Corte di Cassazione Civile sez. III 22/6/2009 n. 14552; Pres. Varrone M.

Redazione 22/06/09
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SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Con sentenza 12-26 gennaio 2005, la Corte d’Appello di Torino accoglieva in parte l’appello proposto da M.M.E. avverso la decisione del Tribunale eporediese del 27 giugno – 1 luglio 2003, condannando la stessa a pagare a titolo di risarcimento danni a M.M.P. la minor somma di Euro 10.000,00 quale indennizzo del danno morale subito in conseguenza del fatto illecito descritto nell’atto di citazione.

La professoressa M.M.P., insegnante presso il liceo scientifico (omissis) aveva chiesto, nell’atto introduttivo del giudizio, la condanna della collega M.M.E. al risarcimento del danno, quantificato in L. duecentomilioni, per avere pronunciato nei suoi confronti, in più riprese, frasi diffamatorie.

Il primo giudice, riconosciuta la fondatezza della domanda attrice, condannava la M.M.E. al pagamento di L. quarantamilioni, a titolo di danni morali, per le espressioni rivolte alla M.M. P. prima della causa, oltre al pagamento di ulteriori L. 2.500.000, allo stesso titolo, per le espressioni offensive utilizzate in corso di causa nei confronti della attrice M.M.P..

La Corte territoriale, accogliendo in parte l’appello della *******, riduceva l’importo del risarcimento già riconosciuto dal Tribunale per le espressioni usate contro la M.M.P. prima della causa (lasciando ferma la condanna ad ulteriori 2.500,00 Euro, a titolo di danno morale, per le espressioni formulate in corso di causa).Avverso tale decisione la M.M.E. ha proposto ricorso per cassazione sorretto da cinque motivi Resiste la M.M.P. con controricorso.

MOTIVI DELLA DECISIONE

Con il primo motivo la ricorrente M.M.E. denuncia violazione e falsa applicazione degli artt. 2697, 2043 e 2059 c.c., nonchè insufficiente e contraddittoria motivazione su un punto decisivo della controversia.

La ricorrente aveva sempre negato di aver proferito le frasi ascrittele.

Sarebbe stato preciso onere della attrice dimostrare i fatti posti a fondamento della domanda e il carattere lesivo delle frasi pronunciate nei confronti della M.M.P..

Questa ultima aveva precisato, nell’atto di citazione, che la M.M.E. aveva pronunciato frasi offensive nei suoi riguardi in ben tre diverse occasioni.

Con il secondo motivo la ricorrente deduce ulteriore profilo di violazione e falsa applicazione degli artt. 2687, 2043 e 2059 cod. civ..

Anche per il secondo episodio (quello definito con la accusa di "voto di scambio") come nel caso del primo (nel quale la M.M.E. aveva riferito di aver visto la M.M.P., ufficialmente ammalata e non presente in servizio, passeggiare con una amica e collega sotto i portici di (omissis)), i giudici di appello non avevano tenuto conto del fatto che la M.M.E. si era limitata a fare una battuta scherzosa con gli alunni, in risposta ad alcune lamentale mosse nei confronti della M.M.P..

Con il terzo motivo, la ricorrente denuncia ancora nullità della sentenza e del procedimento (art. 360 c.p.c., n. 4) in relazione alla erronea affermazione di un giudicato interno sulla prova, nonchè insufficiente e contraddittoria motivazione in ordine alla istanza di ammissione delle prove testimoniali dedotte.

La M.M.E. aveva dedotto prova contraria mediante gli stessi testi indicati sui capi oggetto della copia diretta ed i testi indicati dalla controparte, prova mai rinunciata e puntualmente riproposta in appello con specifico motivo di gravame.

Erroneamente il giudice di appello aveva ritenuto inammissibile il gravame sul punto, sul presupposto della mancata riproposizione della istanza in sede di precisazione delle conclusioni e, successivamente, nell’atto di appello.

Con il quarto motivo la ricorrente deduce motivazione contraddittoria ed insufficiente, in ordine alla valutazione della prova nonchè violazione e falsa applicazione degli artt. 2700 e 2714 c.c..

L’appellante aveva dedotto che la decisione del Tribunale avesse fatto proprie solo alcune delle deposizioni rese dai testimoni escussi, senza tener conto delle altre dichiarazioni.

I giudici di appello non avevano tenuto nel debito conto del fatto che gli alunni avevano reso – inammissibilmente – dichiarazioni scritte, frutto di un preventivo accordo tra tutti i sottoscrittori.

Senza adeguata motivazione, la Corte territoriale aveva concluso che non vi era prova di un accordo tra i testimoni (quanto meno documentale), aggiungendo che in ogni caso si trattava di circostanza del tutto irrilevante, dovendo invece tenersi conto solo del fatto se tali dichiarazioni scritte corrispondessero – o meno – a verità.

Con il quinto motivo la ricorrente deduce violazione e falsa applicazione di legge, con riferimento all’art. art. 598 c.p., art. 2059 cod. civ., nullità della sentenza e del procedimento (art. 360 c.p.c., n. 4) per ultrapetizione, insufficiente motivazione, in ordine alla sanzione irrogata per asserita violazione dell’art. 89 c.p.c..

I giudici di appello non avevano percepito come la diversa qualificazione giuridica dagli stessi impressa ai fatti, rispetto alla pronuncia del Tribunale ed alla mera richiesta dell’appellata di confermare la sentenza di primo grado, concretasse di fatto il vizio di ultrapetizione, in difetto di uno specifico appello incidentale da parte della prof. M.M.P..

Infine i giudici di appello non avevano tenuto conto che il fatto addebitato al difensore, pur non costituendo reato e dunque indubbiamente dotato di minore attitudine lesiva, sarebbe finito per essere sanzionato con un risarcimento per danno morale da Euro 2.500,00 che corrisponde al parametro risarcitorio adottato normalmente dal medesimo ufficio.

Osserva il Collegio:

i cinque motivi di ricorso, da esaminare congiuntamente in quanto connessi tra di loro, non sono fondati.

E’ opportuno premettere che, attraverso la denuncia di vizi della motivazione e di violazione di norme di legge, in realtà la ricorrente sollecita una diversa interpretazione del materiale probatorio acquisito.

Quanto alla denuncia contenuta nel terzo motivo, i giudici di appello hanno spiegato ampiamente le ragioni che l’avevano indotta a rigettare la istanza di ammissione della prova, già negata in primo grado (e non riproposta ai sensi dell’art. 178 c.p.c., comma 1) e della quale peraltro non erano neppure riportati integralmente i capitoli di prova.

Con motivazione logica e adeguata i giudici di appello hanno esaminato le risultanze istruttorie ed hanno concluso che la prof. M.M.E. aveva indubbiamente proferito le frasi addebitatele, che non vi era prova alcuna che i fatti dalla stessa prospettati fossero veri, che la M.M.E. non aveva alcuna veste per esercitare forme di controllo sulla attività della collega M.M.P. nè per riferire agli allievi in ordine al rispetto, da parte della M.M.P., della normativa in materia di assenze per malattia.

Non vi era poi il pubblico interesse alla divulgazione delle notizie oggetto della comunicazione verbale in questione.

Era stato, infine, violato il canone di continenza formale, avendo la M.M.E. utilizzato espressioni maligne, quali l’accostamento dei concetti di shopping a quello di depressione da un lato ed il ricorso alla sgradevole e pesante accusa di "comprare con i voti" il consenso degli alunni, al fine di ottenere l’assoluzione nell’ambito della indagine ispettiva originata dai contrasti all’interno del corpo insegnante della scuola e dalle lamentele di una madre di una alunna.

Pertanto, la Corte territoriale ha ritenuto il carattere ingiurioso delle espressioni usate dalla prof. M.M.E. prima della causa e nella comparsa di risposta di primo grado (qualificandolo secondo i parametri del torto civile, ai sensi dell’art. 89 c.p.c., anzichè della responsabilità da reato, come ritenuto dal primo giudice, che le aveva ritenuto come una seconda e gratuita diffamazione).

Queste ultime espressioni, ha sottolineato la Corte Territoriale, non avevano alcun nesso funzionale con l’oggetto della causa e si risolvevano solo in una offesa, basata, tra l’altro, su considerazioni valutative e soggettive, prive di ogni nesso con le esigenze argomentative che avrebbero giustificato la invocazione del diritto di difesa quale lecita causa scriminante.

In tal modo, i giudici di appello hanno dimostrato di conoscere e condividere interamente il consolidato insegnamento di questa Corte, per il quale: "Nel conflitto tra il diritto a svolgere la difesa giudiziale nel modo più largo ed insindacabile ed il diritto della controparte al decoro ed all’onore, l’art. 89 cod. proc. civ., ha attribuito la prevalenza al primo, nel senso che l’offesa all’onore ed al decoro della controparte comporta l’obbligo del risarcimento del danno nella sola ipotesi in cui le espressioni offensive non abbiano alcuna relazione con l’esercizio del diritto di difesa.

Siffatto obbligo non sussiste, invece, nel caso in cui le suddette espressioni, pur non trovandosi in un rapporto di necessita con le esigenze della difesa, presentino, tuttavia, una qualche attinenza con l’oggetto della controversia e costituiscano, pertanto, uno strumento per indirizzare la decisione del giudice e vincere la lite".

Quanto alle frasi indicate nell’atto di citazione dalla attrice, ritenutane la natura offensiva, giudici di appello hanno proceduto ad una nuova liquidazione del danno morale, spiegando i criteri adottati e tenendo conto del fatto che i percettori della offesa erano giovani allievi sottoposti all’insegnamento ed alla attività educativa della prof. M.M.P. e che, quindi, la lesione della reputazione si era concretata in un ambito particolarmente protetto e tutelato.

I giudici di appello non hanno deciso su una domanda o su un fatto diverso da quello enunciato con l’atto introduttivo.

Essi si sono invece limitati a dare una qualificazione giuridica del fatto, diversa da quella indicata dal primo giudice, senza incorrere, tuttavia, nel divieto di domande nuove sancito dall’art. 345 c.p.c. (Cass. 21 giugno 2004 n. 11470) per il quale è precluso il mutamento, nel giudizio di secondo grado, degli elementi materiali del fatto costitutivo della pretesa e non della diversa qualificazione giuridica del rapporto dedotto in giudizio in relazione a quelli già acquisiti al processo.

Conclusivamente il ricorso deve essere rigettato.

Sussistono tuttavia giusti motivi, in considerazione del parziale, diverso esito della controversia in primo e secondo grado, per disporre la compensazione delle spese del giudizio di Cassazione.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso.

Compensa le spese del giudizio di Cassazione.

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