnata per aver considerato abnormi ovvero affetti da errore macroscopico i provvedimenti in questione senza considerare neppure: a) che la mancata fissazione dell’udienza di discussione e/o l’invito a precisare le conclusioni sono previsti dal codice in tutti i casi in cui l’attività istruttoria non sia necessaria,ovvero risulti inammissibile (come quando la legge richieda la prova solo documentale); e d’altra parte nessuno di essi impedisce alle parti di formulare o reiterare le richieste istruttorie proprio nell’udienza destinata alla precisazione delle conclusioni; b) che la stessa giurisprudenza ha più volte posto in rilievo che lo schema delineato dal legislatore è soltanto tendenziale e deve contemperarsi con l’interesse al celere svolgimento del processo; c) che infine nel periodo in contestazione egli aveva depositato ben 450 decisioni di cui soltanto una trentina impugnate;ed una soltanto riformata dalla Corte di appello.

Anche questi motivi sono infondati.

Al riguardo il collegio deve innanzitutto ribadire che i provvedimenti giurisdizionali non possono essere oggetto di sindacato in sede disciplinare per l’attività, in sè considerata, di erronea interpretazione e applicazione della legge sostanziale o, come nel caso, di disposizioni processuali. Tuttavia, come hanno già affermato le Sezioni Unite, l’insindacabilità del provvedimento giurisdizionale in sede disciplinare viene meno nei casi in cui il provvedimento sia abnorme, in quanto al di fuori di ogni schema processuale, ovvero sia stato adottato sulla base di un errore macroscopico o di grave e inescusabile negligenza (Cass. 10 gennaio 1997 n. 188). In tali casi l’intervento dell’organo disciplinare ha per oggetto non già il risultato dell’attività giurisdizionale, ma il comportamento deontologicamente deviante posto in essere dal magistrato nell’esercizio della sua funzione istituzionale.

Premesso,infatti, che i piani della correttezza della decisione del giudice e della soggezione alla responsabilità disciplinare sono assolutamente autonomi e non interferenti l’uno sull’altro, si è detto che non è il "segno" della decisione, la sua conformità o meno ad indirizzi prevalenti (ed avallati da questa Corte nella sua funzione di nomofilachia), che viene in rilievo ai fini disciplinari, ma il modo, il metodo, lo stile con cui il giudice si accinge a giudicare, dimostrando leggerezza, macroscopica superficialità, negligenza nello studio della causa, nel reperimento e nell’applicazione dei dati normativi sostanziali e processuali, nel riscontro di precedenti giurisprudenziali.

Nel sistema delle impugnazioni si giudica, infatti, il provvedimento giurisdizionale – i cui errori sono di regola riparabili attraverso gli strumenti del processo – mentre nel procedimento disciplinare si giudica il comportamento del magistrato, rispetto ai giudizi resi, in termini di impegno intellettuale e morale, di autonomia e indipendenza, di dedizione alla funzione che deve essere svolta nella piena osservanza dei doveri di ufficio: non è la "macroscopicità" dell’errore giuridico come tale a venire in considerazione, nè si richiede il deliberato proposito di disapplicare la legge, ovvero di distorcerne consapevolmente la portata, dovendosi, invece, avere riguardo ai provvedimenti emanati dal giudice come sintomo di negligenza ed imperizia suscettibili di riverberarsi negativamente sul prestigio dell’ordine giudiziario ovvero sulla credibilità del magistrato (Cass. sez. un. 9774/2001; 7/2001; 1176/2000; 1161/2000;

538/2000; 7476/1998).

In tale ottica, il Consiglio superiore ha ritenuto anzitutto che quegli errori siano punibili se intenzionali, ossia se si traducano in forme di abuso o di strumentalizzazione del processo, sia per esprimere apprezzamenti personali (sent. 12 giugno 1992 in proc. 83/91 e 35/92), sia per utilizzare l’ufficio a scopi che possano soltanto apparire diversi da quelli di giustizia (sent. 9 luglio 1993 in proc. 68/92; 27 agosto 1996 in proc. n. 63/96) o rivelino comunque un preordinato proposito di disapplicare la legge (sent. 26 febbraio 1993 n. 8/93). Ha poi, ravvisato l’illecito disciplinare in provvedimenti giudiziari errati per grave colpa, che ledano interessi costituzionalmente garantiti e comunque "estranei a qualsiasi schema processuale o sostanziale" (sent. 6 ottobre 1993 in proc. 23/93):

"collocandosi comunque al di fuori del sistema normativo" (sent. 15 luglio 1994 in proc. 50/94). Per cui la decisione impugnata ha inquadrato i provvedimenti resi dal ******** in queste ultime categorie non certamente per aver addebitato al magistrato, addetto al settore civile, di essersi discostato in uno specifico procedimento dall’interpretazione di questa Corte in ordine alla sequenza procedimentale risultante dalla normativa contenuta negli artt. 183 e 184 cod. proc. civ.; ovvero per avere in altra controversia ravvisato in modo opinabile una rinuncia di una o di entrambe le parti ad avvalersi delle loro facoltà processuali; o ancora per aver dichiarato inammissibili richieste istruttorie al di fuori dei casi in cui l’art. 2697 cod. civ., e segg., introducono limitazioni all’onere della prova: e quindi la violazione (anche sotto forma di falsa applicazione o disapplicazione) di norme di legge che egli sarebbe stato tenuto ad osservare, interpretate in maniera diversa da quella recepita dal magistrato. Ma per avere sistematicamente ed in più di 100 procedimenti, divenuti oggetto di altrettanti esposti, precluso alle parti di esercitare il proprio diritto di difesa ed in particolar modo quello dispositivo di cui all’art. 115 cod. proc. civ., o non consentito in radice l’attivazione del contraddittorio, definendo comunque 93 di detti giudizi pur aventi gli oggetti e le situazioni più variegati, sempre e comunque con la identica decisione di "inammissibilità, improcedibilità, improponibilità, carenza di legittimazione ed interesse ad agire": già di per sè contraria ad ogni logica giuridica ed ancor prima ad elementari principi di buon senso, ove si consideri che la stessa recepisce ed intende regolare in modo volutamente uniforme ed onnicomprensivo situazioni e carenze processuali peculiari e non assimilabili,tra di esse difformi e spesso contrastanti, disvelando un intendimento sanzionatorio, comunque rivolto a definire sistematicamente ed in ogni caso senza alcuna trattazione nel merito il giudizio; e perciò stesso "abnorme" rispetto all’ordinaria scansione delle fasi attraverso cui si svolge l’ordinario giudizio di primo grado, e nel contempo del tutto incompatibile con i fondamentali principi di indipendenza (art. 101 Cost.), autonomia (art. 104 Cost.), terzietà e imparzialità del giudice (art. 111 Cost., nella nuova formulazione).

In sede disciplinare è stato pertanto censurato non il risultato decisorio conseguito dal ******** in questa o quella di dette controversie – cui egli ha, perciò inutilmente opposto l’insindacabilità del provvedimento da parte dell’Organo disciplinare, posto che altrimenti a quest’ultimo sarebbe dato il potere di imporre al magistrato la propria interpretazione della legge ma il comportamento con il quale ha esplicato l’attività del giudice nell’esame di tutte, al fine di stabilire, indipendentemente dalla decisione di taluna, in ipotesi rispondente a legge ed a giustizia, se quel comportamento risultasse conforme ai principi fondamentali di autonomia, terzietà, correttezza ed equilibrio cui in ogni momento la condotta del magistrato deve uniformarsi. Ed a sostegno della motivata risposta sfavorevole al magistrato la Sezione disciplinare ha ricordato anzitutto la conseguenza pur essa "abnorme" di siffatta interpretazione tecnico giuridica delle norme processuali, che per ottenere adeguata risposta all’istanza di giustizia, l’interessato doveva necessariamente avanzare reclamo al Tribunale ovvero impugnare il provvedimento finale; o ancora, come evidenziato dallo stesso ricorrente, riproporre una seconda volta la medesima domanda, perciò necessariamente ingenerando nel foro di Ancona un persistente e grave stato di tensione e di sfiducia, che ha influito negativamente sul prestigio dell’ordine giudiziario.

Ed ancor più in concreto ha menzionato sia il giudizio del Presidente della Corte di appello di Ancona che ha ritenuto "non compatibile tale modo di procedere con le previsioni codicistiche contenute negli art. 187 cod. proc. civ. ed art. 80 disp. att. cod. proc. civ.". Sia l’addebito contenuto in uno dei provvedimenti della Corte di appello di Ancona "che in più occasioni avevano qualificato abnormi le decisioni assunte dall’incolpato con la formula omnicomprensiva" di cui si è detto (pag. 3 dec.); il quale aveva espressamente censurato tale modalità di conduzione del processo, rilevando come la stessa,oltre ad essere palesemente erronea, fosse rivolta esclusivamente "al fine di pervenire alla pronuncia di nullità radicale ed insanabile dell’atto di citazione" con il risultato pratico di "aver vanificato anni di attività processuale sulla base di considerazioni,anche attinenti ad istituti elementari del processo, palesemente errate, talvolta abnormi ed infarcite di citazioni giurisprudenziali, per lo più risalenti nel tempo e soprattutto non pertinenti": perciò sostanzialmente traducendosi in forme di abuso o di strumentalizzazione del processo, nonchè nella sostanziale rinuncia del magistrato ad interpretare in quei giudizi il ruolo giurisdizionale in modo corrispondente al modello legislativo e deontologico.

Considerazioni analoghe valgono in ordine al sesto motivo del ricorso, con cui il ******** ha ritenuto di difendersi dall’addebito di non essersi astenuto dal trattare una causa proposta dall’avv. ****************** del foro di Ancona, per via di un asserito rapporto di grave inimicizia, cui era seguita un’istanza di ricusazione, cercando di dimostrare: a) che nel caso non ricorreva il rapporto i grave inimicizia nel senso tecnico giuridico inteso dall’art. 51 cod. proc. civ.; b) che l’istanza, d’altra parte, era stata respinta smentendo altresì che egli avesse un qualsiasi obbligo di astensione; c) che a maggior ragione era stato escluso che egli fosse incorso in una violazione consapevole di siffatto obbligo.

Con tali difese, infatti, il ricorrente mostra di non aver compreso nè il contenuto dell’incolpazione, nè la ratio decidendi del provvedimento impugnato, che non hanno esaminato affatto il merito della vicenda processuale, nè hanno formulato a suo carico alcun addebito in ordine all’obbligo suddetto, ovvero al fondamento dell’istanza del legale e dei motivi dalla stessa addotti, ma hanno rimproverato al magistrato di avere presentato al collegio che doveva decidere sull’istanza di ricusazione due memorie scritte nelle quali adottava un tono argomentativo caratterizzato da contrapposizione astiosa nei confronti del ricusante ed argomentazioni non certamente improntate a terzietà, che il giudice è obbligato a mantenere anche nel corso del procedimento in cui egli assume la veste di ricusato (3 pag. 6): peraltro esclusivamente diretto, in via ordinatoria e strumentale, ed in esito ad un giudizio incidentale di tipo sostanzialmente amministrativo, ad assicurare interessi di ordine generale ed il corretto esercizio dell’attività giudiziaria da parte del giudice persona. Il quale non assume in detto procedimento la veste di parte, nè di soggetto delegato dalla norma a contraddire le ragioni della prospettata ricusazione,ma deve soltanto essere udito dal collegio giudicante in merito ad essa.

Pertanto a nulla rileva che la decisione abbia poi aggiunto nel quadro riassuntivo formulato nella parte conclusiva (p. 4, ultima parte) che "il ********** non si era astenuto in una causa civile, pur essendoci grave motivo di inimicizia con uno dei difensori, il quale aveva presentato un esposto nei suoi confronti", restando tale circostanza del tutto estranea al thema decidendum sull’incolpazione in questione, già esaminato ed esaurito nel precedente p. 3; ed essendosi la stessa sostanzialmente concretata in un’ulteriore considerazione riportata ad abundantiam, priva di qualsiasi valenza o effetto sulla decisione della Sezione già adottata per altra ragione (non censurata dal ********) sulla incolpazione di contenuto diverso: perciò inidonea a configurare pur il vizio di motivazione illogica dallo stesso denunciata nell’ambito del motivo.

Infondato è infine anche l’ultimo motivo con cui il ricorrente contesta la misura del trasferimento ad altra sede inflittagli dalla decisione impugnata denunciandone la illogicità della motivazione sia perchè l’ipotizzata abnormità delle proprie decisioni non avrebbe potuto determinare grave conflittualità con il Foro di Ancona; che d’altra parte non poteva derivare neppure da più sentenze di rigetto. Sia perchè già in precedenza la prima Commissione del Consiglio Superiore aveva già proposto l’archiviazione di un precedente esposto del Consiglio dell’Ordine degli avvocati,ritenendo che non vi fossero elementi per disporre il suo trasferimento per incompatibilità ambientale.

Il Collegio deve, anzitutto, ribadire (Cass. sez. un. 25815/2007) che in materia di procedimento disciplinare nei confronti dei magistrati, giusta la testuale previsione di cui al D.Lgs. 23 febbraio 2006, n. 109, art. 32 bis (introdotto dalla L. 24 ottobre 2006, n. 269, art. 1, comma 3, lett. q), secondo la quale per i fatti commessi anteriormente alla data di entrata in vigore delle disposizioni del presente decreto continuano ad applicarsi, se più favorevoli, le disposizioni del R.D.Lgs. n. 511 del 1946, la misura cautelare del trasferimento d’ufficio, di cui al D.Lgs. n. 109 del 2006, art. 13, comma 2, è applicabile in relazione a fatti commessi antecedentemente alla sua entrata in vigore, nonostante tale istituto non fosse previsto dalla precedente disciplina: trattandosi di misura cautelare meno afflittiva rispetto alla sospensione cautelare dalle funzioni e dallo stipendio, di cui al R.D.Lgs. n. 511 del 1946, art. 30, comma 1.

La Sezione disciplinare, poi, ha congruamente motivato la misura inflitta del trasferimento disciplinare in considerazione sia delle natura degli illeciti accertati che si erano tradotti "in un comportamento abitualmente e gravemente scorretto nei confronti delle parti e dei loro difensori, nonchè in una grave violazione di legge determinata da ignoranza o negligenza inescusabile", sia dal fatto che un tale esercizio delle funzioni giurisdizionali aveva determinato "una situazione di grave conflittualità del magistrato con il foro di Ancona sicuramente pregiudizievole per il buon andamento dell’amministrazione della giustizia": situazione conflittuale che ha altresì documentato ricordando che all’esposto del Consiglio dell’Ordine degli avvocati di Ancona, sottoscritto dal Presidente, erano allegati numerose segnalazioni provenienti da diversi professionisti del medesimo foro, che a loro volta si riferivano ad oltre cento procedimenti civili ed avevano prodotto le 93 decisioni di cui si è detto; perciò smentendo l’ipotesi formulata dal ricorrente che potesse trattarsi di un unico professionista cui il magistrato non era gradito per le sue decisioni; ovvero di diversi esposti succedutisi nel tempo, ma inoltrati dal medesimo legale.

Ed, infine, la circostanza prospettata dal B. che lo stesso Consiglio Superiore appena un anno prima, con provvedimento del 18 luglio 2007 (neppure trascritto dal ricorrente), aveva stabilito l’archiviazione del medesimo esposto non ritenendo che vi fossero elementi per disporne il trasferimento per incompatibilità ambientale,non dimostra l’illogicità della misura adottata con la decisione impugnata,essendo del tutto diverse le finalità dei due procedimenti, nonchè la loro natura ed i motivi che ne avevano determinato la valutazione; e perchè d’altra parte nel caso concreto la Sezione Disciplinare ha più che adeguatamente e congruamente valutato i fatti contestati e documentato gli elementi che dimostravano il fondamento della peculiare incolpazione addebitata al magistrato,perciò giustificando il provvedimento in questione.

Per questi motivi il ricorso va respinto.

P.Q.M.

La Corte, a sezioni unite rigetta il ricorso.

Redazione