Corte di Cassazione Civile Sezione lavoro 10/2/2009 n. 3276; Pres. Ianniruberto G.

Redazione 10/02/09
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SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Con ricorso al Tribunale di Alessandria B.L. assumeva che con S.P. era stato stipulato un contratto di lavoro stagionale per il periodo (omissis), regolato dal c.c.n.l. Pubblici esercizi, con il godimento del vitto e dell’alloggio; che il rapporto aveva avuto termine per licenziamento.

Sulla base di tali premesse, chiedeva la condanna del S. al pagamento delle somme dovute per l’intero periodo concordato, oltre le spese alberghiere sostenute in sostituzione dell’alloggio convenuto.

Il S. si costituiva ed a sua volta proponeva domanda riconvenzionale per i danni subiti a seguito di una denunzia di malattia professionale inoltrata all’INAIL dalla B. e rigettata dall’ente per la mancanza di nesso con l’attività lavorativa.

Il giudice adito accoglieva la domanda principale e rigettava quella incidentale.

A seguito di gravame del S. la Corte di appello di Torino, con sentenza 15 maggio 2005, riformava in parte la decisione impugnata, riducendo l’ammontare del danno ad Euro 8.686,91, oltre accessori, ricalcolando altresì le spese del giudizio.

Per quanto rileva ai fini del presente giudizio la Corte torinese affermava che:

a) il contratto di lavoro a termine non poteva essere risolto anticipatamente per un giustificato motivo oggettivo;

b) in ogni caso il S. aveva indicato, come integranti il dedotto giustificato motivo, circostanze di fatto contraddittorie;

c) era provato che la B. aveva diritto all’alloggio per tutta la durata del rapporto, per cui fondata era la richiesta (provata nel suo ammontare) di risarcimento per le somme sborsate per fruire di un alloggio;

d) nessun danno aveva subito il S. per la denunzia di malattia professionale, ritenuta infondata dall’INAIL. Per la cassazione di tale decisione ricorre il S. con tre motivi, illustrati da memoria.

La B. resiste con controricorso.

MOTIVI DELLA DECISIONE

I. Con il primo articolato motivo il ricorrente critica la decisione impugnata asserendo che:

a) compatibile con il contratto di lavoro a termine era il licenziamento per giustificato motivo oggettivo, consistente nel fatto che, per ragioni di organizzazione aziendale, si era reso necessario distribuire diversamente il lavoro tra i vari dipendenti, con la conseguente impossibilità di utilizzare ulteriormente l’opera della lavoratrice;

b) erronea valutazione delle prove circa l’effettiva riorganizzazione dell’attività aziendale;

c) erronea valutazione delle prove in ordine alla richiesta di danni per la permanenza in un albergo per la durata del contratto a termine, senza considerare, poi, che l’alloggio era stato offerto dalla moglie del S. per "mera scelta personale in cambio di lavori domestici";

d) non si era tenuto conto della somma di Euro 2.012,40, corrisposta, come da busta paga quietanzata dalla B., per il mese di giugno 2000.

La prima questione che, in ordine logico, si pone alla Corte, riguarda la compatibilità del recesso per giustificato motivo oggettivo con il rapporto di lavoro a termine.

E’ il caso di premettere che non è in discussione il diritto del datore di lavoro di modificare la propria organizzazione anche in vista di una migliore utilizzazione della forza lavoro e di un risparmio delle spese di gestione: l’interrogativo che si pone è se questo diritto possa rendere legittimo un recesso nei confronti del lavoratore assunto a tempo determinato.

Orbene, come giustamente ha osservato la corte di appello, la disciplina di cui alla L. 15 luglio 1966, n. 604 non si applica, per espressa previsione della stessa, ai rapporti di lavoro a tempo determinato: questo non esclude che, ricorrendo una giusta causa ascrivibile a comportamenti del lavoratore, il datore non possa recedere dal rapporto, in quanto in tale fattispecie trova pur sempre applicazione l’art. 2119 c.c., norma operante al di fuori della disciplina limitativa dei licenziamenti (cfr., tra le varie conformi, Cass. 23 dicembre 1992 n. 13597, 1 giugno 2005 n. 11692, 19 giugno 2007 n. 14186).

Diverso è il discorso per l’ipotesi in cui venga addotta come motivo del recesso ante tempus una riorganizzazione dell’assetto produttivo:

in tali casi, stante l’inapplicabilità della richiamata L. n. 604 e non rinvenendosi nel libro quinto del codice civile un’apposita disciplina, deve necessariamente farsi riferimento alle normali regole dei contratti, in forza delle quali non è consentito ad una delle parti contraenti assumere iniziative che eventualmente rendano non più (o meno) utile la prestazione della controparte. In altri termini, se in un rapporto per il quale non sia previsto preventivamente un limite di durata e sia assistito dalla garanzia di una stabilità (più o meno intensa), può pensarsi che sopravvengano delle ragioni, che rendano oggettivamente non più conveniente mantenere in vita il rapporto, ciò non vale quando la durata sia limitata nel tempo, soprattutto se è il datore che, in considerazione di particolari sue esigenze, si avvalga dello strumento del contratto a termine.

Per completezza di motivazione è il caso di osservare che il precedente di questa Corte (Cass. 16 aprile 1999 n. 3832), che apparentemente prospetta una diversa soluzione, tale non è, in quanto – nella fattispecie ivi considerata – si trattava di un contratto con clausola a termine illegittima, per il quale si è affermata la possibilità di licenziamento per giustificato motivo oggettivo proprio in considerazione del fatto che si era in presenza di un rapporto che si era convertito a tempo indeterminato.

Può pertanto concludersi sul punto affermando il seguente principio di diritto: "il rapporto di lavoro a tempo determinato, al di fuori del recesso per giusta causa ex art. 2119 c.c., può essere risolto anticipatamente non per giustificato motivo oggettivo ai sensi della L. 15 luglio 1966, n. 603, art. 3, ma solo se ricorrono le ipotesi di risoluzione del contratto previste dagli art. 1453 c.c. e segg..

Ne consegue che, qualora il datore di lavoro proceda ad una riorganizzazione del proprio assetto produttivo, non può avvalersi di tale fatto per risolvere in anticipo un contratto di lavoro a tempo determinato".

In base all’enunciato principio di diritto, del tutto irrilevante ai fini della decisione, è l’altro profilo di censura – riportato sub b) – relativo al preteso vizio di motivazione in ordine all’accertamento dell’effettiva riorganizzazione aziendale.

Inammissibile è il rilievo critico riportato sub e) in quanto l’aspetto concernente la prova del danno subito comporterebbe una valutazione dei fatti sottratta al sindacato il sede di legittimità, qualora – come nella specie – dalla sentenza impugnata non emergano contraddittorietà o vizi logici. In relazione poi al fatto che nessun obbligo avrebbe assunto il ricorrente di fornire l’alloggio, si tratta di una questione che non è stata esaminata dal giudice di appello e della quale non è stato indicato – ai fine dell’autosufficienza del ricorso – se e quando sia stata sottoposta al vaglio del giudice di merito.

Con la censura sub d) viene denunziato un errore di fatto (mancato esame di un documento attestante un pagamento), che non può essere fatto valere in sede di legittimità, ma attraverso il giudizio di revocazione ex art. 395 c.p.c., n. 4. 2. Con il secondo motivo è prospettato un vizio di motivazione in ordine alla contrattazione collettiva applicata (c.c.n.l.

Confcommercio – Pubblici esercizi, anzichè Alimentari Artigianato), nonostante l’iscrizione al settore artigianato e conseguente violazione dell’art. 2070 c.c..

Premesso che il giudice del gravame ha valutato la correttezza dei conteggi sulla base delle risultanze delle buste paga, la questione relativa alla contrattazione collettiva da applicare non risulta trattata da quel giudice, nè il ricorrente – sempre nel rispetto della regola dell’autosufficienza del ricorso – ha provveduto ad indicare se e quando detta questione sia stata proposta in sede di appello.

Questo rende inammissibile la censura di cui al secondo motivo.

3. Con il terzo motivo il ricorrente denunzia vizi di motivazione in ordine alla sua richiesta di risarcimento dei danni – di cui alla domanda riconvenzionale – per aver la lavoratrice denunziato all’INAIL una malattia professionale in realtà inesistente.

Anche questo motivo è privo di fondamento, in quanto, come correttamente si legge nella sentenza impugnata, da nessun elemento allegato dalla parte interessata emerge quale sia il pregiudizio derivatogli da tale denunzia non accolta dall’ente. Questa carenza di allegazione non risulta contrastata dal contenuto della censura ora proposta, in quanto, anche a voler ipotizzare gli estremi di reato – così come in questa sede si argomenta dal ricorrente – certamente soggetto passivo dello stesso sarebbe l’INAIL e non già il S..

4. Il ricorso deve essere rigettato e le spese del giudizio, per il principio della soccombenza, vanno poste a carico del ricorrente.

P.Q.M.

La Corte:

Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento di Euro 15,00, per spese, di Euro 3.000,00, per onorari, oltre IVA, CPA e spese generali.

Redazione