Corte di Cassazione Civile sez. IV 10/8/2009 n. 18169; Pres. Mattone S.

Redazione 10/08/09
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SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Con ricorso alla Corte di appello di Trieste R.F. ha impugnato la sentenza del Tribunale di Udine, con la quale era stata rigettata la domanda da lui proposta per sentir dichiarare invalido e/o illegittimo il licenziamento intimatogli con lettera del 6 aprile 1999 dalla Nestlè Purina Petcare Italia s.p.a., alle cui dipendenze egli aveva lavorato, dal 1 febbraio 1991, con le la qualifica di "assistente al direttore acquisti", consistendo le sue mansioni principali nel controllare l’attività dei "copackers", ossia delle piccole aziende incaricate di lavorazioni per conto della Friskies.

Con sentenza del 24 marzo 2006 la Corte d’appello ha affermato che, alla stregua degli elementi probatori acquisiti, dovevano ritenersi provati i gravi fatti posti a fondamento del licenziamento, essendo emerso che R. aveva chiesto notizie al contitolare della "Grafiche F." s.r.l.; F.M., in ordine alle caratteristiche tecniche ed ai costi dei contenitori per mangimi;

aveva poi messo questi in contatto con Fa.Pa., fornitore della Friskies; aveva quindi confermato il suo personale interesse alle iniziative di Fa.; ed aveva così violato l’art. 70 C.C.N.L. (che tra le cause di licenziamento disciplinare annoverava anche la "concorrenza sleale"). Ha precisato che R. aveva in realtà favorito Fa. (la cui intenzione di iniziare la produzione in proprio di alimenti per animali gli era ben nota) nel fornirgli notizie sia tecniche che contabili sui contenitori, tanto è vero che il secondo, ottenute le informazioni necessarie, aveva chiesto a F. di produrre per lui 500.000 astuccini usando la fustella utilizzata per la Friskies, per di più nella consapevolezza che lo stesso Fa. non intendeva solo commercializzare gli astuccini, ma produrre anche con quella confezione alimenti per animali. Ha osservato che l’avere R. favorito Fa. nell’iniziare la sua nuova attività costituiva violazione dell’obbligo di fedeltà sancito sia dall’art. 2105 c.c. che dall’art. 70 C.C.N.L. e che in tali circostanze neppure è necessario indagare sull’avvenuta affissione del codice disciplinare, che a detta del teste D. risultava ad ogni modo esposto. Ed ha rigettato, pertanto, l’appello.

Avversa tale sentenza R.F. ha proposto ricorso per cassazione sulla base di quattro motivi. La controparte ha resistito mediante controricorso.

MOTIVI DELLA DECISIONE

Il ricorso – come detto – si articola in quattro motivi.

Con il primo motivo è denunziata insufficienza e contraddittorietà della motivazione circa un punto decisivo della controversia (art. 360 c.p.c., n. 5); violazione degli artt. 115 e 116 c.p.c., della L. n. 300 del 1970, art. 7, degli artt. 421 e 437 c.p.c., dell’art. 111 Cost. e degli artt. 2727 e 2729 c.c. (art. 360 c.p.c., n. 3).

Deduce al riguardo il ricorrente che la sentenza impugnata ha ritenuto legittimo il licenziamento sulla base di una circostanza (l’aver egli riferito a Fa. notizie tecniche e contabili) che non aveva formato oggetto di contestazione, così come non era stata contestata la circostanza relativa alla richiesta di mere informazioni contabili. Afferma, inoltre, che è da ritenere apodittica l’affermazione del giudice di appello secondo cui egli avrebbe favorito il Fa. nel fornirgli notizie sui contenitori, così come risulta dagli elementi probatori acquisiti. Così come erroneamente la corte territoriale ha asserito, anche qui in difetto di adeguati elementi di prova, che egli avrebbe avuto un interesse personale nella vicenda e che fosse a conoscenza dell’intenzione del Fa. di iniziare la produzione in proprio di alimenti per animali.

Con il secondo motivo – concernente la violazione della L. 15 luglio 1996, n. 604, art. 5, art. 2967 c.c., art. 155 c.p.c. (art. 360 c.p.c., n. 3); insufficiente e contraddittoria motivazione (art. 360 c.p.c., n. 5) – assume il ricorrente che le circostanze poste a fondamento del recesso non sono state in realtà adeguatamente dimostrate, avendo la corte d’appello fatto ricorso ad un personale giudizio probabilistico di verosimiglianza e dimenticato che la regola sull’onere probatorio serve ad evitare l’arbitrio del giudice.

Con il terzo motivo è denunciata violazione e falsa applicazione dell’art. 4 Cost., art. 2106 c.c. (art. 360 c.p.c., n. 3); omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione (art. 360 c.p.c., n. 5).

A giudizio del ricorrente, l’addebito sarebbe dimostrato da una sola telefonata tra lui e F., nella quale sono state fatte confluire circostanze rispetto alle quali egli era rimasto del tutto estraneo e dalla quale si è poi dedotta la volontà di favorire una ditta concorrente, telefonata che non è stata peraltro oggetto di attenta valutazione ed alla quale non poteva in ogni caso attribuirsi valenza concorrenziale. Inoltre – prosegue il ricorrente – la corte d’appello ha avallato la sanzione più grave senza considerare che egli aveva lavorato per la Nestlè per 33 anni ed aveva realizzato apprezzabili risultati ed omettendo di tener conto dell’elemento soggettivo, potendosi al più ritenere che la condotta così gravemente sanzionata si era sostanziata in un’unica telefonata di contenuto incerto, se non irrilevante, inidonea pertanto a ledere l’elemento fiduciario.

Con il quarto ed ultimo motivo si lamenta la violazione della L. n. 300 del 1970, art. 7, comma 1, (art. 360 c.p.c., n. 3); omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione (art. 360 c.p.c., n. 5), rilevandosi che l’obbligo di previa affissione del codice disciplinare è stato voluto dalle parti sociali anche per l’ipotesi di concorrenza sleale (cfr. art. 68, lett. d) e art. 70 C.C.N.L.) e che tale previsione non è stata nella specie rispettata, con la conseguenza che già sotto questo profilo il licenziamento è da ritenersi illegittimo.

I primi tre motivi sono inammissibili in quanto i relativi quesiti non rispondono ai requisiti prescritti dall’art. 366 bis c.p.c..

Nell’interpretazione di tale disposizione è stato affermato da questa Corte che il quesito di diritto deve compendiare: a) la riassuntiva esposizione degli elementi di fatto sottoposti al giudice di merito; b) la sintetica applicazione della regola di diritto applicata da quel giudice; c) la diversa regola di diritto che, ad avviso del ricorrente, si sarebbe dovuta applicare al caso di in esame (ex multis, Cass. 17.7.2008 n. 19679). Con riferimento alla esigenza che il quesito abbia una specifica attinenza alla questione devoluta alla cognizione della Corte, è stato, poi, precisato esso non può risolversi in un’enunciazione di carattere generale ed astratto, priva di qualunque indicazione sul tipo della controversia e sulla sua riconducibilità alla fattispecie in esame, tale da non consentire alcuna risposta utile a definire la causa nel senso voluto dal ricorrente, non potendosi peraltro il quesito desumere dal contenuto del motivo o integrare il primo con il secondo, pena la sostanziale abrogazione dell’art. 366 bis c.p.c. (Cass. Sez. un., 11.3.2008 n. 6420). In altri termini, è da ritenersi inammissibile il motivo di ricorso sorretto da un quesito la cui formulazione sia del tutto inidonea ad assumere rilevanza ai fini della decisione del motivo stesso ed a chiarire l’errore di diritto imputato alla sentenza impugnata in relazione alla concreta controversia (in tal senso, Cass. 25.3.2009 n. 7197; Id., Sez. un. 30.10.2008 n. 26020).

Ora, in disparte la questione relativa ad una molteplicità di quesiti collegati dal ricorrente ad un solo motivo di ricorso, va rilevato che gli stessi sono stati formulati, quanto al primo dei motivi, nei termini che seguono:

"atteso che ai sensi della L. n. 300 del 1970, art. 7 l’immutabilità e immodificabilità dell’addebito è elemento sostanziale della contestazione disciplinare, in specie con riferimento ai fatti dedotti, il licenziamento per giusta causa può essere giustificato allegando in causa fatti ulteriori e diversi?";

"il giudice è tenuto a decidere rispettando i precetti posti dagli artt. 115 e 116 del codice di rito, i quali sanciscono il principio della completezza della valutazione, che è correlata al poteredovere del giudice di prendere in considerazione tutti gli elementi di prova, comunque acquisiti?";

"la contestazione degli addebiti, assolvendo allo scopo di consentire al lavoratore incolpato una immediata e adeguata difesa, deve essere specifica ossia deve contenere i dati e gli aspetti essenziali del fatto nella sua materialità, in guisa tale che sia consentita l’esatta individuazione sia dell’infrazione contestata che del comportamento nel quale il datore di lavoro ravvisa l’addebito disciplinare sanzionabile?";

"il giudice del lavoro può limitarsi a fare meccanica applicazione della regola formale del giudizio fondato sull’onere della prova o è tenuto… ad esercitare il potere-dovere di provvedere di ufficio agli atti istruttori sollecitati dal materiale probatorio che risulta in causa al fine di superare l’incertezza sui fatti rilevanti utili alla decisione e alla ricerca della verità materiale?";

"il giudice del lavoro è tenuto ad esplicitare le ragioni per le quali non ritiene di far ricorso ai propri poteri istruttori ove sussistano ragionevoli probabilità di accertare attraverso di essi la verità?";

"l’art. 2729 c.c., stabilendo che le presunzioni semplici devono essere ammesse solo se siano "gravi, precise e concordanti", consente al giudice di utilizzarle con valore pari alla prova piena anche quando queste, diversamente da quanto prescritto dall’art. 2727 c.c., derivino da altra presunzione?".

Come è reso evidente dalla testuale trascrizione dei sei quesiti, tutti relativi al primo motivo, in nessuno di essi vi è alcun riferimento alla concreta fattispecie, nè tanto meno si individua l’errore imputabile alla sentenza impugnata, risolvendosi essi il più delle volte" in un interrogativo circolare, che già presuppone la risposta ovvero la cui risposta non consenta si risolvere il caso sub iudice" (così Cass. Sez. un., 12.12.2008 n. 28536). Per fare un solo esempio, tanto risulta con particolare chiarezza in relazione all’ultimo quesito, riguardo al quale la risposta negativa è scontata e la cui formulazione, in assenza del riferimento ai termini concreti della questione controversa ed alla regula iuris che sarebbe stata violata dal giudice dell’appello, appare totalmente inidonea ad assumere quel carattere significativo che a tale istituto è stato assegnato dal legislatore.

I medesimi rilievi tornano pienamente utili – ed assumono anzi maggiore evidenza – quanto ai quesiti che accompagnano il secondo motivo, nei quali ci si chiede se "il datore di lavoro ha l’onere di fornire la prova per i fatti, per come contestati disciplinarmente, posti a giustificazione del licenziamento per giusta causa o può soddisfare tale onere rendendo soltanto verosimili le proprie affermazioni?"; e se "il giudice, salvo i casi tassativi di decisione secondo equità, deve seguire le norme di diritto… tra le quali rientrano l’art. 2697 c.c. e la L. 15 luglio 1966, n. 604, art. 5?";

nonchè in relazione ai quesiti che concludono l’esposizione del terzo, caratterizzati da pari genericità, essendo essi formulati nei seguenti termini: a) "il giudizio di proporzionalità tra fatto addebitato al lavoratore e licenziamento disciplinare va effettuato in astratto, o con specifico riferimento a tutte le circostanze del caso concreto, all’entità della mancanza (considerata non solo da un punto di vista oggettivo, ma anche nella sua portata oggettiva ed in relazione al contesto in cui è stata posta in essere), ai moventi, all’intensità dell’elemento intenzionale ed al grado di quello colposo?"; b) "il giudice può concludere nel senso della legittimità del licenziamento in tronco per giusta causa anche se la mancanza di cui il dipendente si è reso responsabile: – non è tale da far venir meno l’elemento fiduciario che costituisce il presupposto fondamentale della collaborazione tra le parti nel rapporto di lavoro; – non riveste una gravità tale che qualsiasi altra sanzione risulti insufficiente a tutelare l’interesse del datore di lavoro?".

Il quarto motivo propone, viceversa, un quesito che può considerarsi ammissibile in quanto individua con sufficiente precisione la questione controversa ("il datore di lavoro è tenuto ad applicare la norma del contratto collettivo che dispone, nel suo tenore letterale, la previa affissione del codice disciplinare anche con riguardo a mancanze che violino il cd. minimo etico o il disposto di legge, pena l’illegittimità della sanzione erogata?"), ma la Corte lo ritiene infondato.

Secondo la costante giurisprudenza di legittimità, che il Collegio condivide, i comportamenti del lavoratore che costituiscano gravi violazioni dei suoi doveri fondamentali sono sanzionabili con il licenziamento disciplinare a prescindere dalla loro inclusione o meno tra le sanzioni previste dalla specifica regolamentazione disciplinare del rapporto e anche in difetto della pubblicazione del codice disciplinare, purchè siano osservate le garanzie previste dalla L. n. 300 del 1970, art. 7, commi 2 e 3, (in tal senso, da ultimo, Cass. 9.9.2003 n. 13194; Id., 19.8.2004 n. 16291).

Nell’affermare che avendo l’attuale ricorrente violato un obbligo fondamentale, quale quello sancito dall’art. 2105 c.c., poteva prescindersi dall’avvenuta affissione, o meno, del codice disciplinare, la sentenza impugnata ha pertanto applicato correttamente nella fattispecie i principi testè richiamati.

Nè può prendersi in esame la doglianza relativa all’omesso esame di una norma del contratto collettivo, secondo cui l’obbligo di affissione disciplinare sarebbe stato concordato – e sarebbe, quindi, vincolante per il datore di lavoro – anche nell’ipotesi in cui il licenziamento sia fondato sulla "concorrenza sleale" da parte del dipendente. Non risulta affatto, invero, che tale deduzione sia stata formulata da R. in grado di appello, ove si è limitato ad affermare (v. pag. 5 del ricorso per cassazione), da un lato, che l’avvenuta affissione del codice non poteva ritenersi provata in base alla deposizione del teste D. e, dall’altro, che non vi erano i presupposti per invocare l’applicazione dell’art. 70 c.c.n.l., atteso che egli non aveva – in particolare – posto in essere una qualche attività di concorrenza sleale, con la conseguenza che la questione da lui ora sollevata, comportando un accertamento di fatto, non può essere esaminata in questa sede.

Il ricorso deve essere, quindi, rigettato.

Per il principio della soccombenza, il ricorrente va condannato a pagare le spese processuali del presente giudizio, liquidate come in dispositivo.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali, che liquida in Euro 24,00, oltre Euro 2.500,00 per onorari, oltre IVA, CPA e spese generali.

Redazione