Corte di Cassazione Civile sez. III 16/4/2008 n. 9971; Pres. Filadoro C., Est. Bisogni G.

Redazione 16/04/08
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SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

D.M.M. conveniva, davanti al Tribunale di Torre Annunziata, D.M.L. deducendo che, all’atto della stipulazione del contratto di locazione intercorso fra le parti, il convenuto locatore aveva ricevuto indebitamente la somma di L. 24.000.000. Chiedeva la condanna del D.M. alla restituzione di tale somma con interessi legali dalla corresponsione al saldo e al risarcimento del danno.

Si costituiva D.M.L. e chiedeva il rigetto della domanda deducendo che la somma di L. 12.000.000, percepita al momento della stipulazione del contratto, altro non era se non la differenza fra il canone indicato nel contratto e il canone equo ammontante a misura maggiore.

Il Tribunale, con sentenza del 2 novembre 2000, rigettava la domanda.

La Corte di appello di Napoli, con sentenza n. 2680/2003, accoglieva invece l’appello della D.M. e condannava il D.M. al pagamento della somma di L. 8.000.000 pari a Euro 4.131,66, oltre interessi dalla domanda al saldo. Dichiarava compensate le spese dei due gradi di giudizio.

Ricorre per cassazione D.M.L. affidandosi a tre motivi di impugnazione.

Si difende con controricorso e propone a sua volta ricorso incidentale, basato su due motivi, D.M.M..

MOTIVI DELLA DECISIONE

Preliminarmente va dichiarata la riunione dei ricorsi.

In primo luogo vanno esaminate le eccezioni di inammissibilità del ricorso per difetto di procura nella copia notificata del ricorso, per difetto della abilitazione al patrocinio davanti la Corte di Cassazione di almeno uno dei difensori, per mancata indicazione delle norme violate dalla sentenza di appello.

Quanto alla prima e alla seconda eccezione si rileva che la procura risulta rilasciata a margine del ricorso e ciò rende irrilevante la sua eventuale mancanza nella copia notificata al ricorrente; per altro verso la deduzione di un difetto di abilitazione al patrocinio in cassazione è del tutto generica e non provata.

L’indicazione, ai sensi dell’art. 366 c.p.c., n. 4, delle norme che si assumono violate non si pone come requisito autonomo ed imprescindibile ai fini dell’ammissibilità del ricorso per cassazione, ma come elemento richiesto al fine di chiarire il contenuto delle censure formulate e di identificare i limiti della impugnazione, sicchè la mancata od erronea indicazione delle disposizioni di legge non comporta l’inammissibilità del gravame ove gli argomenti addotti dal ricorrente, valutati nel loro complesso, consentano di individuare le norme o i principi di diritto che si assumono violati e rendano possibile la delimitazione del "quid disputandum" (Cassazione civile, sezione 3^, n. 12929 del 4 giugno 2007 Rv. 597308).

Con il primo motivo di ricorso si deduce la nullità della sentenza per violazione del principio della competenza funzionale per materia.

Ritiene il ricorrente che, trattandosi di azione di ripetizione di quanto pagato in eccedenza dell’equo canone, sussisteva la competenza funzionale del Pretore di Sorrento in primo grado.

L’omesso mutamento del rito da ordinario a speciale, ai sensi dell’art. 426 c.p.c., mutamento previsto, per i giudizi nelle materie indicate dallo stesso art. 447 bis, pendenti alla data del 30 Aprile 1995, dalla citata L. n. 353 del 1990, art. 90,comma 7, non spiega effetti invalidanti, neanche in grado di appello, come già chiarito dalla giurisprudenza di legittimità con riferimento all’art. 426 citato, sulla sentenza, tranne che abbia inciso sulla determinazione della competenza, sul contraddittorio, sui diritti della difesa o sul regime delle prove (Cassazione civile, sezione 3^, n. 4159 del 26 aprile 1993, Rv. 525769, Cassazione civile, sezione 3^, n, 8611 del 12 aprile 2006, Rv. 590117).

Nelle cause locatizie, alle quali si applica il rito del lavoro per espressa previsione legislativa (art. 447 bis c.p.c.), l’appello si propone con ricorso e, se è formulato con citazione, è inammissibile per inosservanza della forma prescritta;

l’inammissibilità è, peraltro, evitata, cosicchè rimane soltanto un problema di mutamento del rito che può avvenire in corso di giudizio, nel caso in cui la citazione sia depositata in cancelleria entro il termine per la proposizione dell’appello, essendo in tal modo ugualmente conseguita la finalità della legge; l’eventuale trattazione della causa in appello con rito ordinario invece che con rito speciale determina una semplice irregolarità che assume rilievo ai fini dell’impugnazione esclusivamente se abbia arrecato alla parte un pregiudizio processuale incidente sulla competenza, sul regime delle prove o sui diritti di difesa (Cassazione civile sezione 3^ n. 8947 del 18 aprile 2006, Rv. 588736).

Con il secondo motivo di ricorso si deduce la nullità della sentenza per violazione del principio dell’onere della prova. Secondo il ricorrente gravava infatti sulla attrice in primo grado qualificare la domanda come azione di ripetizione collegata o meno alla declaratoria di nullità della L. n. 392 del 1978, ex art. 79, e dedurre e dimostrare che la somma, versate in unica soluzione, al momento della conclusione del contratto, eccedeva comunque, se sommata al canone contrattuale, la misura del canone equo.

Il motivo è infondato. Sul punto della qualificazione della domanda di restituzione della L. n. 392 del 1978, ex art. 79, la Corte di appello ha già chiarito come la conduttrice avesse chiaramente qualificato la domanda come azione di ripetizione fondata sul disposto del citato art. 79. D’altra parte, come ha rilevato correttamente la Corte di appello, la difesa del locatore si è incentrata proprio sul contrasto di questa domanda sotto il profilo della contestazione della circostanza relativa al percepimento di somme eccedenti il canone equo. A tale proposito il locatore ricorrente ritiene che via sia stata violazione del principio dell’onere della prova perchè il Giudice dell’appello ha omesso di valutare il mancato assolvimento, da parte della conduttrice, dell’onere di provare l’ammontare del canone equo e il suo illegittimo superamento per effetto della somma corrisposta una tantum all’inizio della locazione.

In relazione a questa difesa la Corte osserva in primo luogo che "con riguardo alla locazione di immobile urbano, la L. 12 agosto 1974, n. 351, art. 2 ter, (applicabile in quanto disposizione non vincolistica in senso stretto anche alle locazioni non soggette alla proroga legale) il quale commina la nullità delle clausole contrattuali di corresponsione anticipata del canone per periodi superiori a tre mesi, detta una norma pienamente compatibile, oltrechè con la disciplina della L. 21 luglio 1978, n. 392, in tema di locazione di immobile ad uso abitativo, con le disposizioni della stessa legge in materia di locazioni ad uso diverso dall’abitazione, considerato che per queste ultime, mentre non può avere rilievo in senso contrario alla suddetta compatibilità la libera determinabilità del canone (che non implica logicamente la totale libertà delle parti di definirne le modalità di pagamento) la clausola che preveda la corresponsione anticipata del canone, oltre una determinata misura, può avere l’effetto di neutralizzare per il locatore l’incidenza della eventuale diminuzione del potere di acquisto della moneta al di la di quanto consentitogli dalla sopraindicata L. n. 392, art. 32, ed incorre quindi nella sanzione di nullità che colpisce ogni pattuizione attributiva per il locatore di vantaggi superiori a quelli previsti dalla legge stessa, alla quale si sottraggono, secondo la valutazione preventiva ed insindacabile espressa dal legislatore nella menzionata L. n. 351, art. 2 ter, solo le clausole di pagamento anticipato del canone in misura non eccedente le tre mensilità" (Cassazione civile, sezione 3^, n. 6274 del 10 luglio 1996, Rv. 498460).

Su questo presupposto è errato ritenere che nella specie la conduttrice fosse tenuta a provare che il cumulo del canone contrattuale con la somma corrisposta all’inizio del rapporto superasse la misura del canone equo. A parte l’improprietà e la contrarietà alla legge di una tale forma di corresponsione del canone, va rilevato infatti che le parti ben possono vincolarsi a un canone contrattuale inferiore a quello equo. Sarebbe gravato semmai sul locatore l’onere di provare che le parti intesero con questa impropria forma di regolamentazione del suo pagamento determinare il canone nella misura di quello equo. Sotto questo profilo probatorio va invece rilevato che il ricorrente non ha fornito gli elementi necessari a valutare correttamente la volontà delle parti presentando un ricorso per cassazione del tutto sfornito del requisito della autosufficienza (cfr. Cassazione civile, sezione 2^, n. 3075 del 13 febbraio 2006, Rv. 586462 secondo cui in tema di interpretazione del contratto – riservata al Giudice di merito, le cui valutazioni sono censurabili, in sede di legittimità, soltanto quando la motivazione non consenta di ricostruire l’iter logico seguito da quel Giudice per attribuire all’atto negoziale un determinato significato o per violazione delle regole ermeneutiche stabilite dall’art. 1362 c.c., e ss., il ricorrente per cassazione, per il principio di autosufficienza del ricorso, è tenuto a trascrivere integralmente il contenuto delle clausole asseritamente male interpretate).

Con il terzo motivo di ricorso si deduce la violazione del principio di corrispondenza fra chiesto e pronunciato rilevando che era stato dedotto dall’attrice un versamento di L. 24.000.000, e documentato oltre che riconosciuto un versamento di L. 12.000.000, (pari a Euro 6.197,48) mentre la domanda era stata accolta per l’importo di L. 8.000.000, (pari a Euro 4.131,66). Nonostante la necessità di una valutazione della questione, che verrà effettuata in sede di esame del ricorso incidentale, questo motivo di ricorso si presenta sfornito del necessario requisito dell’interesse alla impugnazione e va pertanto ritenuto inammissibile.

Con il primo motivo del ricorso incidentale si deduce, in relazione all’omesso riconoscimento della somma da restituire la omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione in relazione al contenuto del dispositivo; la violazione e falsa applicazione dell’art. 112 c.p.c.; la contraddizione fra motivazione e dispositivo della sentenza. Si richiede che la Corte in applicazione dell’art. 384 c.p.c., preso atto della erronea quantificazione nel dispositivo della somma al cui pagamento viene condannato il D.M., provveda a determinare correttamente tale somma in Euro 6.197,48.

Il motivo è fondato perchè palesemente la Corte di appello è incorsa in un errore di determinazione della somma spettante alla conduttrice in sede di restituzione come si evince chiaramente dalla lettura complessiva della sentenza stessa che sul punto dovrà pertanto essere cassata con pronuncia sul merito che ridetermini in conformità alla domanda la somma da restituire. La controversia deve essere infatti decisa in base ai medesimi apprezzamenti di fatto che costituivano il presupposto dell’erronea statuizione contenuta sul quantum della somma da restituire (Cassazione civile sezione 3^, n. 11928 del 22 maggio 2006, Rv. 589981).

Con il secondo motivo del ricorso incidentale si deduce la violazione e falsa applicazione dell’art. 91 c.p.c., sul regolamento delle spese processuali e la contraddittoria motivazione sul punto.

Il motivo è inammissibile. Si richiama la giurisprudenza consolidata della Corte secondo cui il sindacato di legittimità è limitato alla violazione del principio secondo cui le spese non possono essere poste a carico della parte totalmente vittoriosa (Cassazione civile, sezione prima, n. 14964 del 2 luglio 2007, Rv. 599769, e n. 9840 dell’11 novembre 1996, Rv. 500467).

In considerazione dell’esito del giudizio il ricorrente va condannato al pagamento delle spese del giudizio di cassazione.

P.Q.M.

La Corte riunisce i ricorsi, rigetta il ricorso principale e il secondo motivo del ricorso incidentale, accoglie il primo motivo del ricorso incidentale, cassa in relazione la sentenza impugnata e, decidendo nel merito, condanna D.M.L. al pagamento della somma di L. 12.000.000, (pari ad Euro 6.197,48) in luogo della somma di L. 8.000.000. Condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali del giudizio di cassazione liquidate in complessivi Euro 1.300,00, di cui Euro 100,00, per spese, oltre spese generali e accessori di legge.

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