Corte di Cassazione Civile sez. III 6/11/2008 n. 26610; Pres. Fantacchiotti M.

Redazione 06/11/08
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FATTO

Con atto di citazione F.M. conveniva F.A. davanti al Tribunale di Nola esponendo di essere erede universale di F.R., deceduta in data (omissis) in virtù di testamento olografo 26.10.1998 e pubblicato il 27.1.1999; che il patrimonio della de cuius comprendeva tra l’altro, gli immobili siti in (omissis); che tali immobili, acquistati dalla de cuius con atto notaio ****** 21.12.1987 erano stati successivamente concessi in comodato gratuito e senza determinazione di durata a F. A., fratello della de cuius, e di essa istante; che, sebbene con lettera 15.11.1999 ne fosse stato chiesto il rilascio, il convenuto non vi aveva provveduto.

F.M. chiedeva pertanto che F.A. fosse condannato al rilascio dell’appartamento e del box, nonchè al risarcimento dei danni conseguenti alla illegittima detenzione degli stessi. Si costituiva F.A. eccependo l’inammissibilità ed improcedibilità della domanda proposta con atto di citazione anzichè con ricorso ex art. 447 c.p.c., chiedendone nel merito il rigetto non avendo mai stipulato alcun contratto di comodato con F.R. ed avendo egli acquistato la proprietà dell’immobile per usucapione. Spiegava domanda riconvenzionale al fine di ottenere il riconoscimento in suo favore della proprietà esclusiva dell’appartamento ai sensi dell’art. 1158 c.c..

Il G.I., con ordinanza 2.5.2000, disponeva il mutamento di rito e fissava per la discussione l’udienza dell’1.2.2001, concedendo termine per l’integrazione degli atti introduttivi.

Il Tribunale, esperiti i mezzi istruttori, rigettava le domande principali e accoglieva la domanda riconvenzionale e per l’effetto, dichiarava F.A. proprietario per usucapione dell’immobile sito in (omissis).

Proposto appello da F.M., la Corte d’Appello di Napoli accoglieva l’appello, rigettava la domanda riconvenzionale e, in accoglimento della domanda proposta in primo grado da F. M., condannava F.A. all’immediato rilascio dell’immobile per cui è causa.

La Corte territoriale rilevava, in particolare, come, se era vero, per un verso, che era del tutto mancata la prova della locazione e del comodato, e così che la originaria detenzione fosse riconducibile ai predetti titoli, doveva ritenerci certo, perchè così espressamente dichiarato da F.A., che, comunque, lo stesso aveva ricevuto il bene in forza di contratto preliminare di compravendita con i R. e che tale causa del possesso materiale poteva originare solo una detenzione del bene, non il possesso con animus rem sibi habendi.

Ricorre per Cassazione F.A. con due motivi.

Resiste F.M. con controricorso e ricorso incidentale.

Deposita memoria la controricorrente.

DIRITTO

I procedimenti relativi ai ricorsi devono essere riuniti ai sensi dell’art. 335 c.p.c., perchè si tratta di impugnazioni rivolte contro la stessa sentenza.

Con il primo motivo si denuncia la "violazione dell’art. 1158 c.c., e artt. 115 e 112 c.p.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5, omessa o quanto meno insufficiente motivazione circa un punto decisivo della controversia".

Si evidenzia che, contrariamente a quanto asserito nella sentenza impugnata, F.A. ha sempre dedotto di avere ricevuto il bene in forza ed a seguito di contratto verbale di compravendita e non a seguito f di contratto preliminare.

Si rileva, poi, che, in ogni caso, la Corte territoriale ha errato nel considerare poco decisivi gli atti di esercizio del diritto di proprietà compiuti per oltre venti anni dal F., e, tra questi, il pagamento di imposte gravanti sull’immobile, la partecipazione del F. alle riunioni di condominio nella veste di proprietario per quota millesimale del 49,50, le dichiarazioni dei testi, tra i quali l’amministratore, che hanno concordemente affermato che F.A. si dichiarava proprietario dell’appartamento da lui abitato.

Si aggiunge che la Corte territoriale ha errato anche nel ritenere che F.A. ha comunque riconosciuto il diritto di proprietà di F.M. essendo le testimonianze sulla presunta manifestazione di volontà del F.A. di rilasciare l’appartamento alla sorella M. "del tutto inidonee a contestare gli atti di dominio emergenti dalla svolta istruttoria che dimostravano inequivocamente l’acquisto a titolo di usucapione dell’immobile per cui è causa".

Con il secondo motivo si denuncia la violazione degli artt. 1803 e 1810 c.c., e art. 112 c.p.c., falsa applicazione dell’art. 948 c.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5, vizio di extrapetizione.

Si addebita alla Corte territoriale di avere accolto la domanda di rilascio per un titolo diverso (il diritto di proprietà) da quello allegato dalla parte (il rapporto di comodato) così incorrendo nel vizio di ultrapetizione. Infatti, se è vero che il proprietario della cosa data in comodato può avvalersi, al fine di ottenere la restituzione della cosa, non solo della azione contrattuale ma anche della azione di rivendica, è anche vero che non è facoltà del giudice mutare ex officio il titolo della pretesa e che, conseguentemente, la domanda di rilascio o restituzione del bene può e deve essere decisa solo con riferimento al titolo dedotto dall’interessato.

Il secondo motivo del ricorso principale, che esigenze di ordine logico consigliano di esaminare prima dell’altro, è del tutto privo di fondamento.

Nell’atto di citazione dinnanzi al Giudice di primo grado, che questa Corte ha potere di conoscere attesa la natura del vizio denunciato, F.M. fonda chiaramente la sua domanda non solo sul diritto alla restituzione del bene che compete al comodante nei confronti del comodatario ma anche sul suo diritto di proprietà.

In tal senso depone non solo la circostanza che la predetta parte indica espressamente la sua qualità di proprietaria del bene, specificando anche il titolo costitutivo di questo suo asserito diritto, ma anche la specifica precisazione del titolo della sua pretesa nella parte conclusiva della citazione in cui si legge testualmente "la istante, per parte sua, in quanto proprietaria di quei beni è legittimata attivamente alla proposizione del presente giudizio".

Tale prospettazione della domanda è implicita nel secondo motivo di appello della F. dato che in esso, dopo essersi con il primo motivo dedotto che vi era la prova del comodato, e del diritto, quindi, della comodante alla restituzione del bene dal comodatario, si evidenzia come non fosse comunque provato il possesso ultraventennale, indirettamente ricollegando il diritto alla riconsegna al diritto di proprietà, che appunto, indipendentemente dal titolo contrattuale, attribuisce il predetto diritto nei confronti del possessore senza titolo fino a quando questo non abbia a sua volta acquistato la proprietà per usucapione.

Nel considerare la domanda di rilascio o riconsegna dell’appartamento sulla base dell’accertato diritto di proprietà della appellante la Corte territoriale non si è affatto pronunciata, dunque, oltre i limiti delle domande originariamente proposte dalla parte e dalla stessa reiterate con i motivi di appello.

Infondate sono anche le diverse censure nella quali si articola il primo motivo.

E’ vero che nelle sue difese F.A. fa generico riferimento ad un contratto di compravendita non seguito da atto pubblico con gli originari proprietari dell’appartamento ma le dichiarazioni degli stessi testimoni richiamati dal ricorrente, tra le quali quella di Fe.Ma., puntualmente riprodotta nel ricorso, chiariscono espressamente che il negozio concluso dal F.A. con i R. nell’anno 1968 era proprio un contratto preliminare ("compromesso") seguito dal pagamento di un acconto.

La Corte territoriale si è dunque limitata a leggere le difese del F. alla luce delle dichiarazioni chiarificatrici dei testi da lui stesso indicati per approdare ad una interpretazione delle predette difese, che genericamente invocavano un contratto verbale di acquisto, senza specificarne il contenuto, in linea con le dichiarazioni integrative e chiarificatrici dei testi.

Ciò esclude il vizio denunciato.

Non vi è dubbio, infatti, che il Giudice non ha il potere di attribuire alla parte ammissione di fatti in contrasto con il contenuto effettivo delle difese assunte, ma, a parte la difficoltà di ricondurre un siffatto errore nell’ambito del vizio di ultrapetizione, piuttosto che in quello del travisamento del fatto, certo è che è proprio del Giudice di merito il potere di interpretare le difese delle parti per individuare i fatti controversi e quelli pacificamente ammessi.

La successiva censura (la Corte territoriale ha errato nel considerare poco decisivi gli atti di esercizio del diritto di proprietà compiuti per oltre venti anni dal F.) mostra solo come il ricorrente non abbia colto il senso della motivazione della sentenza impugnata.

La Corte non ha valutato la credibilità o meno delle prove indicate ma, accertato che il F. ha cominciato ad avere la detenzione, e non il possesso, dell’appartamento, ha solo applicato il principio dell’art. 1141 c.c., u.c., a norma del quale se alcuno ha cominciato ad avere la detenzione non può acquistare il possesso finchè il titolo non venga ad essere mutato per causa proveniente da un terzo o in forza di opposizione da lui fatta contro il possessore; principio questo che appunto esclude la rilevanza giuridica delle attività che, anche ove volessero ritenersi indicative di un animus rem sibi habendi, non potrebbero comunque modificare in possesso l’originario rapporto del F. con la cosa.

La rilevata infondatezza delle predette censure rende del tutto superfluo l’esame dell’ultima delle censure che concorrono a comporre il primo motivo ( riconoscimento, da parte del F., del diritto di proprietà della sorella M.); investendo, infatti, solo un argomento di sostegno della motivazione della sentenza impugnata sui presupposti o condizioni della eccepita usucapione, essa, anche se fosse fondata, non riuscirebbe a capovolgere la conclusione alla quale è pervenuto sul punto il Giudice di merito sulla base del primo e fondamentale argomento.

Per altro la censura investe solo l’apprezzamento compiuto dal Giudice di merito sulle prove del riconoscimento, da parte del F., del diritto di proprietà della sorella e deve considerarsi per ciò stesso inammissibile.

Con il primo motivo del ricorso incidentale si denuncia la "violazione dell’art. 360 c.p.c., n. 3, in relazione agli artt. 1810, 1771, 1176 c.c.". Si sostiene che, accertato l’illegittimo protrarsi della detenzione, la Corte non avrebbe potuto negare il danno, che è in re ipsa, solo perchè è mancata una prova specifica che il giudice avrebbe potuto acquisire servendosi del parere di un consulente tecnico.

Il motivo è fondato.

La Corte ha disatteso la domanda risarcitoria della F. perchè ha ritenuto necessaria la prova rigorosa di un concreto pregiudizio sofferto dalla proprietaria a causa della occupazione del suo immobile.

Ma questa Corte ha ripetutamente affermato che in caso di occupazione senza titolo di un cespite immobiliare altrui, il danno subito dal proprietario è "in re ipsa", discendendo dalla perdita della disponibilità del bene e dall’impossibilità di conseguire l’utilità ricavabile dal bene medesimo in relazione alla natura normalmente fruttifera di esso. La determinazione del risarcimento del danno ben può essere, in tal caso, operata dal Giudice sulla base di elementi presuntivi semplici, con riferimento al c.d. danno figurativo e, quindi, con riguardo al valore locativo del bene usurpato. Sentenza n. 10498 del 08/05/2006 (Rv. 591331) Sentenza, n. 827 del 18/01/2006 (Rv. 587382).

Accertata l’occupazione senza titolo, la Corte non avrebbe potuto negare il diritto al risarcimento del danno nè escludere la prova, in concreto, di tale danno senza verificare che non ricorressero elementi presuntivi per una liquidazione del danno figurativo, nella misura corrispondente al guadagno, ancorchè modesto, che la proprietaria avrebbe potuto trarre dalla locazione dell’immobile.

Con il secondo motivo del ricorso incidentale si denuncia la violazione dell’art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5, sostenendosi che la Corte territoriale ha errato nel negare il fondamento della domanda di restituzione delle somme pagate ad F.A. per dare esecuzione alla sentenza di primo grado.

Infatti, contrariamente a guanto sostenuto nella sentenza impugnata, il pagamento di queste somme (Euro 2.580,46, per spese processuali) risulta puntualmente documentato da specifica quietanza, puntualmente depositata in cancelleria.

Il motivo è inammissibile.

Denunciando un errore di percezione delle prove documentali, esso prospetta, infatti, travisamento del fatto non deducibile come motivo di ricorso in cassazione.

La rilevata fondatezza del primo motivo del ricorso incidentale conduce alla cassazione, sul punto, della sentenza impugnata con rinvio al Giudice di merito anche per la pronuncia sulle spese.

In conclusione la sentenza impugnata va cassata in relazione al motivo accolto con rinvio anche per le spese alla Corte d’Appello di Napoli in diversa composizione.

P.Q.M.

La Corte riunisce i ricorsi. Rigetta il ricorso principale ed il secondo motivo dell’incidentale. Accoglie il primo motivo del ricorso incidentale. Cassa in relazione al motivo accolto e rinvia anche per le spese alla Corte d’Appello di Napoli in diversa composizione.

Redazione