Corte di Cassazione Civile sez. III 8/10/2008 n. 24791; Pres. Vittoria P.

Redazione 08/10/08
Scarica PDF Stampa
SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Nel 2000 l’Università degli Studi "Tor Vergata" di Roma interponeva gravame avverso la sentenza del Tribunale di Roma del 12/11/99 di condanna al pagamento, in via solidale con il **********, della somma di L. 148 milioni, a titolo di risarcimento dei danni sofferti dall’attore sig. T.P., in conseguenza di peritonite al medesimo insorta all’esito di intervento chirurgico di polipectomia endoscopica, nonchè di rigetto della domanda da essa spiegata nei confronti della chiamata Università Cattolica del Sacro Cuore.

Con sentenza non definitiva del 4/2/2003 la Corte d’Appello di Roma rigettava il primo motivo dell’appello, confermando la declaratoria di carenza di legittimazione passiva dell’Università Cattolica del Sacro Cuore e della pure citata (invero come "Complesso Integrato Columbus") Association Columbus, e disponeva per il prosieguo del giudizio in ordine alle altre questioni sollevate con tale atto e con gli appelli incidentali.

Avverso la suindicata pronunzia della corte di merito l’Università degli Studi "Tor Vergata" propone ora ricorso per cassazione, affidato a 2 motivi.

Resistono con controricorso Association Columbus, Università Cattolica del Sacro Cuore ed il T., il quale ultimo spiega altresì ricorso incidentale condizionato sulla base di unico motivo.

Con sentenza definitiva del 16/2/2006, emessa all’esito di rinnovata C.T.U. medico – legale nel pronunziare sull’appello principale proposto dall’Università degli Studi "Tor Vergata" di Roma e su quelli in via incidentale proposti dallo S. e dal T. – il quale ultimo si doleva del limitato qtiantum liquidato in suo favore dal giudice di prime cure, la Corte d’Appello di Roma rigettava la domanda risarcitoria del T., che condannava alla rifusione delle spese del doppio grado di giudizio.

Avverso la suindicata pronunzia definitiva della corte di merito il T. propone ora ricorso per cassazione, affidato a 4 motivi.

Resiste l’Università degli Studi "Tor Vergata" di Roma, costituitasi tardivamente al solo fine di partecipare alla discussione della causa.

MOTIVI DELLA DECISIONE

Va preliminarmente disposta la riunione dei ricorsi, ed esaminato anzitutto, in quanto logicamente prioritario, quello proposto avverso la sentenza non definitiva della Corte d’Appello di Roma del 4/2/2003 sub R.G. n. 5581/2004 + 9007/2004.

Con il 1^ motivo la ricorrente principale Università degli Studi "Tor Vergata" di Roma denunzia "Violazione e falsa applicazione dei principi in materia di inscindibilità tra attività assistenziale, ricerca e didattica svolta dai professori universitari di Tor Vergata, nonchè dei princìpi in materia di contratto a favore di terzi, in relazione all’art. 360 c.p.c.. Difetto di motivazione in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 5".

Lamenta che erroneamente è stata nel caso ravvisata la propria legittimazione passiva, laddove, incontroversa la sussistenza di un rapporto tra sè ed il ******** (in servizio presso il reparto di Patologia Speciale Chirurgica, "ubicato, per accordi intercorsi fra le due Università, presso il Complesso Columbus") avrebbe viceversa dovuto considerarsi la dedotta resistenza di una responsabilità solidale di USCS, o quanto meno, l’obbligo di quest’ultima di manlevarla per tutte le somme che essa … fosse stata condannata a pagare in favore del T.", alla stregua "dell’art. 7, della Convenzione fra la Regione Lazio e Tor Vergata e all’art. 4, del Protocollo d’intesa, secondo i quali "tra i diritti del personale medico universitario, che svolge attività assistenziale presso le strutture convenzionate delle UU.SS.LL., è compreso quello relativo alla copertura assicurativa per responsabilità civile nei confronti di terzi e per infortuni derivanti dall’esercizio dell’attività assistenziale, a norma del D.P.R. n. 139 del 1969, artt. 29 e 30. La spesa per la copertura assicurativa è a carico delle UU.SS.LL. convenzionate".

Si duole non essersi tenuto conto della "Convenzione" stipulata con la chiamata in causa Università Cattolica del Sacro Cuore, da cui si evince che "non avendo (all’epoca) l’Università un proprio Policlinico, è stato necessario … utilizzare strutture sanitarie extrauniversitarie atteso che la Facoltà di Medicina e Chirurgia di Tor Vergata non disponeva di un proprio Politecnico, entrato in funzione solo di recente", sicchè "in data 24.7.1986 è stata stipulata una convenzione tra Tor Vergata e la Regione Lazio, successivamente rinnovata in data 4.7.1990 (in conformità a quanto previsto dalla L. 23 dicembre 1978, n. 833, art. 39), al fine di realizzare un idoneo coordinamento delle rispettive funzioni istituzionali. Poichè non è stato possibile concentrare in un unico complesso ospedaliero tutte le attività cliniche del corso di laurea in Medicina e Chirurgia e delle annesse Scuole di Specializzazione e dei Corsi di Diploma universitari, successivamente, in base a quanto disposto dalla convenzione Regione Lazio – Università, sono state stipulate altre convenzioni attuative con singole strutture ospedaliere. Per quanto, in particolare, concerne Chirurgia è stata stipulata una convenzione attuativa con l’Università Cattolica del Sacro Cuore – il cui schema tipo forma parte integrante della Convenzione Regione Università, a norma di quanto previsto dall’art. 18, di quest’ultima convenzione – convenzione che prevede l’utilizzo, da parte di Tor Vergata, delle strutture della casa di Cura (omissis) (****************************) che costituisce un presidio clinico della Facoltà di Medicina e Chirurgia dell’U.C.S.C.".

Lamenta che "contrariamente a quanto si trae dalla sentenza" impugnata, "in virtù di quanto stabilito dal combinato disposto dell’art. 7, della Convenzione e dell’art. 4, del Protocollo di Intesa per la determinazione dei criteri e delle modalità di attuazione della Convenzione Regione Lazio – Università è proprio tale Ente che è chiamato a rispondere delle domande risarcitorie proposte nei confronti di Tor Vergata".

Deduce in particolare al riguardo che "la convenzione, contraddicendo il Giudice di merito, stabilisce che l’obbligo della copertura assicurativa per gli interventi medici eseguiti nella (omissis) è a carico delle USL convenzionate, e, quindi, nel caso di specie, dell’Università, Cattolica …".

E che "Nel caso di specie … non vi è dubbio che l’obbligo di copertura assicurativa faceva carico non già a Tor Vergata ma all’Università Cattolica del Sacro Cuore, di cui il Columbus costituisce … presidio clinico. Ed infatti i rapporti tra l’Università, i suoi dipendenti e la Casa di Cura (omissis) (così come quelli con tutte le altre cliniche utilizzate da Tor Vergata), sono … regolati da quanto stabilito dalle predette Convenzioni ed in particolare da quella attuativa, la quale va ad integrare ed attuare le prescrizioni normative vigenti in materia".

Deduce che in base all’art. 3 della Convenzione l’Università è tenuta a corrispondere alla Casa di cura compensi per le prestazioni "nell’ambito" e "nei limiti dello stanziamento della Regione Lazio".

Pertanto, la circostanza che "Tor Vergata" versa alla "Casa di cura alcune somme, sia quelle di cui al citato art. 3, sia almeno in parte – i compensi al personale medico, è rivelatore (rectius, rivelatrice) che la Casa di Cura percepisce, per l’assistenza assicurata presso la propria struttura, somme ulteriori e diverse da quelle che derivano dalla assistenza privata e, dunque, non può ritenersi estranea alla attività prestata nelle proprie strutture dal personale medico universitario";

Invero "proprio in forza di tale coinvolgimento è anche previsto l’obbligo per la casa di Cura di stipulare una polizza assicurativa a favore dei medici di Tor Vergata, obbligo che altrimenti non avrebbe alcun significato giuridico. Sotto questo profilo, è evidente che alla base del contratto a favore di terzo, vi è uno specifico interesse del contraente a che il terzo non subisca conseguenze dannose dalla attività prestata nella struttura della casa di cura".

A tale stregua, "d’attività di assistenza sanitaria prestata da Tor Vergata a mezzo dei propri professori, quando utilizza le strutture convenzionate (in questo caso la Columbus) non è inscindibile dalla attività di ricerca e didattica, proprie della attività universitaria".

Con la conseguenza "che quando Tor Vergata utilizza le strutture di detta casa di cura privata – non solo le strutture ma anche il personale infermieristico, gli strumenti diagnostici e i ferri operatori ecc. – svolge una attività in stretto collegamento con quella della Casa di Cura", sicchè essa "non può certamente ritenersi estranea quando un paziente … lamenta danni conseguenti alla prestazione della attività di cura".

E’ pertanto "l’Ente ospedaliero e non l’Università" che "risponde civilmente del danno arrecato da medico universitario, addetto a reparto convenzionato, nello svolgimento dell’attività di assistenza sanitaria".

Avuto in particolare riguardo al "rapporto tra i medici universitari di Tor Vergata e la Università Cattolica"; è infatti "incontestabile che: a) i medici universitari di Tor Vergata che esercitano l’attività assistenziale presso le varie case di cura convenzionate C che sono dislocate in varie parti di Roma: oltre la Casa di Cura European Hospital, anche l’Università Cattolica del Sacro Cuore, il Santo Spirito, S. Eugenio, ecc. ) la svolgono nell’esclusivo interesse delle dette case di cura; b) i proventi relativi allo svolgimento delle attività assistenziali dei detti medici vanno a favore della detta Casa di cura; c) per quanto concerne il pagamento delle attività a carico del servizio sanitario, è la Regione -e non Tor Vergata – … che provvede ad erogare le somme per ore di straordinario, indennità varie ed altre somme dovute ai detti medici; d) significativo … è che la Casa di Cura debba provvedere alla stipula del contratto di assicurazione a favore di Tor Vergata, circostanza questa che non si potrebbe spiegare se essa fosse fonte del tutto estranea alla attività assistenziale assicurata dalla Università. Del resto, un qualche soggetto che garantisca e manlevi Tor Vergata deve essere individuato … E questo soggetto deve essere individuato o nella casa di Cura (omissis) o nella Università Cattolica con la quale è stata appunto stipulata la Convenzione attuativa oppure nella società di assicurazione che con essa ha stipulato il contratto a favore di terzo. Sotto questo profilo soccorrono anche i principi in materia di contratto a favore del terzo, nel quale la legittimazione ad agire, per principio pacifico, spetta anche al terzo, a favore del quale il contratto è stipulato";

Il motivo è in parte inammissibile e in parte infondato.

Va anzitutto precisato che, diversamente da quanto sostenuto dall’odierna ricorrente ed indicato anche nell’impugnata sentenza, non viene nel caso invero in rilievo una questione di legittimazione processuale (passiva) bensì di titolarità sostanziale del rapporto (v. Cass. 12/2/2008, n. 3269).

Risponde infatti a consolidato principio che la legitimatio ad causam, attiva e passiva, consiste nella titolarità del potere e del dovere di promuovere o subire un giudizio in ordine al rapporto sostanziale dedotto in causa, mediante la indicazione di fatti in astratto idonei a fondare il diritto azionato, secondo la prospettazione dell’attore, prescindendo dall’effettiva titolarità del rapporto dedotto in causa, con conseguente dovere del Giudice di verificarne l’esistenza in ogni stato e grado del procedimento (v.

Cass., 30/5/2008, n. 14468).

Laddove la titolarità della situazione giuridica sostanziale, attiva e passiva, si configura invero come una questione che attiene al merito della lite, rientrando nel potere dispositivo e nell’onere deduttivo e probatorio della parte interessata (v. Cass., 6/3/2006, n. 4796).

La legittimazione ad agire costituisce allora una condizione dell’azione, una condizione per ottenere dal Giudice una qualsiasi decisione di merito, la cui esistenza è da riscontrarsi esclusivamente alla stregua della fattispecie giuridica prospettata dall’attore, prescindendo dall’effettiva titolarità del rapporto dedotto in causa.

Appartiene invece al merito della causa, concernendo la fondatezza della pretesa, l’accertamento in concreto se l’attore e il convenuto siano, dal lato attivo e passivo, effettivamente titolari del rapporto fatto valere in giudizio (v. Cass., 3 dicembre 1999, n. 13467; Cass., 24 luglio 1997, n. 916; Cass. 13 gennaio 1995, n. 377, Cass., 17 marzo 1995, n. 3110).

In altri termini, la legittimazione ad agire o a contraddire, quale condizione dell’azione, si fonda sulla mera allegazione fatta in domanda, sicchè una concreta ed autonoma questione intorno ad essa si delinea soltanto quando l’attore faccia valere un diritto altrui, prospettandolo come proprio, ovvero pretenda di ottenere una pronunzia contro il convenuto pur prospettandone la relativa estraneità al rapporto sostanziale controverso (v. Cass., 30/5/2008, n. 14468).

Orbene, nel caso, a fronte della domanda proposta dal T. di risarcimento dei danni asseritamente subiti in conseguenza dell’intervento chirurgico di polipectomia endoscopica effettuato dal Dott. S., ricercatore (all’epoca) nell’Università degli Studi "Tor Vergata" di Roma, presso la Casa di cura (omissis), viene in rilievo il rapporto insorto tra tali soggetti.

La doglianza non attiene allora certamente alla dedotta legitimatio ad causam, attenendo essa all’identificazione del soggetto cui spetta la prestazione dovuta (cfr. Cass., 2 agosto 2005, n. 16158), e pertanto all’accertamento in concreto dell’effettiva titolarità del rapporto sostanziale insorto tra le parti e fatto valere in giudizio (v. Cass., 18 novembre 2005, n. 24457).

In altri termini, all’accertamento della titolarità della situazione giuridica sostanziale quale situazione favorevole all’accoglimento o al rigetto della pretesa azionata (cfr. Cass., 28/10/2002, n. 15177;

Cass., 21/6/2001, n. 8476; Cass., 5/11/1997, n. 10843).

Al riguardo, va in argomento sottolineato che come questa Corte ha già avuto modo di affermare l’accettazione del paziente in una struttura (pubblica o privata) deputata a fornire assistenza sanitaria – ospedaliera, ai fini del ricovero o di una visita ambulatoriale, comporta la conclusione di un contratto di prestazione d’opera atipico di spedalità, laddove la responsabilità del medico dipendente dell’ente ospeda-liero verso il paziente è fondata sul contatto sociale instaurantesi tra quest’ultimo ed il medico chiamato ad adempiere nei suoi confronti la prestazione dal medesimo convenuta con la struttura sanitaria, che è fonte di un rapporto il quale quanto al contenuto si modella su quella del contratto d’opera professionale, in base al quale il medico è tenuto all’esercizio della propria attività nell’ambito dell’ente con il quale il paziente ha stipulato il contratto, ad essa ricollegando obblighi di comportamento di varia natura, diretti a garantire che siano tutelati gli interessi emersi o esposti a pericolo in occasione del detto "contatto", e in ragione della prestazione medica conseguentemente da eseguirsi (v. Cass., 13/4/2007, n. 8826).

Orbene, è rimasto nel caso accertato che il T. fu visitato ed operato di polipectomia in endoscopia dallo S. presso la Casa di cura (omissis), quale "presidio clinico" della Facoltà di Medicina e Chirurgia dell’U.C.S.C., da quest’ultima posto convenzionalmente a diposizione dell’Università degli Studi "Tor Vergata" di Roma per consentirle, essendo all’epoca priva di un proprio Policlinico, di esplicare le sue attività istituzionali, ed in particolare quelle cliniche del corso di laurea in Medicina e chirurgia e delle annesse Scuole di Specializzazione e dei Corsi di Diploma universitari.

Sotto altro profilo, ai fini dell’individuazione del soggetto con il quale il paziente conclude il contratto di ricovero (e perciò del soggetto cui si renda riferibile la responsabilità civile derivante dal relativo inadempimento) non può invero prescindersi dalla considerazione eventualmente stipulati da una Università degli accordi con strutture deputate a fornire assistenza sanitaria per la gestione di specifici istituti universitari.

E’ infatti noto che l’Università è posta a tale stregua in grado di svolgere, su richiesta di pubbliche amministrazioni o di privati, (anche) analisi, prove, controlli ed esperienze, compatibilmente con l’attività scientifica e didattica di essa propria (v. Cass., 1/9/1999, n. 9198).

Come questa Corte ha già avuto modo di porre in rilievo, dell’assistenza ospedaliera svolta attraverso cliniche ed istituti universitari di ricovero e cura è menzione nella L. 12 febbraio 1968, n. 132, art. 1, comma 3, (recante disciplina degli enti ospedalieri e dell’assistenza ospedaliera), mentre l’apporto delle facoltà di medicina alla realizzazione degli obiettivi della programmazione sanitaria regionale nel settore assistenziale è indicato alla L. n. 833 del 1978, art. 39, istitutiva del servizio sanitario nazionale (v. Cass., 1/9/1999, n. 9198).

Nell’ambito della disciplina posta nel tempo dalle suindicate leggi le Convenzioni risultano configurate quale strumento per consentire alle amministrazioni universitarie di far funzionare le cliniche universitarie come strutture ospedaliere (R.D. 31 agosto 1933, n. 1592, art. 30; L. 12 febbraio 1968, n. 132, art. 50; D.P.R. 27 marzo 1969, n. 129, art. 4; L. 23 dicembre 1978, n. 833, art. 39; D.M. 9 novembre 1982; D.M. 12 maggio 1986).

Si è al riguardo sottolineato che la Convenzione tra Università ed enti ospedalieri o unità sanitarie locali può dar luogo, quanto all’attività di assistenza sanitaria ed in modo rilevante per i terzi, al trasferimento dalla prima ai secondi della gestione delle cliniche universitarie.

La diretta gestione della clinica si è al riguardo ravvisato costituire invero l’elemento idoneo ad individuare il soggetto titolare del rapporto instaurato con il paziente (e con il medico), ed a conseguente-mente fondare la correlativa responsabilità (v.

Cass. 1/9/1999, n. 9198).

Orbene, la corte di merito ha accertato che in base alla Convenzione stipulata tra l’Università degli Studi "Tor Vergata" di Roma e l’UCSC quest’ultima ha posto alcune strutture a disposizione della prima, che delle stesse ha assunto la direzione, utilizzandole mediante attività prestata da proprio personale medico.

Personale del quale lo S. faceva, come sopra detto, parte.

I Giudici di merito hanno d’altro canto sottolineato l’insussistenza di "alcun elemento giuridicamente rilevante", di fonte legale o convenzionale, deponente per l’assunzione per converso da parte dell’UCSC di "oneri derivanti dalla condotta professionale dei medici dipendenti dalla 2A Università", correttamente – alla stregua di quanto sopra esposto – pertanto pervenendo ad escludere che a siffatta conclusione valesse a condurre la mera circostanza che "UCSC fosse proprietaria … delle strutture prestate a Tor Vergata per lo svolgimento delle attività istituzionali di quest’ultima".

Al riguardo, si noti, non può invero in contrario valorizzarsi la circostanza dedotta dalla ricorrente circa l’obbligo, asseritamente facente carico all’Università Cattolica del Sacro Cuore (di cui il (omissis) costituisce presidio clinico, in base all’art. 7, della Convenzione fra la Regione Lazio e Tor Vergata e all’art. 4 del Protocollo d’intesa), della copertura assicurativa della responsabilità civile nei confronti di terzi per infortuni derivanti dall’esercizio dell’attività assistenziale.

A parte che trattasi di deduzioni invero formulate in violazione del principio di autosufficienza, in relazione in particolare al primo profilo la circostanza dell’assunzione convenzionale dell’obbligo di assicurare la copertura assicurativa per la responsabilità civile (prevista per l’ente ospedaliero in favore dei dipendenti dapprima obbligatoriamente dal D.P.R. n. 130 del 1969, art. 29, e quindi facoltativamente ai sensi del D.P.R. n. 761 del 1979, art. 28, a seguito dell’istituzione delle U.S.L. e dell’espressa applicabilità ai dipendenti delle medesime delle norme vigenti per i dipendenti civili dello Stato: v. Cass., 10/5/2001, n. 6502) si rivela infatti di per sè inidonea a fondare la conclusione che l’Università Cattolica del Sacro Cuore abbia nel caso mantenuto la diretta gestione o cogestione della Casa di Cura (omissis). E analogamente dicasi relativamente all’ulteriore circostanza, dalla ricorrente del pari apoditticamente e in violazione del principio di autosufficienza dedotta, concernente compensi asseritamente corrisposti al personale medico.

Con il 2^ motivo la ricorrente principale Università degli Studi "Tor Vergata" di Roma denunzia "Omessa pronunzia" in ordine alla "specifica eccezione … volta ad ottenere la garanzia da parte della Università cattolica o di Columbus, in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3", nonchè "Difetto di motivazione in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 5".

Si duole che, pur avendo "nelle premesse" dato atto che "Tor Vergata aveva formulato una apposita domanda in tal senso", nella motivazione la corte di merito abbia "collegato il rigetto della specifica eccezione al rigetto della eccezione di difetto di legittimazione passiva dell’Università, omettendo di considerare che si trattava di questioni giuridiche completamente diverse tra loro e che meritavano una autonoma considerazione".

Il motivo è inammissibile.

Risponde invero a principio consolidato in giurisprudenza di legittimità che l’error in procedendo ex art. 112 c.p.c., risulta integrato in caso di omesso esame di una domanda ovvero di pronuncia su domanda non proposta (cfr. Cass., 29/9/2006, n. 21244; Cass., 5/12/2002, n. 17307; Cass., 23/5/2001, n. 7049).

Come le Sezioni Unite di questa Corte hanno avuto modo di affermare, perchè possa utilmente dedursi in sede di legittimità un vizio di omessa pronuncia, è necessario, da un lato, che al giudice di merito siano state rivolte una domanda o un’eccezione autonomamente apprezzabili, e, dall’altro, che tali domande o eccezioni siano state riportate puntualmente, nei loro esatti termini, nel ricorso per cassazione, per il principio dell’ autosufficienza, con l’indicazione specifica, altresì, dell’atto difensivo o del verbale di udienza nei quali le une o le altre erano state proposte, onde consentire al giudice di verificarne, in primo luogo, la ritualità e la tempestività, e, in secondo luogo, la decisività (v. Cass., 11/6/2008, n. 15462; Cass., 19/3/2007, n. 6361; Cass., 17/1/2007, n. 978; Cass., Sez. Un., 28/7/2005, n. 15781).

Del pari, se è vero che la Corte di Cassazione, allorquando viene denunziato un error in procedendo è anche Giudice del fatto ed ha il potere – dovere di esaminare direttamente gli atti di causa, tuttavia per il sorgere di tale potere – dovere è necessario, non essendo il predetto vizio rilevabile ex officio, che la parte ricorrente indichi gli elementi individuanti e caratterizzanti il "fatto processuale" di cui richiede il riesame, e, quindi, che il corrispondente motivo sia ammissibile e contenga, per il principio di autosufficienza del ricorso, tutte le precisazioni e i riferimenti necessari a individuare la dedotta violazione processuale (v. Cass., 23/1/2004, n. 1170).

Nel tradursi nella violazione del principio di corrispondenza tra chiesto e pronunciato, in quanto incidente sulla sentenza emessa dal Giudice del gravame, il vizio di omesso esame di una domanda ovvero di pronuncia su domanda non proposta è pertanto deducibile con ricorso per cassazione esclusivamente ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, (nullità della sentenza e del procedimento) (v.

Cass., Sez. un., 14/1/1992, n. 369; Cass., 25/9/1996, n. 8468), e non anche sotto il profilo della violazione o falsa applicazione di norme di diritto ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, e a fortiori del vizio di motivazione ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, (v. in particolare Cass., 4/6/2007, n. 12952; Cass., 22/11/2006, n. 24856; Cass., 26/1/2006, n. 1701).

In particolare, la differenza fra l’omessa pronuncia di cui all’art. 112 c.p.c. e l’omessa motivazione su un punto decisivo della controversia di cui all’art. 360 c.p.c., n. 5, si coglie invero là dove nella prima l’omesso esame concerne direttamente una domanda od un’eccezione introdotta in causa, mentre nel caso dell’omessa motivazione l’attività di esame del Giudice asseritamente omessa non concerne la domanda o l’eccezione direttamente, bensì una circostanza di fatto che, ove valutata avrebbe comportato una diversa decisione su uno dei fatti costitutivi della domanda o su un’eccezione, e quindi su uno dei fatti c.d. principali della controversia (v. Cass., 3 0/5/2008, n. 14468; Cass., 14/3/2006, n. 5444).

Inammissibile è allora la denunzia di violazione dell’art. 112 c.p.c., in questione, dall’odierna ricorrente nella specie operata limitandosi invero a lamentare "omessa pronuncia in ordine ad un’altra specifica eccezione formulata da Tor Vergata, volta ad ottenere la garanzia da parte della Università cattolica o di (omissis)".

A tale stregua essa omette infatti di debitamente riportare nel ricorso la dedotta eccezione asseritamente formulata, in violazione pertanto anche del più sopra evocato principio di autosufficienza.

All’inammissibilità ed infondatezza dei motivi consegue il rigetto del ricorso.

Con unico motivo il ricorrente incidentale T. deduce che "la violazione della legge invocata ex adverbo dovrà portare al rinvio della controversia innanzi ad altra sezione della Corte di Appello per ivi sentirla uniformare al principio per cui la responsabilità della struttura ospedaliera convenzionata a mettere a disposizione le strutture in favore della Università beneficiarla, comporta la responsabilità solidale e/o esclusiva nella determinazione del danno arrecato al paziente dal medico universitario preposto presso la struttura medesima, e quindi sentir pronunciare la condanna di chi sarà ritenuto responsabile in uno al sanitario al risarcimento dei danni arrecati alla vittima dell’erroneo trattamento".

Atteso il rigetto di quello principale, il ricorso incidentale rimane invero conseguentemente assorbito.

Avverso la sentenza definitiva della corte d’Appello di Roma del 16/2/2006, con il 1^ motivo il ricorrente T. denunzia violazione e falsa applicazione degli artt. 2236, 2697 c.c., e art. 1176 c.c., comma 2, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3.

Lamenta che erroneamente la corte di merito, dopo aver affermato che l’intervento medico de quo non presentava profili di "speciale difficoltà", ha escluso la responsabilità della struttura sanitaria e del medico sulla base della non configurabilità della colpa grave di quest’ultimo, laddove in base a corretta lettura dell’art. 2236 c.c., non basta la mera asserzione della corretta esecuzione della prestazione medica (dell’intervento), ma al fine di esonerarsi da responsabilità il prestatore deve dare la prova positiva dell’imputabilità del fatto a "fattore dipendente da eventi non imputabili al professionista".

Con il 2^ motivo denunzia violazione e falsa applicazione dell’art. 115 c.p.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, nonchè omessa ed insufficiente motivazione su punto decisivo della controversia in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5.

Si duole che siano state dalla corte di merito acriticamente recepite le apodittiche conclusioni della (rinnovata) C.T.U. secondo cui "Nel caso specifico della preparazione pre – operatoria e nell’esecuzione dell’intervento sono state adottate le cautele e gli accorgimenti dettati dalla scienza medica e suggeriti dall’esperienza nonchè il rispetto delle regole tecniche proprie dello specifico intervento", invero formulate "sulla base di una vera e propria petizione di principio, non potendo certo ritenersi esaustivo il referto consegnato al paziente ove in relazione all’intervento dell’8.3.1995, testualmente, si legge: "In data odierna si eseguono le polipectomie delle formazioni polpose descritte nel corso di un precedente esame.

Conclusioni: polipectomie".

Lamenta che è a tale stregua rimasta altresì priva di motivazione "la spiegazione del perchè le manovre operatorie sono state ritenute come condotte con sapienza".

Si duole non essersi al riguardo considerato che "nel referto manca ogni riferimento alle manovre eseguite, non viene fornita alcuna prova della effettività delle riferite buone condizioni di salute del paziente dopo l’intervento, e non viene infine offerta alcuna dimostrazione che il fatto acuto manifestatosi sin dalle prime ore della sera non sarebbe stato in alcun modo riconoscibile, curabile o prevenibile".

Con il 4^ motivo denunzia violazione e falsa applicazione dell’art. 115 c.p.c., in riferimento all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, nonchè omessa ed insufficiente motivazione su punto decisivo della controversia in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5.

Si duole che la corte di merito abbia immotivata-mente non tenuto conto di quanto dal C.T.U. affermato in termini di censurabile negligenza del Dott. S. relativamente alla mancanza di attenzione in ordine alla possibilità di insorgenza di complicazioni nel decorso post – operatorio, nonchè alla possibilità di effettuazione di un intervento riparatore "più tempestivo".

Lamenta non essere comunque suo onere "dimostrare, che erano stati presi tutti gli accorgimenti per una dimissione precoce seguita ad un intervento che comportava la possibilità di complicanze di quella rilevanza lesiva, di cui … non era stata data alcuna informazione", incombendo viceversa al sanitario, "eseguito l’intervento per lui routinario … dimostrare che era stata adottata ogni cautela a fronte della subitanea realizzazione della complicanza (già conclamata poche ore dopo l’intervento), e che comunque nulla avesse potuto fare per anticipare l’intervento di emenda".

I motivi, che possono congiuntamente esaminarsi in quanto connessi, sono fondati e vanno accolti nei termini di seguito indicati.

Come questa Corte ha avuto modo di affermare, in tema di responsabilità da intervento medico la responsabilità sia del medico che dell’ente ospedaliero trova titolo nell’inadempimento delle obbligazioni ai sensi dell’art. 1218 c.c. e ss, (v. Cass., Sez. Un., 11/1/2008, n. 577; Cass., 13/4/2007, n. 8826; Cass., 22/12/1999, n. 589).

Pertanto, il danneggiato è tenuto a provare il contratto e ad allegare la difformità della prestazione ricevuta rispetto al modello normalmente realizzato da una condotta improntata alla dovuta diligenza, mentre al debitore, presunta la colpa, incombe l’onere di provare che l’inesattezza della prestazione dipende da causa a lui non imputabile, e cioè la prova del fatto impeditivo (v. Cass., 13/4/2007, n. 8826; Cass., 28/5/2004, n. 10297; Cass., 21/6/2004, n. 11488; Cass., Sez. Un., 30/10/2001, n. 13533).

Trattandosi di obbligazione professionale, in base al combinato disposto di cui all’art. 1176 c.c., comma 2, e art. 2236 c.c., va osservata la diligenza ordinaria del buon professionista (v. Cass., 31/5/2006, n. 12995), vale a dire la diligenza qualificata quale modello di condotta che si estrinseca nell’adeguato sforzo tecnico, con impiego delle energie e dei mezzi normalmente ed obiettivamente necessari od utili, in relazione alla natura dell’attività esercitata, volto all’adempimento della prestazione dovuta ed al soddisfacimento dell’interesse creditorio, nonchè ad evitare possibili eventi dannosi (v. Cass., 13/4/2007, n. 8826).

Il criterio della normalità va allora valutato con riferimento alla diligenza media richiesta, avuto riguardo alla specifica natura e alle peculiarità dell’attività esercitata, e la condotta del medico specialista va esaminata avendosi riguardo alla peculiare specializzazione e alla necessità di adeguarla alla natura e al livello di pericolosità della prestazione, implicante scrupolosa attenzione e adeguata preparazione professionale (cfr. Cass., 13/1/2005, n. 583), essendogli richiesta la diligenza particolarmente qualificata dalla perizia e dall’impiego di strumenti tecnici adeguati allo standard professionale della sua categoria.

Una diversa misura di perizia è infatti dovuta in relazione alla qualifica professionale del debitore, in relazione ai diversi gradi di specializzazione propri dello specifico settore professionale.

Ai diversi gradi di specializzazione corrispondono in realtà diversi gradi di perizia, dovendo distinguersi tra una diligenza professionale generica e una diligenza professionale variamente qualificata (v. Cass., 13/4/2007, n. 8826).

Chi assume un’obbligazione nella qualità di specialista, o una obbligazione che presuppone una tale qualità, è tenuto alla perizia che è normale della sua categoria.

Lo sforzo tecnico implica anche l’uso degli strumenti materiali normalmente adeguati, ossia l’uso degli strumenti comunemente impiegati nel tipo di attività professionale in cui rientra la prestazione dovuta.

La misura della diligenza richiesta nelle obbligazioni professionali va quindi concretamente accertata sotto il profilo della responsabilità.

E la limitazione della responsabilità professionale del medico ai casi di dolo o colpa grave ex art. 2236 c.c., si applica nelle sole ipotesi che presentano problemi tecnici di particolare difficoltà, in ogni caso attenendo esclusivamente all’imperizia, e non anche all’imprudenza e alla negligenza (v. Cass., 19/4/2006, n. 9085; Cass., 14448/2004; Cass. n. 5945/2000).

Avuto riguardo al profilo dell’onere della prova, il paziente che agisce in giudizio deve, anche quando deduce l’inesatto adempimento dell’obbligazione sanitaria, provare il contratto e allegare l’inadempimento del sanitario. Non anche la colpa del medico e/o della struttura sanitaria e la relativa gravità (da ultimo v. Cass., 24/5/2006, n. 12362; Cass., 21/6/2004, n. 11488).

Resta a carico del debitore (medico – struttura sanitaria) l’onere di dimostrare che la prestazione è stata eseguita in modo diligente, e che il mancato o inesatto adempimento è dovuto a causa a sè non imputabile, in quanto determinato da impedimento non prevedibile nè prevenibile con la diligenza nel caso dovuta (per il riferimento all’evento imprevisto ed imprevedibile cfr., da ultimo, Cass., 24/5/2006, n. 12362; Cass., 11/11/2005, n. 22894).

Affermare che la distinzione tra prestazione di facile esecuzione e prestazione implicante la soluzione di problemi tecnici di speciale difficoltà non può valere come criterio di distribuzione dell’onere della prova, bensì solamente ai fini della valutazione del grado di diligenza e del corrispondente grado di colpa riferibile al sanitario.

All’art. 2236 c.c., non va conseguentemente assegnata rilevanza alcuna ai fini della ripartizione dell’onere probatorio, giacchè incombe in ogni caso al medico dare la prova della particolare difficoltà della prestazione, laddove la norma in questione implica solamente una valutazione della colpa del professionista, in relazione alle circostanze del caso concreto (v. Cass., Sez. Un., 11/1/2008, n. 577; Cass., 13/4/2007, n. 8826; Cass., 28/5/2004, n. 10297; Cass., 21/6/2004, n. 11488).

Dovendo l’art. 2236 c.c., essere inteso come contemplante una regola di mera valutazione della condotta diligente del debitore, (v. Cass., 13/4/2007, n. 8826; Cass., 28/5/2004, n. 10297; Cass., 21/6/2004, n. 11488), incombe infatti al medico, in ogni caso di "insuccesso" dell’intervento, dare la prova della particolare difficoltà della prestazione (v. Cass, 28/5/2004, n. 10297; Cass., 21/6/2004, n. 11488), senza alcuna distinzione – sotto il profilo della ripartizione degli oneri probatori – tra interventi "facili" e "difficili", in quanto l’allocazione del rischio non può essere rimessa alla maggiore o minore difficoltà della prestazione.

In presenza di risultato "anomalo" o anormale rispetto al convenuto esito dell’intervento o della cura, che si ha non solo allorquando alla prestazione medica consegue l’aggravamento dello stato morboso o l’insorgenza di nuova patologia ma anche quando l’esito risulta caratterizzato da inalterazione rispetto alla situazione che l’intervento medico – chirurgico ha appunto reso necessario (v.

Cass., 13/4/2007, n. 8826), e quindi dello scostamento da una legge di regolarità causale fondata sull’esperienza, il medico e la struttura sono cioè tenuti a dare la prova che esso dipende da fatto ad essi non imputabile, in quanto non ascrivibile alla condotta mantenuta in conformità alla diligenza dovuta, avuto riguardo alle specifiche circostanze del caso concreto.

E laddove tale prova non riescano a dare, secondo la regola generale ex artt. 1218 e 2697 c.c., i suddetti onerati rimangono soccombenti.

Orbene, i suindicati principi sono rimasti invero disattesi nell’impugnata sentenza, laddove una volta da parte del paziente provato il rapporto ed allegato il peggioramento, con conseguente necessità di un nuovo e risolutivo intervento chirurgico, la corte di merito si è invero limitata ad escludere la sussistenza nel caso di un’ipotesi di colpa grave, e a conseguentemente trarne l’inconfigurabilità della responsabilità in proposito del medico e della struttura, senza che da questi ultimi risulti essere stata tuttavia fornita la prova del fatto impeditivi) (v. Cass., 13/4/2007, n. 8826).

Con il 3^ motivo il T. denunzia omessa e contraddittoria motivazione su punto decisivo della controversia in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5.

Si duole che sia stato ritenuto "valido" il consenso da egli prestato all’intervento in ragione della sottoscrizione da parte sua "dell’apposito modulo … che peraltro riguardava altro intervento di natura diagnostica".

Lamenta omessa motivazione in ordine alla "possibili complicanze" dell’intervento, la prova della relativa informazione incombendo comunque al sanitario.

Il motivo è fondato.

L’obbligo del consenso informato, che come questa Corte ha già avuto occasione di sottolineare costituisce legittimazione e fondamento del trattamento sanitario senza il quale l’intervento del medico è – al di fuori dei casi di trattamento sanitario per legge obbligatorio o in cui ricorra uno stato di necessità – sicuramente illecito, anche quando è nell’interesse del paziente (v. Cass., 16/10/2007, n. 21748), ai sensi dell’art. 32 Cost., comma 2, (in base al quale nessuno può essere obbligato ad un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge), dell’art. 13 Cost., (che garantisce l’inviolabilità della libertà personale con riferimento anche alla libertà di salvaguardia della propria salute e della propria integrità fisica) e della L. n. 833 del 1978, art. 33, (che esclude la possibilità, d’accertamenti e di trattamenti sanitari contro la volontà del paziente, se questo è in grado di prestarlo e non ricorrono i presupposti dello stato di necessità ex art. 54 c.p.), è a carico del sanitario, il quale, una volta richiesto dal paziente dell’esecuzione di un determinato trattamento, decide in piena autonomia secondo la lex artis di accogliere la richiesta e di darvi corso.

Trattasi di obbligo che attiene all’informazione circa le prevedibili conseguenze del trattamento cui il paziente venga sottoposto ed alla possibile successiva verificazione – in conseguenza dell’esecuzione del trattamento stesso, e, quindi, in forza di un nesso di causalità con essa (cfr. Cass., 13/4/2007, n. 8826; Cass., 30/7/2004, n. 14638) – di un aggravamento delle condizioni di salute del paziente, in modo da porre il medesimo in condizione di assentire al trattamento sanitario con una volontà consapevole delle sue implicazioni, sicchè tale trattamento possa dirsi avvenuto previa prestazione di un valido consenso alla stregua di quanto sopra esposto (v. Cass., 14/3/2006, n. 5444).

Il professionista ha pertanto il dovere di informare il paziente sulla natura dell’intervento, sulla portata e sull’estensione dei suoi risultati, nonchè sulle possibilità e probabilità dei risultati conseguibili.

Diversamente, oltre che l’obbligo di informazione risulta invero violato il dovere di correttezza o buona fede oggettiva nello svolgimento delle trattative e nella formazione del contratto (art. 1337 c.c.), (v. Cass., 14/3/2006, n. 5444).

Orbene, nulla al riguardo risulta invero enunziato nella motivazione dell’impugnata sentenza, avuto in particolare riguardo all’essere stato il paziente T. in effetti debitamente informato dal medico in ordine alle possibili complicazioni, ivi compresa quella poi in concreto verificatasi della perforazione del colon conseguente a "manovre endoscopiche".

Nè, va osservato, l’obbligo di informazione in questione può ritenersi debitamente assolto mediante la mera sottoscrizione -come nella specie – di un generico e non meglio precisato "apposito modulo", dovendo alla stregua di quanto sopra rilevato ed esposto risultare per converso acclarato con certezza che il paziente sia stato dal medico reso previamente edotto delle specifiche modalità dell’intervento, dei relativi rischi, delle possibili complicazioni, ecc..

S’impone pertanto l’accoglimento del ricorso proposto dal T., e la cassazione in relazione dell’impugnata sentenza, con rinvio ad altra sezione della Corte d’Appello di Roma, che procederà ad un nuovo esame della fattispecie, e dei suesposti principi farà applicazione.

Il Giudice di rinvio provvederà anche in ordine alle spese del giudizio di cassazione.

P.Q.M.

La Corte, riunisce il presente ricorso ai ricorsi nn. 5581 e 9007 del 2004. Accoglie il ricorso R.G. 4557 del 2007. Rigetta il ricorso n. 5581/2004 e dichiara assorbito il ricorso incidentale R.G. 9007 del 2004. Cassa e rinvia, anche per le spese, ad altra Sezione della Corte d’Appello di Roma.

Redazione