Corte di Cassazione Civile sez. III 19/2/2008 n. 4279; Pres. Mazza F.

Redazione 19/02/08
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SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Con citazione notificata l’1.3.1997 A.F. conveniva davanti al tribunale di Brescia la s.n.c. Nuovo Parking Sport di **************** e C., nonchè la s.p.a. Ras Assicurazioni per sentirle condannare al risarcimento dei danni che assumeva aver subito per infortunio occorsogli nel pomeriggio del 16 agosto 1993, allorchè si era tuffato nelle acque del lago di Garda da un pontile di attracco per imbarcazioni situato in località lido di (omissis) a causa del basso livello dell’acqua ed andando ad urtare con il capo contro il fondo sabbioso. La convenuta resisteva alla domanda e proponeva nei confronti della Ras domanda di garanzia. Il Tribunale con sentenza del 3.2.2002 rigettava la domanda. Proponeva appello l’attore.

La corte di appello di Brescia, con sentenza depositata il 14.4.2003, rigettava l’appello.

Riteneva la corte di merito che il fatto si era verificato nonostante che l’attore numerose volte si era tuffato in quel giorno; che anche altre persone si tuffavano da quel pontile; che il pontile era tuttavia utilizzato dalla convenuta proprietaria per l’attracco delle imbarcazioni; che non era provato che essa fosse consapevole che veniva utilizzato per i tuffi; che il pontile non era dotato di intrinseca pericolosità; che in ogni caso il fatto era stato causato dal comportamento dell’attore che era ben consapevole della profondità dell’acqua, dell’altezza del pontile e della sua destinazione, e non da una pericolosità del pontile stesso, tenuto conto che lo stesso attore in precedenza, come gli altri che si erano tuffati, non aveva riportato danni. Avverso questa sentenza ha proposto ricorso per Cassazione l’attore.

Resistono con controricorsi la s.n.c. Nuovo Parking Sport di **************** e la Ras assicurazione, che ha anche presentato memoria.

MOTIVI DELLA DECISIONE

1. Con il primo motivo di ricorso il ricorrente lamenta la violazione dell’art. 2051 c.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3, per avere la corte di appello attribuito efficacia scusante e/o scriminante alla circostanza che non era stata adeguatamente provata la conoscenza da parte della convenuta della pericolosità dei tuffi dal trampolino, nonostante la natura oggettiva della responsabilità ex art. 2051 c.c.. Assume la ricorrente che nella fattispecie era risultato provato dai testi escussi che numerose persone usavano il pontile per effettuare i tuffi, con la conseguenza che era prevedibile l’uso anomalo dello stesso da parte dell’attore, con conseguente pericolosità del pontile, stante il basso fondale del lago in cui esso era apposto.

2. Con il secondo motivo di ricorso il ricorrente lamenta la violazione dell’art. 2051 c.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3, per aver la corte ritenuto che la responsabilità ex art. 2051 c.c., presupponga un positivo accertamento dell’intrinseca pericolosità della cosa da cui è scaturito il danno.

3.1. I due motivi, essendo astrattamente connessi, vanno esaminati congiuntamente.

Essi sono infondati e vanno rigettati, pur dovendosi correggere, ai sensi dell’art. 384 c.p.c., ult. comma, la motivazione in diritto relativamente alla ritenuta rilevanza dell’inconsapevolezza del custode.

La giurisprudenza costante di questa Corte ha per lungo tempo ritenuto che la responsabilità per danni cagionati da cosa in custodia, ex art. 2051 c.c., ha base: a) nell’essersi il danno verificato nell’ambito del dinamismo connaturato alla cosa o dallo sviluppo di un agente dannoso sorto nella cosa; b) nell’esistenza di un effettivo potere fisico di un soggetto sulla cosa, al quale potere fisico inerisce il dovere di custodire la cosa stessa, cioè di vigilarla e di mantenerne il controllo, in modo da impedire che produca danni a terzi.

3.2. A fronte del suddetto orientamento giurisprudenziale tradizionale, che individuava nella norma in questione un caso di presunzione di colpa, per cui il fondamento della responsabilità sarebbe stato pur sempre il fatto imputabile dell’uomo (nella specie del custode), che era venuto meno al suo dovere di controllo e vigilanza perchè la cosa non producesse danni a terzi, la maggioranza della dottrina recente ritiene che il comportamento del responsabile è estraneo alla fattispecie e fa quindi giustizia di quei modelli di ragionamento che si limitano ad accertare la colpa del custode, sia essa presunta o meno, parlando in proposito di caso di responsabilità oggettiva. La responsabilità per i danni cagionati da cose in custodia (art. 2051 c.c.) ha carattere oggettivo e, perchè possa configurarsi in concreto, è sufficiente che sussista il nesso causale tra la cosa in custodia e il danno arrecato, senza che rilevi al riguardo la condotta del custode e l’osservanza o meno di un obbligo di vigilanza, in quanto la nozione di custodia nel caso rilevante non presuppone nè implica uno specifico obbligo di custodire analogo a quello previsto per il depositario, e funzione della norma è, d’altro canto, quella di imputare la responsabilità a chi si trova nelle condizioni di controllare i rischi inerenti alla cosa, dovendo pertanto considerarsi custode chi di fatto ne controlla le modalità d’uso e di conservazione, e non necessariamente il proprietario o chi si trova con essa in relazione diretta. Ne consegue che tale tipo di responsabilità è esclusa solamente dal caso fortuito, fattore che attiene non già ad un comportamento del responsabile bensì al profilo causale dell’evento, riconducibile non alla cosa che ne è fonte immediata ma ad un elemento esterno, recante i caratteri dell’imprevedibilità e dell’inevitabilità, a nulla viceversa rilevando che il danno risulti causato da anomalie o vizi insorti nella cosa prima dell’inizio del rapporto di custodia (ex multis Cass. 10/03/2005, n. 5326; Cass. 10/08/2004, n. 15429, Cass. 15/03/2004, n. 523/6; Cass. 15/01/2003, n. 472; Cass. 20/08/2003, p. 12219; Cass. 9/04/2003, n. 5578; Cass. 15/01/2003, n. 472; Cass. 17.1.2001, n. 584).

3.3. Ritiene questa Corte di dover ribadire tale orientamento. Solo il "fatto della cosa" è rilevante (e non il fatto dell’uomo).

La responsabilità si fonda sul mero rapporto di custodia e solo tale stato di fatto e non l’obbligo di custodia può assumere rilievo nella fattispecie.

Il profilo del comportamento del responsabile è di per sè estraneo alla struttura della normativa; nè può esservi reintrodotto attraverso la figura della presunzione di colpa per mancata diligenza nella custodia, giacchè il solo limite previsto dall’articolo in esame è l’esistenza del caso fortuito ed in genere si esclude che il limite del fortuito si identifichi con l’assenza di colpa. Va, quindi, affermata la natura oggettiva della responsabilità per danno di cose in custodia. La dottrina parla, al riguardo, di "rischio" da custodia, più che di "colpa" nella custodia ovvero, seguendo l’orientamento della giurisprudenza francese di "presunzione di responsabilità" e non di "presunzione di colpa".

Ne consegue che nella fattispecie è irrilevante che la convenuta non avesse la consapevolezza del fatto che il pontile veniva utilizzato in modo anomalo dai bagnanti: rilevanza, invece, erratamente affermata dalla sentenza impugnata.

3.4. Osserva questa Corte che il dato lessicale della norma in esame ritiene sufficiente, per l’applicazione della stessa, la sussistenza del rapporto di custodia tra il responsabile e la cosa che ha dato luogo all’evento lesivo. Sempre dalla lettera dell’art. 2051 c.c. emerge che il danno è cagionato non da un comportamento (per quanto omissivo) del custode, ma dalla cosa (fait de la chose – art. 1384, comma 1, *************), per cui detto comportamento è irrilevante.

Responsabile del danno cagionato dalla cosa è sì colui che essenzialmente ha la cosa in custodia, ma il termine non presuppone ne implica uno specifico obbligo di custodire la cosa, e quindi non rileva la violazione di detto obbligo. Qui la nozione di "custodia" non ha la stessa valenza del diritto romano nè quella propria della responsabilità contrattuale, per cui non comporta l’obbligo comportamentale del soggetto di controllare la cosa per evitare che essa produca danni: essa non descrive null’altro che la relazione tra un soggetto e la cosa che gli appartiene. Il custode negligente non risponde in modo diverso dal custode perito e prudente, se la cosa ha provocato danni a terzi. Ciò è tanto più rilevante se si osserva il contesto ove trovasi la norma in questione e cioè tra altre (artt. 2047, 2048 e 2050 c.c., art. 2054 c.c., comma 1) ben diversamente strutturate, in cui la presunzione non attiene alla responsabilità, ma alla colpa, per cui la prova liberatoria, in siffatte altre ipotesi, ha appunto ad oggetto il superamento di detta presunzione di colpa.

4.1. Il fortuito esclude la responsabilità del custode, ai sensi dell’art. 2051 c.c..

Esso va inteso nel senso più ampio, comprensivo del fatto del terzo e del fatto dello stesso danneggiato, purchè detto fatto costituisca la causa esclusiva del danno (Cass. 10/03/2005, n. 5326; Cass. 28 ottobre 1995, n. 11264; Cass. 26 febbraio 1994, n. 1947).

Poichè la responsabilità si fonda non su un comportamento o un’attività del custode, ma su una relazione (di custodia) intercorrente tra questi e la cosa dannosa, e poichè il limite della responsabilità risiede nell’intervento di un fattore (il caso fortuito) che attiene non ad un comportamento del responsabile (come nelle prove liberatorie degli artt. 2047, 2048, 2050 e 2054 c.c.), ma alle modalità di causazione del danno, si deve ritenere che la rilevanza del fortuito attiene al profilo causale, in quanto suscettibile di una valutazione che consenta di ricondurre all’elemento esterno, anzichè alla cosa che ne è fonte immediata, il danno concretamente verificatosi.

All’attore compete provare l’esistenza del rapporto eziologico tra la cosa e l’evento lesivo; il convenuto per liberarsi dovrà provare l’esistenza di un fattore estraneo alla sua sfera soggettiva, idoneo ad interrompere quel nesso causale.

4.2. A fronte delle resistenze verso un tipo di responsabilità fondata sulla pura causalità, si è osservato che il criterio di imputazione reagisce sul rapporto di causalità. Un rapporto causale concepito allo stato puro tende all’infinito.

La responsabilità oggettiva non può essere pura assenza o irrilevanza dei criteri soggettivi di imputazione, bensì sostituzione di questi con altri di natura oggettiva, i quali svolgono nei confronti del rapporto di causalità la medesima funzione che da sempre è propria dei criteri soggettivi di imputazione nei fatti illeciti. Nella responsabilità oggettiva sono i criteri di imputazione ad individuare la sequenza causale, tendenzialmente infinita, alla quale fare riferimento ai fini della responsabilità.

Tale criterio di imputazione nelle specifiche fattispecie di responsabilità oggettive è fissato dal legislatore con una qualificazione del soggetto, su cui viene fatto ricadere il costo del danno.

La ratio di tale accollo del costo del danno non è più la colpa, ma un criterio oggettivo, che tuttavia rimane fuori dalla norma. Esso fu individuato nella deep pocket (tasca ricca) negli ordinamenti del common law e nella richesse oblige, nella tradizione francese, mentre nell’affinamento dottrinale successivo si è ritenuto che la ratio vada individuata nel principio dell’esposizione al pericolo o all’assunzione del rischio, ovvero nell’imputare il costo del danno al soggetto che aveva la possibilità della cost-benefit analysis, per cui doveva sopportarne la responsabilità, per essersi trovato, prima del suo verificarsi, nella situazione più adeguata per evitarlo nel modo più conveniente, sicchè il verificarsi del danno discende da un’opzione per il medesimo, assunta in alternativa alla decisione contraria.

4.3. Sennonchè, ciò che va ribadito è che quanto sopra individua la ratio del criterio di imputazione del rapporto di causalità ad un determinato soggetto e non ad altri, effettuata a monte dal legislatore, ma non comporta un ulteriore elemento di integrazione della fattispecie di responsabilità, costituito da un sindacato da parte del giudice sulla scelta effettuata dal soggetto su qui la norma accolla il costo del danno. Nella responsabilità oggettiva il giudizio è puramente tipologico e consiste nell’appurare se l’evento che si è verificato appartenga o meno alla serie di quelli che il criterio di imputazione ascrive ad una certa sfera del soggetto per il loro semplice accadere. In questi termini è esatta la centralità del nesso causale nelle ipotesi di responsabilità oggettiva.

5.1. Anche nell’art. 2051 c.c., è rilevante l’eventuale comportamento colposo del danneggiato, poichè esso incide sul nesso causale, come sopra detto.

In un sistema in cui il nesso causale tra il fatto e l’evento svolge un ruolo centrale, diventa fondamentale accertare se l’evento eziologicamente derivi in tutto o in parte dal comportamento dello stesso danneggiato, valutandone, quindi, l’eventuale apporto causale.

L’interruzione del nesso di causalità può essere anche l’effetto del comportamento sopravvenuto dello stesso danneggiato, quando il fatto di costui si ponga come unica ed esclusiva causa dell’evento di danno, sì da privare dell’efficienza causale e da rendere giuridicamente irrilevante il precedente comportamento dell’autore dell’illecito (cfr. Cass. 8.7.1998, n. 6640; Cass. 7 aprile 1988, n. 2737).

5.2. Un corollario di detto principio è la regola posta dall’art. 1227 c.c., comma 1, il quale nel contempo da base normativa al suddetto principio, presupponendolo. Tale norma prevede la riduzione del risarcimento in presenza della colpa del danneggiato: essa è un approdo dei codici moderni. In passato, invece, l’accertamento di una concorrente colpa del danneggiato faceva venir meno la responsabilità del danneggiante, tranne che sussistesse il dolo di costui. Nei sistemi di common law si parlava di contributory negligence, ed attualmente di comparative negligence. Secondo la dottrina classica nel nostro ordinamento esisterebbe un principio di autoresponsabilità, segnatamente previsto dall’art. 1227 c.c., comma 1, oltre che da altre norme, che imporrebbe ai potenziali danneggiati doveri di attenzione e diligenza. L’autoresponsabilità costituirebbe un mezzo per indurre anche gli eventuali danneggiati a contribuire, insieme con gli eventuali responsabili alla prevenzione dei danni che potrebbero colpirli.

5.3. Senza entrare nella questione dell’esistenza nel nostro ordinamento del detto principio di autoresponsabilità, va solo rilevato che la dottrina più recente, che questa Corte ritiene di dover condividere, ha abbandonato l’idea che la regola di cui all’art. 1227 c.c., comma 1, sia espressione del principio di autoresponsabilità, ravvisandosi piuttosto un corollario del principio della causalità, per cui al danneggiante non può far carico quella parte di danno che non è a lui causalmente imputabile.

Pertanto la colpa, cui fa riferimento l’art. 1227 c.c., va intesa non nel senso di criterio di imputazione del fatto (perchè il soggetto che danneggia se stesso non compie un atto illecito di cui all’art. 2043 c.c.), bensì come requisito legale della rilevanza causale del fatto del danneggiato.

5.4. La regola di cui all’art. 1227 c.c., va inquadrata esclusivamente nell’ambito del rapporto causale ed è espressione del principio che esclude la possibilità di considerare danno risarcibile quello che ciascuno procura a se stesso (Cass. 26/04/1994, n. 3957; Cass. 08/05/2003, n. 6988).

La colpa, cui fa riferimento l’art. 1227 c.c. va intesa non nel senso di criterio di imputazione del fatto (perchè il soggetto che danneggia se stesso non compie un atto illecito di cui all’art. 2043 c.c.), bensì come requisito legale della rilevanza causale del fatto del danneggiato.

Proprio perchè è rimasta superata la teoria del principio autoresponsabilità del danneggiato, la colpevolezza del comportamento del creditore-danneggiato, pur richiesta dall’art. 1227 c.c., comma 1, è l’unico elemento di selezione dei vari possibili comportamenti – eziologicamente idonei – del danneggiato, qualunque possa essere l’interpretazione dell’obbligo giuridico, cui si richiama l’art. 41 c.p.c., comma 2, allorchè il danno trovi la sua causa nel comportamento omissivo di altro soggetto. Così ristretta nella funzione la portata della colpa del creditore – danneggiato, stante la genericità dell’art. 1227 c.c., comma 1, sul punto, la colpa sussiste non solo in ipotesi di violazione da parte del creditore-danneggiato di un obbligo giuridico, ma anche nella violazione della norma comportamentale di diligenza, sotto il profilo della colpa generica. Se tanto avviene in caso di concorso del comportamento colposo del danneggiato nella produzione del danno, tenuto conto di quanto sopra esposto su detto istituto, per eguale ragione il comportamento commissivo o omissivo colposo del danneggiato, che sia sufficiente da solo a determinare l’evento, esclude il rapporto di causalità delle cause precedenti (Cass., n. 584/2001; Cass., n. 6616/2000).

5.5. Nel caso in cui l’evento di danno sia da scrivere esclusivamente alla condotta del danneggiato, la quale abbia interrotto il nesso eziologico tra la cosa in custodia ed il danno (Cass. 18/01/2006, n. 832; Cass., n. 5578/2003; Cass., n. 4308/2002; Cass., n. 2231/2001;

Cass., n. 4616/99) si verifica un’ipotesi di caso fortuito, che libera il custode dalla responsabilità di cui all’art. 2051 c.c..

Il giudizio sull’autonoma idoneità causale del fattore esterno ed estraneo, ovviamente, deve essere adeguato alla natura ed alla pericolosità della cosa, sicchè tanto meno essa è intrinsecamente pericolosa e quanto più la situazione di possibile pericolo è suscettibile di essere prevista e superata attraverso l’adozione delle normali cautele da parte dello stesso danneggiato, tanto più incidente deve considerarsi l’efficienza causale del comportamento imprudente del medesimo (costituente fattore esterno) nel dinamismo causale del danno, fino ad interrompere il nesso eziologico tra cosa e danno e ad escludere, perciò, la responsabilità del custode.

Questa responsabilità è stata sempre negata dalla giurisprudenza di questa Corte nella specifica considerazione che il dovere del custode di segnalare il pericolo connesso all’uso della cosa (rectius: la pericolosità della cosa in assenza di caveat) si arresta di fronte ad un’ipotesi di utilizzazione impropria, la cui pericolosità sia talmente evidente ed immediatamente apprezzabile da chiunque, tale da renderla del tutto imprevedibile, sicchè l’imprudenza del danneggiato, che abbia riportato un danno a seguito di siffatta impropria utilizzazione, integra il caso fortuito (Cass. 15.10.2004, n. 20334; Cass., n. 13337/2000; Cass., n. 5796/98; Cass., n. 9568/97).

6.1.11 giudice del merito dei suddetti principi di diritto ha fatto corretta ed esatta applicazione al caso di specie, poichè, con accertamento in fatto non censurabile in questa sede (e peraltro neppure censurato a norma dell’art. 360 c.p.c., comma 5, sotto il profilo del vizio motivazionale), ha escluso il nesso di causalità tra il pontile in questione e l’incidente occorso all’attore, ascrivendo l’evento lesivo esclusivamente al comportamento di quest’ultimo.

La corte di merito ha infatti rilevato anzitutto che l’uso del pontile, al fine di effettuare tuffi, costituiva un uso improprio dello stesso; che in ogni caso l’attore era "nella consapevolezza delle condizioni del contesto (profondità dell’acqua, altezza del pontile, sua destinazione) … Il fatto che quel tuffo, diversamente da quelli praticati dalla folla di bagnanti e dallo stesso attore quel giorno e nei giorni precedenti, sia riuscito male è probabilmente riferibile alle modalità di esecuzione o a qualsiasi altra causa, ma di certo nulla consente di ritenere che la catastrofica riuscita del tuffo fosse stata in qualsiasi misura concausata dal modo di essere del pontile o da qualche anomalia in esso sopravvenuta o scatenatasi". 6.2. Il ricorso va, pertanto, rigettato.

Esistono giusti motivi per compensare per intero tra le parti le spese del giudizio di Cassazione.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso. Compensa tra le parti le spese del giudizio di Cassazione.

Redazione